La recente scomparsa di don Roberto Sardelli fa ricordare un intero periodo della storia ecclesiastica in Italia tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Alcune figure di sacerdoti che, per strade diverse, si sono posti di fronte alla religiosità, non accontentandosi delle semplici mansioni di culto. Tra queste figure sono da ricordare don Luigi Di Liegro, don Gerardo Lutte, don Giulio Girardi, don Giovanni Franzoni, alcuni preti operai, oltre piccoli movimenti che hanno interessato le cosiddette comunità cristiane di base: dalla Comunità di San Paolo fuori le mura alla Comunità dell’Isolotto a Firenze di don Enzo Mazzi.
Don Roberto aveva incrociato, essendo viceparroco alla parrocchia di San Policarpo nel sud est di Roma, la drammaticità della zona confinante dell’Acquedotto Felice. Una serie di baracche piene di umidità e di miseria. Segue le vicende di don Milani e mette su la celebre scuola 725, dal numero della baracca dove va ad abitare. Si impegna con metodi creativi.
È circondato da sospetti, anche perché si fa promotore della coscienza contro la speculazione edilizia. È di quell’epoca la donazione del terreno, con conseguente urbanizzazione della zona, da parte della famiglia Gerini per la costruzione dell’Università Salesiana. La presenza non è dunque solo testimoniale, ma anche portatrice di istanze sociali. I tempi non sono maturi per una presa in carico di ampi spettri di giustizia e di vicinanza sociale. Il Concilio è terminato già da anni, ma non è entrato nel sentire del popolo di Dio e della sua gerarchia.
È dunque costretto a seguire vie personali, che lo portano in Francia a conoscere l’esperienza dei preti operai, e a continuare l’insistenza della bonifica di quelle baracche che solo, a distanza di anni, saranno sanate. In queste vicende si appoggia alla sinistra politica, scrivendo su giornali chiaramente schierati in termini politici.
È l’errore che lo emarginerà definitivamente: la stessa sorte che toccherà all’abate Franzoni. È il periodo in cui in America Latina si discute della teologia della liberazione.
Ma don Roberto non è un teorico, vuole essere testimone. Il suo ricordo è doveroso perché quell’intero periodo di storia ecclesiastica non è stato mai esaminato e tanto meno valorizzato. Sono rimasti semplici riferimenti per chi li ha vissuti personalmente. Molte vite di sacerdoti quasi immolate per un tentativo di azione che potesse coniugare la sacralità con un impegno concreto di vita e di prospettive.
Ricordo don Nicolino Barra della diocesi di Roma che da viceparroco dove vivevo, improvvisamente diventerà… saldatore!
Qualcuno obietterà che si trattava di posizioni ideologiche: eppure le vite vissute erano autentiche, accompagnate da solitudine e sospetti. Non avevano nulla di eretico o di scismatico, ma erano un percorso da seguire con l’impegno personale. Quella strada non è stata mai riconosciuta e si è spenta con la morte di quei solitari. Un limite grande quello della solitudine: i malevoli dicono che ciò è avvenuto per motivi di protagonismo.
In realtà erano tentativi di dare una svolta al cristianesimo vissuto in termini devozionali. Lo stesso fenomeno si ripeterà agli inizi degli anni ’80 quando – ancora una volta solitari – inventeranno luoghi e strumenti nuovi per dare risposte alla tossicodipendenza, alle carceri, all’immigrazione, alla prostituzione, alla disabilità.
Anche quest’ultimi, già grandi d’età, stanno morendo. L’approccio è meno ideologico, ma più pratico e centrato sui singoli problemi, con attenzione alla solidarietà e alla condivisione. Papa Bergoglio ha dato a queste forme alternative di vita la dignità di presenza cristiana. È presto per dire se sarà assimilata nel sentire ecclesiale. Alcuni segni sono evidenti: le leggi restrittive sull’immigrazione hanno spinto varie diocesi a non tirarsi indietro di fronte all’emergenza.
Trascorrerà ancora del tempo, ma sarà riconosciuto, a chi di dovere, l’autenticità di vita vissute alla sequela di Cristo: testimoni e non solo narratori dell’annuncio evangelico.