Quando dico compromesso non intendo capitolazione, non intendo porgere l’altra guancia ad un avversario, un nemico, una sposa. Intendo incontrare l’altro, più o meno a metà strada. Comunque non esistono compromessi felici: un compromesso felice è una contraddizione. Un ossimoro. (Amos Oz, Contro il Fanatismo, 2006)
Amos Oz, intellettuale israeliano e attivista per la conciliazione tra ebrei e palestinesi, nel suo scritto Contro il fanatismo difende animatamente il valore del compromesso. Partendo da validi spunti di Oz, mi propongo di analizzare il compromesso in quattro ambiti: etimologico-assoluto, politico-contestuale, privato-individuale e aporetico-diaporetico.
Nella prima parte si enuncerà l’origine del termine, privilegiandone un’accezione. Nella seconda si proverà a riportare una manifestazione della sua forma degenere. Nella terza si cercherà di individuare l’origine del fenomeno. Nella quarta si discuteranno le contraddizioni fornite dall’autore, procedendo in maniera logico-esclusiva per la prima e esperienziale-inclusiva per la prima.
Cum-promittere e compromettersi
Come suggerito da Oz, nell’accezione comune compromesso è sinonimo di capitolazione ideologica. Soprattutto in televisione e nella cultura di massa, viene interscambiato con “cedimento”.
Ma la storia del termine è ben più nobile: compromesso viene da cum-promittere, cioè promettersi reciprocamente. Il suo significato originario è quindi più vicino a quello assunto da Oz, di incontrarsi a metà strada.
Nasce spontanea la domanda: a cosa si deve la deviazione semantica da con-promettere a compromettersi? Si consideri questo: se il compromesso è un accordo comune, fondato su una reciproca promessa, cosa succede se una delle due parti non lo mantiene? Succede che l’altra cade rovinosamente. Il compromesso comporta quindi un rischio, un’incertezza. Da qui l’accezione di compromettere come esporre ad un rischio, rovinare.
Dovrebbe tuttavia dare a pensare come l’uso degenere del termine, nel linguaggio comune, abbia scalzato quello autentico.
La teoria dell’“inciucio”
È superfluo ricordare come la Palestina sia una terra politicamente molto calda. In uno scontro tra fazioni opposte e radicali, portatrici di verità assolute e indiscutibili non stupisce che i cercatori di compromessi siano visti come impuri, immorali e apostati, sia uno schieramento che dall’altro.
Anche in Italia ogni forma di compromesso politico è tacciata di tradimento dell’elettorato – i media gridano subito all’“inciucio”. Così il fautore del compromesso spesso viene rinnegato da entrambe le fazioni contrapposte.
Assomiglia alla condanna di essere lasciato sia dalla moglie sia dall’amante. Tuttavia l’isolamento forzato del conciliatore è decisamente più ingiusto.
Anche Jahvè scendeva a compromessi
Una qualsivoglia analisi sul compromesso non può prescindere dalla sua contestualizzazione nella sfera individuale. Ci si chiede, cioè, e ci si deve chiedere: «Perché io – e non un individuo ipotetico, ma proprio io – dovrei scendere a compromessi?». Le ipotesi sarebbero molteplici: sarà per carità? O, come dice De Andrè, «la pietà che non cede al rancore»? O forse è una scelta finalizzata solo al quieto vivere?
È ragionevole pensare che, finché il compromesso è scelto con cura (e cioè, pur rinunciando ad una parte delle proprie pretese se ne ottiene una parte significativa) possa essere dovuto all’amor proprio. La stessa logica di tagliarsi una gamba per salvarsi la vita. Per contro, si può consideri come la disponibilità al compromesso sia fondata in qualche forma di amore per l’altro.
È ragionevole concludere che la verità, in questa opposizione dialettica amor proprio – amor altrui, sia nel mezzo.
Quali che siano le cause, è certo che per l’individuo è molto difficile farne a meno. Nell’Antico Testamento anche Jahvè scende a compromessi con Abramo.
Nodi sciolti e nodi che non si possono sciogliere
In Contro il fanatismo, Oz sentenzia: «Il contrario di compromesso è fanatismo». Espressa in questo modo, la contraddizione dei due termini è aggrovigliata come un nodo. Per analizzarla, bisogna sciogliere il nodo. Si ribalti la frase. Così facendo si avrà: «Il contrario di fanatismo è il compromesso». Questo passaggio è logicamente concesso dalla proprietà commutativa della contraddizione: se A è il contrario di non-A, allora non-A è il contrario di A.
Si consideri ora il fanatismo. Se esso è l’intolleranza più assoluta, il suo contrario è la disponibilità ad accogliere parte della verità o delle richieste dell’altro, e cioè essere disposti al compromesso. Si evince, dunque, come i due termini siano contrari.
Se la prima contraddizione posta da Oz poteva essere analizzata in maniera logica, sciogliendola come un nodo, per la seconda si può solo fare appello all’esperienza. Per Oz un compromesso felice è una contraddizione, un ossimoro. Quest’ultimo può essere solo una bella idea, un’utopia, ma non una realtà.
Anche Pavese lo sapeva: l’amore costa fatica, e bisogna diffidare di ciò che non comporta una perdita, un sacrificio. E il valore del compromesso, intenso innanzitutto come con-promettere, sta proprio nella sua fattualità e nel sacrificio che comporta: «Da chi non è pronto – non dico a sacrificare il suo sangue, che è cosa fulminea e facile – ma a legarsi con te per tutta la vita (rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione) – non dovresti accettare neanche una sigaretta».