Bestemmiare il tempo (don Milani, profeta antipatico, contro le discoteche)
“- Ho sentito dire dall’Adele che voi vorreste in settimana ballonzolare a scuola. Un fatto simile mi ha talmente incuriosito che ho voluto seriamente discuterne insieme a voi, perché o nel ballo c’è qualcosa di abbastanza utile da poterlo fare nei luoghi sacri o è inutile, e allora a scuola non si può fare.
La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene.
Sicché anche se il ballo è soltanto una cosa inutile, farlo a scuola è una cosa assolutamente indecente.
Se il preside vi permette queste cose forse vede nel ballo qualcosa di utile, perché una delle tre: o è utile, o è inutile, o è dannoso.
Se è inutile è immorale, se è dannoso è immorale e se è utile tocca a qualcuno dimostrarmelo” (p. 15).
Con queste parole, in uno degli ultimi giorni di Carnevale del 1965, don Lorenzo Milani inizia una violenta requisitoria contro quelle che allora si chiamavano “sale da ballo”; di fronte a lui, alcune ragazzine colpevoli di aver ottenuto dal preside della loro scuola il permesso di ballare in classe. Con la sua consueta ruvida sistematicità, Milani travolge l’interlocutore, distrugge ogni obiezione e finisce con l’apparire per lo meno antipatico. Non dimostra infatti né indulgenza né comprensione per le ragazzine che ha di fronte. Non è detto che i profeti debbano anche essere simpatici.
La discussione venne registrata, quindi trascritta e pubblicata, vent’anni dopo, in un supplemento di “Conquiste del lavoro” (rivista della CISL); poi ripubblicata nel 1995 in forma di “Millelire”, con il titolo di Anche le oche sanno sgambettare. Poche pagine che suonano datate, al limite dell’irragionevolezza nella loro perentorietà, perfino sgradevoli in quanto seguono l’andamento del parlare, e di un parlare che non conosce mezze misure. Pagine che però finiscono con l’essere anche un grido di estrema (perenne) attualità; un invito radicale a prendere in considerazione temi ed argomenti che troppi spesso vengono dimenticati anche da coloro che – insegnanti o catechisti – dovrebbero, come si dice, «tener alta la bandiera dei valori».
Anche le oche sanno sgambettare è essenzialmente un atto di accusa contro chi bestemmia il tempo. «Ma se nel fare una cosa inutile non si fa male a nessuno, questo non è mica immorale?», domanda una delle ragazzine. E Milani risponde ponendo le basi del suo ragionamento: «Se la vita è un bel dono di Dio non va buttata via e buttarla via è peccato. Se un’azione è inutile, è buttar via un bel dono di Dio. È un peccato gravissimo, io lo chiamo bestemmia del tempo» (p. 16). E mentre costringe le ascoltatrici (e il lettore) ad una profonda riflessione sull’importanza degli istanti che compongono la vita, Milani ha anche l’occasione di ripercorrere, brevemente ma con grande incisività, molti dei temi che gli sono più cari: il senso dell’educazione, il contenuto della democrazia, il riscatto degli emarginati, la ricerca della libertà, l’emancipazione femminile. Invitando ad una lettura completa del breve testo, mi permetto di presentare due brani particolarmente incisivi.
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“- Se vi avanza il tempo siete anormali, cari! Perché le persone normali che conosco io, sono alla disperata ricerca di un po’ di tempo (…)
Le persone anormali invece hanno del tempo di avanzo e tentano di buttarlo via (…)
Il divertimento serve soltanto a quelli che non riescono a riempire decentemente le ventiquattro ore della giornata.
Quei poveretti hanno davanti una, due, tre ore da riempire in qualche modo. Per gli anormali, per i poveretti hai ragione te (…)
– Anche il re e la regina vanno a ballare, allora sono tutti anormali?
– Il re e la regina sono le persone più anormali che possa immaginare.
– Le dirò allora che di persone normali c’è solo lei, perché il nostro pievano…
– Balla?
– No, ma organizza delle feste, ci dice di andare alle gite…
– Se il vostro prete o il vostro pievano vi permettono di ballonzolare non sono degli anormali, ma persone che non ragionano. Non pensano e accettano il mondo così com’è. Però non hanno calcolato che il mondo non è così per caso, ma è così perché qualcuno lo ha voluto così. Non è per caso che gli operai e i contadini di Borgo perdono le domeniche e le serate a ballare, ma perché qualcuno glielo impone” (pp. 16-17, 19-20).
Il rispetto di sé stessi (incluso nel quinto comandamento) può passare anche attraverso il riposo e la distrazione. Ma fare del divertimento (e di determinati divertimenti, codificati e mercificati) un obbligo sociale, fino ad incrinare le stesse categorie di “normalità” e “anormalità”, costituisce un rischio gravissimo (un “grave peccato”, direbbe Milani) sia contro l’intelligenza che contro la libertà delle persone.
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“- La scemina che tutti ricercano sta godendo felice e torna a casa che piscia e non se ne avvede dalla gioia, non perché l’han trovata intelligente, l’han trovata colta, ma perché l’han trovata capace di sgambettare – sanno anche le oche – o capace di lasciarsi toccare – sanno anche le vacche – oppure bella! (…)
Ma ci pensate quanto viene su cretina una ragazzina molto bellina a sperare che sia richiesta da tutti e a passare da una sala da ballo a un’altra? Vi immaginate che mammina sarà quella! Che donna politica! E che sindacalista! (…)
Quella invece che torna a casa addolorata perché nessun giovanotto l’ha richiesta, è addolorata da una cosa che non si è meritata. Quindi in questa sala avvengono delle infamie, delle mancanze di carità tremende (…)
Così in quella sala si costruisce da un lato una scemina totale, dall’altro una disperata totale. Poi ci sono tutte le vie di mezzo (…) tutta la gradazione di gioie stupide e di dolori stupidi. E voi in quella sala vi divertite?” (pp. 46-47).
Una riflessione che sembra fatta apposta per mettere in guardia dall’esaltazione di tutti i “luoghi di socializzazione” in cui l’apparenza (la bellezza, la forza) diviene, per le persone che si incontrano, l’unico metro di giudizio. Si può certo tentare di fare “missione” anche nelle discoteche o nelle curve degli stadi: purché non si immagini di poter prescindere da una critica radicale dei modelli di comportamento che un determinato contesto finisce inevitabilmente col creare.
Articolo pubblicato su “Il Margine”, 16 (1996), n. 6.