Il 15 febbraio è morto Adriano Ossicini – partigiano, politico e psichiatra. Negli anni del nazi-fascismo riuscì a organizzare, presso il Fatebenefratelli di Roma, un reparto per proteggere gli ebrei dalla deportazione. Una delle figure alte della cultura civile e del cattolicesimo italiano.
Correva l’anno 1998. La voce nasale di Giulio Andreotti mi convocò alla celebrazione di un anniversario, il congresso della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) risalente al 1938: «Ci vediamo sotto casa mia, a Corso Vittorio, poi andiamo a Orvieto dove ci aspetta Ossicini».
Puntualissimo come sempre, Andreotti prese posto sul sedile anteriore della Giulietta, accanto al guidatore. A me toccò quello alle sue spalle, accanto all’uomo della scorta, o meglio al mitra che teneva sulle ginocchia. E con l’avviso che affabilmente il poliziotto mi trasmise: «Il presidente riposerà fino all’area di servizio “Giove”, dove prenderemo un caffè; poi gli potrà parlare».
Una proverbiale amicizia
Come facesse Andreotti a «dormire a comando» era un mistero per me. Ma soprattutto non riuscivo a rendermi conto di come riuscisse a passare dal sonno profondo alla veglia più vigile. Lo dimostrò con l’esibizione di una documentazione analitica molto dettagliata sulle spese sostenute per la partecipazione al congresso: tanto per i pasti, tanto per gli alberghi, tanto per lo svago negli intermezzi congressuali.
Dal canto suo, Adriano Ossicini aveva preparato una bordata di informazioni politiche dominate da una chiara impronta antifascista e riassunte nella formula programmatica di «organizzare la speranza», come dire riattivare un principiò significativo di orientamento nel pieno del consenso al regime, leggi razziali comprese.
L’amicizia tra Andreotti e Ossicini era proverbiale. Il primo non si era mai esposto politicamente (e militarmente nella resistenza) quanto il secondo. Ma era sempre pronto a intervenire attraverso un sistema efficacissimo di relazioni tutte le volte che le circostanze lo esigessero, si trattasse di favorire la scarcerazione di un gruppo di partigiani o di far pervenire ai detenuti le prelibate delizie di una torta che solo la mamma di Ossicini sapeva fare.
Si recitava attorno a me, quel pomeriggio orvietano, un lessico familiare in cui stentavo a ritrovarmi e che però sentivo autentico e impegnativo. Rendeva l’idea di un insieme di valori da professare non disgiunti da una rete di accorgimenti tattici posti a salvaguardia dell’incolumità dei protagonisti.
Tra i quali il più esposto non era certamente Andreotti ma, appunto, il suo amico Adriano che, insieme con l’altro sodale Franco Rodano, si era esposto nell’avventura dei “cattolici comunisti” o, secondo la variante più cara ad Ossicini, della «sinistra cristiana».
Pluralismo delle scelte
Anni prima, scorrendo le pagine de Le Acli delle origini di Giuseppe Pasini, e poi i verbali delle presidenze provvisorie delle Acli, 1944, mi ero imbattuto nella manifestazione ante litteram del pluralismo delle scelte politiche dei cattolici italiani, circostanza che ebbe corso… legale finché la regola dell’unità nel voto non venne imposta come criterio universale.
Ma già allora risultava chiaro che, indipendentemente dalle scelte diverse compiute da Andreotti come democristiano doc e da Ossicini come «cristiano non democristiano» c’era uno spazio di contiguità in cui si trasfondevano le ricerche e le sperimentazioni del dopoguerra che andava cercando spazi meno incerti per le proiezioni politiche dei credenti.
E, d’altra parte, non sembrava possibile che la polemica politica degli anni del centrismo potesse travolgere del tutto i lasciti della stagione immediatamente precedente, in cui molti fermenti operavano in vari ambiti dello spazio politico e promettevano, al di là degli scontri della guerra fredda, un ritorno alle categorie della razionalità politica che intanto si ordinavano nella Costituzione.
Mi sono sempre chiesto come mai i due «maggiorenni» di quel pomeriggio orvietano avessero pensato a me per un confronto come quello che riuscimmo a realizzare e che ora mi affiora in mente nelle nebbie di un vago ricordo personale.
Che tuttavia non toglie sostanza ad altri passaggi della vita lunga e movimentata di Adriano Ossicini. Dai combattimenti a Porta San Paolo all’ospitalità data agli ebrei del ghetto di Roma dopo la razzia dei tedeschi, con la curiosa appendice di un morbo inesistente che si sarebbe diffuso nell’Isola Tiberina dove Ossicini era medico e che aveva tenuto lontani i tedeschi per il timore del contagio…
Una biografia della quale si può dire che il protagonista ha saputo adempiere «con disciplina e onore» alle funzioni pubbliche affidategli, secondo lo spirito e la lettera dell’art. 54 della Costituzione.
Ricordo con infinita stima affetto e gratitudine il prof. Ossicini grande psichiatra che mi aiutò in momenti molto duri. Grazie Adriano! Umberto Rondi