Relazione tenuta a Mosca il 12 febbraio da mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, alla conferenza internazionale «La morte e il morire in una società tecnologica: tra biomedicina e spiritualità» (promossa a Mosca in occasione del terzo anniversario dell’incontro del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kirill e Papa Francesco a L’Avana il 12 febbraio 2016.
Eminenze, Eccellenze reverendissime, Egregi professori,
sono lieto e onorato di avere questa possibilità di prendere la parola in un’occasione così importante per la costruzione di una più profonda intesa e collaborazione tra la Chiesa cattolica e il patriarcato di Mosca e dell’intera Chiesa ortodossa russa. Nell’incontro di Cuba di tre anni fa, papa Francesco e il patriarca Kirill hanno messo in evidenza l’importanza del Vangelo e della fede cristiana per la costruzione di una società più giusta e pacifica, per il “rispetto della dignità dell’uomo, chiamato alla vita”. È importante che riconosciamo questa responsabilità e la assumiamo come un impegno comune.
Interpreto come un segno provvidenziale il fatto di essere appena tornato da un viaggio proprio a Cuba deve ho partecipato a un incontro su “L’ordine del mondo nella giustizia e nella pace” in cui si è affrontato il tema di una convivenza più umana e più equa a livello di tutto il pianeta ormai globalizzato. Ho ricordato l’incontro avuto tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill come anche questo nostro congresso che fa seguito alla Dichiarazione comune da loro firmata.
Ci troviamo in un momento storico che richiede una maggiore unità tra i cristiani perché una globalizzazione senza l’ispirazione cristiana è povera di amore e in preda ai conflitti. E purtroppo è quel che tanto spesso abbiamo davanti ai nostri occhi. Il momento storico che stiamo vivendo è segnato da un ripiegamento dei popoli nei propri recinti. Vediamo crescere ovunque un pericolo individualismo che indebolisce sia la società che le stesse religioni. E’ urgente che i cristiani – in un mondo globalizzato – offrano a tutti quella visione dell’unità del genere umano che è propria del Vangelo.
Il crollo del noi
In effetti, la società di questo inizio del XXI secolo è segnata da alcuni degli esiti deteriori del cammino che la cultura occidentale moderna ha svolto e, di fatto, imposto al mondo intero. Questi effetti si concentrano oggi in una contraddizione che mina alla base le nostre comuni aspirazioni di un umanesimo cristiano. Se da una parte, gli ultimi secoli hanno visto la crescita dell’attenzione nei confronti della persona, della sua insostituibile e preziosa unicità e del desiderio di una vita bella, dall’altro assistiamo all’esplodere della deriva individualista che porta alla sua solitudine, alla chiusura in se stesso e al suo risentimento nei confronti della società.
Alcuni filosofi come, ad esempio, Gilles Lipovetsky, parlano di una “seconda rivoluzione individualista”, segnata dal culto dell’edonismo e della psicologia, dalla privatizzazione della vita e dalla conquista dell’autonomia rispetto alle istituzioni collettive. Zygmunt Bauman, uno degli studiosi più attenti ai fenomeni sociali, recentemente scomparso, parlava di una “società liquida”, una società priva di valori di riferimento.
L’uomo contemporaneo, preso dal proprio destino personale in maniera ossessiva, rischia un così forte narcisismo da essere insensibile a chi lo circonda sino a non avere più la forza interiore impegnarsi a costruire una comunità umana solidale. La passione per la condizione e il “destino comune” degli esseri umani, che alimenta l’aspirazione verso una “fraternità universale”, si è indebolita e si è fatta incerta. Potremmo parlare in maniera sintetica di ciò che chiamo “il crollo del Noi”, ossia la perdita del sogno comune, della visione comune.
Gli uomini e le donne di questo nostro mondo sono oggi tutti più connessi, ma non per questo sono più fratelli e più sorelle. La tecnologia e l’economia se per un verso hanno unificato maggiormente in maniera burocratica le società, dall’altro le hanno disgregate affettivamente: la spinta all’efficienza funzionale mortifica la vita relazionale. Ci troviamo di fronte al progetto di una vera e propria “creazione” culturale e sociale dell’individuo preso da sé stesso e dal suo “potenziamento” come fine.
Nella ricerca di autonomia, l’individuo contemporaneo rimuove, giorno dopo giorno, la memoria delle radici e dei legami che l’hanno generato e costruito come persona umana. Alcuni parlano di una nuova religione, l’“egolatria”, il culto dell’Io, sul cui altare si consumano anche gli affetti più sacri. Il logoramento del legame sociale, in tutti i suoi aspetti – famiglia, lavoro, cultura, politica – è uno degli effetti più critici della diffusione globale di questo individualismo senza mondo e senza storia.
Humana Communitas
Papa Francesco, in occasione del XXV della fondazione della Pontificia Accademia per la Vita che ricorre proprio in questi giorni, ha voluto scrivere una lettera, intitolata Humana Communitas. L’abbiamo tradotta in russo e ne vogliamo fare dono al Patriarca Kirill e a tutti voi in questa occasione. Nella lettera il Santo Padre pone le questioni che riguardano la vita umana all’interno di un ampio contesto e indica le radici (teologiche) a cui ricorrere per affrontare le domande e le difficoltà che la minacciano.
Egli esplicitamente e chiaramente indica la comunità umana quale luogo più pieno e vero per lo sviluppo libero e consapevole di ogni uomo e di ogni donna. Così scrive il Papa: La comunità umana è il sogno di Dio fin da prima della creazione del mondo (cfr Ef 1,3-14). In essa il Figlio eterno generato da Dio ha preso carne e sangue, cuore e affetti. Nel mistero della generazione la grande famiglia dell’umanità può ritrovare sé stessa. (1). Questo sogno …es el que Jesús ha confiado a la Iglesia y que ha puesto en el corazón de todos los hombres: la entera familia humana tiene un origen común y un destino común. En un mundo globalizado, la unidad de la familia humana es el horizonte que debe implicar a todos los pueblos. Es decisivo el redescubrimiento de la fraternidad, que desgraciadamente, es la promesa perdida de la modernidad. La vida no es un universal abstracto, la vida es cada persona desde su concepción hasta el pasaje final de la muerte; la vida es la entera familia humana difundida en el mundo. Esta es la vida, una realidad histórica.
E più avanti: Di fatto, le molte e straordinarie risorse messe a disposizione della creatura umana dalla ricerca scientifica e tecnologica rischiano di oscurare la gioia della condivisione fraterna e la bellezza delle imprese comuni, dal cui servizio ricavano in realtà il loro autentico significato. Dobbiamo riconoscere che la fraternità rimane la promessa mancata della modernità. Il respiro universale della fraternità che cresce nel reciproco affidamento – all’interno della cittadinanza moderna, come fra i popoli e le nazioni – appare molto indebolito. (HC 13)
Nella trama delle relazioni che costituiscono l’individuo contemporaneo vanno riportate le domande fondamentali che abitano il suo cuore, la sua mente, anche il suo corpo, altrimenti incapaci di trovare una risposta esaustiva. Anche il tema urgente dei diritti, affinché non diventi una mera dichiarazione di intenti, chiede di essere posto, fondato, espresso e realizzato, non in riferimento a un “io” separato, ma nel più comprensivo riferimento di un “noi” umano. Senza armonica correlazione di diritti e doveri condivisi, la giusta tutela della persona e della sua inerente dignità non è più garantita, e la vita della comunità non diventa affatto più umana.
Un solo esempio: troppo spesso assistiamo alla riduzione del grande tema dell’aspirazione umana alla felicità nel basso profilo della ricerca della gratificazione psicofisica, che diventa criterio e misura unica della “qualità della vita” quotidiana. In realtà, a ben pensarci, il vero benessere è quello che scaturisce dal volersi bene reciprocamente, dall’essere bene-amati, cioè amati e capaci di amare, accolti e accoglienti, “misericordiati” (come ama dire Papa Francesco) e misericordiosi.
La sfida che la vita umana di più di sette miliardi di persone oggi impone è dunque quella del “noi”: ossia, quella del ripensarsi dentro una trama di relazioni che certo segna, limita, si impone, ma proprio per questo non abbandona, continua a generare, rimane solidale con la speranza di una salvezza che ci possa riconciliare, insieme, con la speranza condivisa della vita.
Due sono i passaggi a mio parere fondamentali in questo orizzonte. Il primo riguarda la ricollocazione della necessaria interrogazione etica sulla vita umana nell’ampiezza che la prospettiva globale oggi si impone. È obiettivamente insensato e sterile affrontare l’analisi di singole questioni e interrogativi senza una previa collocazione in un quadro più ampio, capace di assumere e comprendere, per quanto possibile, la complessità del mondo attuale.
Nel rispetto, nella difesa, nella promozione della vita umana, ormai tutto si tiene: non si possono trattare i sintomi locali se non si intercettano le cause globali. La bioetica globale è la forma corrente dell’interrogazione sulla qualità umana delle scelte che custodiscono e riaffermano il destino ultimo della vita: la resistenza all’apertura di questa portata radicale del tema sarebbe un serio fraintendimento della odierna responsabilità della fede.
Il secondo passaggio si pone invece come un allargamento di tema. Negli ultimi decenni, assai giustamente, si è posta l’attenzione sulle condizioni del nostro pianeta e sulle conseguenze dell’agire umano sull’ambiente. Oggi è tempo di allargare questa preoccupazione, dalla casa comune ai suoi abitanti; proprio perché l’abitabilità del pianeta è messa in crisi dall’agire sconsiderato ed egoista dei suoi abitanti, è giunto il tempo di preoccuparsi seriamente di questo comportamento. Siamo chiamati a riscoprire il collegamento tra le relazioni fra di noi e quelle con i luoghi che ospitano le nostre esistenze.
Accompagnare nel passaggio della morte
Dentro questo quadro appare particolarmente significativa una comprensione solidale e sociale del morire. Ciò che mi turba profondamente nella domanda di approvazione delle diverse pratiche eutanasiche non è semplicemente il fatto che si voglia pervertire il senso della pratica medica, tutta dedita alla vita del paziente e non alla sua morte, quanto il fatto che ci sia qualcuno che, in un momento particolarmente grave e difficile della sua esistenza, chiede di morire.
Il compito di accompagnare chi si avvicina al passaggio delicato dalla vita terrena all’incontro definitivo con il Padre celeste ha una valenza che non si riduce alle persone immediatamente coinvolte, ma ha implicazioni che vanno ben oltre. È espressione di una cura che sa trovare il giusto equilibrio tra l’impiego delle risorse che la medicina oggi ci metta a disposizione e la ricerca del bene integrale della persona, nel suo contesto familiare e sociale. Infatti, lo sviluppo delle conoscenze in campo biomedico rischia di rendere la guarigione quasi lo scopo principale, se non esclusivo, della pratica clinica contemporanea.
Tale evoluzione porta con sé il rischio di focalizzarsi sulla lotta alla malattia e trascurare (o ridurre) il malato. Si dimentica allora che ogni sforzo terapeutico (to cure) assume il suo significato più profondo in una relazione che consiste nel prendersi cura del malato (to care). La tendenza diviene, soprattutto nei contesti fortemente tecnologizzati, quella di guardare alla eliminazione della malattia come all’unico obiettivo da perseguire.
Questo atteggiamento, a sua volta, comporta due conseguenze. Anzitutto il rischio di superare la ragionevolezza nell’uso dei trattamenti medici, al fine di ottenere una guarigione che “deve” essere raggiunta a tutti i costi, perché in ogni mancata guarigione si vede una sconfitta della medicina. In questo modo, però, si pongono le premesse che conducono a un eccesso di trattamenti, ostinandosi in modo irragionevole”. Si finisce così per procurare al paziente sofferenze dovute a un impiego di mezzi, spesso invasivi, che perde di vista il bene integrale della persona: fare tutto il possibile (se questo viene inteso nel senso di utilizzare sempre e comunque tutti i mezzi disponibili) può significare fare troppo (cadere cioè in un eccesso che danneggia il paziente).
Il secondo rischio è quello di abbandonare il paziente nel momento in cui viene meno la possibilità di ottenere la guarigione: se questa opzione non è data, si conclude il rapporto tra il medico e il paziente, la medicina (la società) non ha più altro da fare per lui. E questa è una conclusione fuorviante. Infatti se non possiamo guarire, possiamo però ancora alleviare il dolore e la sofferenza e continuare a prenderci cura di quella persona. Il paziente inguaribile non è mai incurabile.
E questo atteggiamento profondo di cura scaturisce dalla interiore convinzione che ogni persona è dotata di una dignità assoluta in qualunque fase della sua vita. Non si può parlare seriamente di umanizzazione della medicina se non si è raggiunta una comprensione effettiva della dignità della persona umana, nella sua singolarità, anche quando gravemente malata o morente. Ma proprio questo è il rischio che il paziente inguaribile corre oggi nella mentalità medica delle nostre società, il rischio dell’abbandono, dovuto all’idea che “tanto non c’è più niente da fare” o che “non ne vale la pena”. Un rischio che ha come altra faccia della medaglia l’eutanasia, basata sull’idea che se non c’è più nulla da fare, tanto vale “farla finita”.
Il fermo rifiuto che va dato a queste logiche trova nelle cure palliative un prezioso alleato. Proprio in questi giorni la comunità scientifica internazionale ha approvato (e l’Accademia è stata tra i soggetti sostenitori di questo passaggio) una nuova definizione di cure palliative. Essa esordisce affermando che: “Palliative care is the active holistic care of individuals across all ages with serious health-related suffering due to severe illnesses, and especially of those near the end of life. It aims to improve the quality of life of patients, their families and their caregivers.”
Due aspetti di questa definizione mi sembrano particolarmente significativi: il primo è l’approccio olistico che le cure palliative offrono, cioè esattamente l’opposto di una riduzione medicale della cura. Noi non abbiamo pazienti, abbiamo persone, con tutto il loro bagaglio fisico, psicologico, culturale e spirituale. Solo dentro questo quadro che tiene conto del tutto della persona umana, la tecnologia, oggi particolarmente efficiente, trova la sua vera efficacia, esprime la sua vera forza.
Il secondo tratto offerto dalla nuova definizione di cure palliative è quello che riconosce, accanto ai malati, la presenza dei familiari e di quanti si operano per la loro salute, con l’interessante clausola che tali soggetti non vengono coinvolti solo come attori di una cura della persona sofferente, ma essi stessi sono visti come destinatari di un’attenzione specifica e premurosa. Questa formulazione è decisiva, proprio perché ricolloca la persona sofferente, anche quella che si appresta al passaggio della morte, dentro le sue relazioni fondamentali, familiari e sociali. Non si può morire da soli!
L’esperienza dice che la domanda di eutanasia o di suicidio assistito è nella quasi totalità dei casi figlia dell’abbandono sociale e terapeutico del malato. Al contrario, una volta che si sia messa in atto una valida presa in carico multidisciplinare del paziente e coinvolta positivamente la rete di relazioni affettive e professionali è rarissimo trovarsi di fronte a una richiesta di morte.
A questa fondamentale vocazione al “prendersi cura” occorre che la medicina dia nuovamente respiro, riconoscendone il valore. Occorre uscire dall’equivoco che intende “palliativo” come “inutile” o inefficace. Una confusione che appare dalle resistenze che di fatto ostacolano la pratica e la diffusione delle cure palliative, anche quando se ne afferma in linea di principio l’importanza.
Tra le diverse dimensioni e figure coinvolte in questo prendersi cura che viene riattivato in modo specifico anche grazie alle cure palliative, una particolare attenzione merita la questione spirituale e religiosa e le figure (cappellani, assistenti) coinvolte. Per il credente, il passaggio della morte ha sempre una forma di consegna radicale al mistero di Dio che non abbandona i suoi figli nella tomba; inoltre gli ultimi giorni della vita terrena di ogni persona umana sono occasione preziosa e insostituibile per fare un bilancio della propria esistenza e porre parole e gesti di riconciliazione e perdono. Aiutare e accompagnare un morente (e la sua famiglia!) in questo duplice passaggio è gesto prezioso che realmente sostiene anche i momenti finali di un’esistenza umana.
Cari amici, la sequela del Signore Gesù, medico dei corpi e delle anime, ci affida la responsabilità nei confronti delle vite degli uomini e delle donne, soprattutto dei più piccoli e dei più poveri, di oggi e delle generazioni future. È una sfida grande, per la complessità del mondo che viviamo e per la vastità del suo orizzonte. Certo non può essere ridotta a una semplice questione tecnologica. Il cristianesimo può davvero, in questa nostra epoca, aiutare l’umanità intera a cogliere le sfide della vita in una dimensione umanistica e spirituale imprescindibile, essenziale. Anche per questo siamo qui oggi, insieme.
Grazie.