Qualche giorno prima di Natale, a Monterotondo, un comune alle porte di Roma, un bimbo nigeriano di due anni è morto dissanguato dopo un’operazione di circoncisione praticata su di lui e su suo fratello gemello da un cittadino statunitense di origine libiche di 66 anni che, come hanno appurato le indagini, non era la prima volta che eseguiva questo tipo di interventi casalinghi.
La madre del bambino, a cui era stato riconosciuto il diritto di protezione umanitaria, dopo essere stata ospite per oltre un anno in un Centro di accoglienza straordinario a Rieti, risiedeva in un appartamento gestito dall’ARCI di Roma insieme al Comune di Monterotondo.
Ultracorpi
Sebbene, sull’onda dello sdegno generale, i commenti di esperti e profani si siano concentrati per lo più sulla pratica rituale della circoncisione nel mondo islamico, non è chiaro se dietro la scelta della madre ci fossero motivazioni di tipo religioso. In un articolo pubblicato sul «Messaggero», in effetti, la donna è stata descritta come «cattolica» e sempre lì si accennava tra le righe a un albero di Natale che faceva bella mostra di sé nella sua camera.[1]
Molti tra coloro che, indignati per la barbarie della faccenda, hanno difeso a spada tratta il diritto all’integrità fisica dei bambini lo hanno fatto spesso richiamando la sentenza del tribunale di Colonia che nel 2012 ha giudicato la circoncisione, qualora venga praticata per motivi religiosi, un reato grave in quanto determina una lesione fisica permanente senza l’assenso esplicito del soggetto offeso (la cui libertà religiosa, per altro, non dovrebbe ritenersi violata essendo la sua potestà decisionale soltanto dilazionata nel tempo).
Poco più di un anno prima, nell’estate del 2017, un’altra sentenza, questa volta della procura dei minori di Cagliari, disponeva invece l’assoluzione di una coppia di genitori vegani sospettati di essere responsabili della condizione di denutrizione e ritardo nello sviluppo del loro figlio di quindici mesi, accertata dai sanitari a seguito di un ricovero ospedaliero.
Il procedimento giudiziario era cominciato quasi per inerzia dopo la segnalazione dei medici con lo scopo di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio le eventuali responsabilità dei genitori, distinguendo cum grano salis tra le loro prerogative di cura e l’interesse oggettivo del bambino.
Non essendo stata tolta la potestà parentale e avendo il giudice constatato che dopo essere tornato a casa, malgrado la dieta vegana, il bambino aveva ripreso a crescere normalmente, il tribunale ha fatto cadere ogni accusa nei confronti dei genitori, deliberando ufficialmente che una scelta alimentare vegana, a dispetto del suo carattere anticonvenzionale, non rappresenta un comportamento biasimevole o lesivo nei confronti del benessere del figlio.[2]
Risalendo nel tempo di altri cinque anni, il 21 giugno 2012 il Comitato Nazionale di Bioetica, riunito in seduta plenaria, ha approvato il parere «Aspetti bioetici della chirurgia estetica e ricostruttiva» in cui è stata giudicata «non lecita la chirurgia estetica su bambini con sindrome di Down, finalizzata alla conformazione a canoni sociali di ‘normalità’, specie se presenta un carattere invasivo e doloroso».
L’argomento sposato nel testo si guardava però bene dal fare appello a principi assoluti. Pur partendo dalla constatazione che l’atteggiamento nei confronti del corpo è profondamente cambiato sotto la spinta di «molteplici fattori etici, sociali e culturali» che hanno dilatato «il concetto di salute in senso soggettivo», gli estensori del documento (Lorenzo d’Avack, Laura Palazzani e Giancarlo Umani Ronchi) ribadivano comunque «l’inaccettabilità di interventi sproporzionati, in quanto eccessivamente invasivi o inutilmente rischiosi e inadeguati rispetto ai possibili benefici richiesti dal paziente». La loro tesi, in breve, è che «il bilanciamento dei rischi e benefici deve essere commisurato alle condizioni psico-fisiche del paziente, che la funzionalità degli organi interessati deve avere la priorità sul risultato estetico e che l’informativa al paziente deve essere completa, con una adeguata consulenza anche psicologica».[3]
In questo modo veniva data una risposta indiretta all’argomento avanzato nel 1998 da Kim e David Gallagher, genitori di Georgia, una bimba affetta dalla sindrome di Down che a cinque anni era già stata sottoposta a tre interventi di chirurgia estetica per, nell’ordine, (a) ridurre la lunghezza della lingua, così che non sporgesse dalle labbra; (b) rimuovere la pelle in eccesso dalle palpebre per diminuire l’aspetto «mongoloide» tradizionalmente associato alla sindrome di Down; (c) eliminare le orecchie a sventola tramite un’otoplastica. Con franchezza inusuale la madre di Georgia aveva giustificato la sua scelta di fronte a un giornalista del «Daily Mail» andando diritta al nocciolo della questione: «Viviamo in una società che giudica le persone dall’apparenza. Questa società non cambierà dalla notte al giorno. Perciò, visto che la società non si adatterà al suo modo di essere, sarà Georgia a doversi adattare alla società».[4]
Iperdiversità culturale delle metropoli
Gli episodi di cronaca appena evocati, tra i mille che si sarebbero potuti riesumare, ruotano attorno a questioni allo stesso tempo familiari e controverse circa il significato e il valore da attribuire al corpo. In che senso siamo padroni del nostro corpo? Che cosa implica nello specifico la sua inviolabilità? Fino a che punto siamo il nostro corpo? Qual è il modo migliore per salvaguardare la sua duplice natura interiore/esteriore, personale/subpersonale, preziosa/indifferente? Quanto dovrebbe pesare nelle nostre decisioni il fatto che il nostro corpo dipende in maniera essenziale da altri corpi per la cura, il nutrimento, l’autorealizzazione e l’appagamento di bisogni e desideri?
Anche se il corpo – più in generale la realtà «fisica», qualsiasi cosa si intenda per questa espressione tutt’altro che trasparente – rappresenta l’orizzonte ultimo per un numero crescente di persone oggi, di norma anch’esse, quando devono fare i conti con situazioni limite quali quelle prospettate sopra, sperimentano intuizioni contrastanti. Che cosa esattamente significa preservare l’autonomia decisionale di un bambino? Dove si colloca il punto di equilibrio tra gli obblighi morali universali e i doveri speciali verso un oggetto di cura? Quanto dovrebbero essere revisionisti i nostri criteri di giudizio rispetto al mondo così come esso effettivamente è?
Il compito di distillare una visione relativamente coerente dalla babele di pensieri che scaturisce da questo tipo di quesiti è reso ancora più arduo dall’iperdiversità culturale delle metropoli contemporanee, in cui viene esibita fisicamente la varietà di risposte pratiche che sono state escogitate nel corso della millenaria storia umana per venire a patti con l’enigma del corpo animato e sessuato.
Non è chiaro se serva o no un metaracconto per incorniciare e contestualizzare questo stallo. Tra gli osservatori delle società contemporanee qualcuno l’esigenza l’avverte e qualcun altro no. Alcuni non credono, cioè, che cercare un significato recondito in ciò che accade nella storia umana sia un compito intellettualmente onesto o produttivo. Il loro mantra epistemologico sostiene che comprendere un fenomeno vuol sempre dire scomporlo e mai ricontestualizzarlo. Per costoro esistono solo casi specifici di problem solving e la questione della laicità dello Stato è uno di essi.
Sul fronte opposto militano invece tutti coloro che difendono l’utilità delle grandi narrazioni. Questi si appellano in genere a una facoltà umana – il pattern recognition, cioè la capacità di riconoscere una specifica fisionomia nelle azioni umane – che i loro critici ritengono sia poco più di un’illusione percettiva.
Destini secolari
Da qui in avanti vorrei mettermi nei panni di quest’ultimi e chiedermi che ne è stato di uno dei concetti che a partire dal XVIII secolo è stato adottato e impiegato proprio per rendere intellegibili i grandi processi storici innescati dalla rivoluzione sociale, politica, tecnologica moderna. Il concetto in questione è il concetto di «secolarizzazione» e la tesi a cui esso ha dato origine sostiene che per capire fino in fondo la nostra epoca è indispensabile pensarla come il prodotto di un processo simultaneo di disincantamento, immanentizzazione e profanizzazione.
Parlando in generale, il termine «secolarizzazione» è stato usato fin dalle sue origini (XVI secolo) in Europa per denotare un passaggio di stato. Alla luce della visione cristiana del mondo, secolarizzare o secolarizzarsi significa (per una persona, un manufatto o un luogo) passare dalla sfera del trascendente a quella dell’immanente, in una parola al piano «mondano» dell’agire e del pensare.
Questo trasferimento, poi, può essere vissuto dai beneficiari o da chi patisce il cambiamento come una transizione non problematica (nei suoi primi usi, in effetti, il vocabolo apparteneva al lessico tecnico del diritto canonico o della diplomazia), oppure come la riappropriazione di un bene precedentemente alienato o, viceversa, come l’espropriazione di un bene sottratto con la forza anziché col diritto.
Una volta dislocato ingegnosamente nell’ambito della nascente filosofia della Storia, questa triplice declinazione del termine si è tradotta in tre interpretazioni diverse della relazione tra il passato religioso dell’umanità e il suo presente disincantato. Essa è stata interpretata, cioè, a seconda dei casi, o come un’evoluzione spontanea e irreversibile dal religioso al non-religioso (a); o come un’emancipazione dell’immanente dalla supremazia avvilente del trascendente (b); o, infine, come una metamorfosi del sostrato religioso della storia umana che ne rappresenta allo stesso tempo un’ibridazione e un mascheramento (c) – questa era, per esempio, la tesi avanzata da Karl Löwith nel suo influente libro Significato e fine della storia.[5]
L’intuizione, in breve, è quella di una transizione (non importa se ritenuta legittima, illegittima o semplicemente ineluttabile) da una cornice socio-culturale più intricata e dialettica a una più semplice e prossimale. È il passaggio, per ricorrere a un’immagine abusata, da un cosmo popolato da entità soprannaturali e governato da logiche astruse a un universo, forse non risonante, ma sfrondato di ogni mistero per principio insondabile.
Per fare un esempio della vitalità di questo modello di spiegazione della forma di vita contemporanea, nel suo influente pamphlet I destini generali, Guido Mazzoni ha utilizzato da cima a fondo il modello esplicativo di una secolarizzazione ricorsiva per rendere ragione della mutazione antropologica profetizzata da Pier Paolo Pasolini quasi cinquant’anni fa.[6] L’esito di questo sommovimento storico, secondo la sua lettura, è «un’immanenza assoluta», che non viene prodotta però mediante un atto di creatività intellettuale – nella forma, cioè, dell’affermazione di una visione del mondo compiutamente materialista – ma grazie al trionfo di un piatto consumismo generalizzato.
In quest’ottica la secolarizzazione funziona come un acido antidealista che sgretola prima le divinità tradizionali, poi le sue metamorfosi politiche moderne (la patria, la nazione, la repubblica, il socialismo realizzato), quindi le idealità morali più esigenti (umanitarismo ed etica dell’autenticità) e, per finire, anche le trascendenze laiche dei legami personali (dalla famiglia alle varie comunità di riconoscimento di cui gli individui si servono per sopportare le frustrazioni della vita quotidiana). Ciò che resta alla fine è una rincorsa puramente orizzontale a un godimento che non significa altro che se stesso. È questo ritratto disincantato della vita contemporanea delle masse occidentali che spinge Mazzoni a sostenere che la «forma-consumo [rappresenta] il compimento del processo di secolarizzazione» (p. 47).
Che cosa resta alla fine di questo processo di decomposizione dei vari «nuclei di trascendenza» (p. 45) che nel corso della storia umana hanno contribuito ad allargare l’orizzonte egocentrico dei piani di vita individuali? Resta il corpo proprio, ovviamente, con i suoi bisogni, desideri, e micro o macro-appagamenti. E insieme al corpo predomina il requisito funzionale dell’innovazione tecnologica, che è guidata dallo scopo (interno) di rendere la vita sempre più confortevole e appagante per una soggettività che si acquieta in una «blanda schizofrenia» (pp. 78 e 81) e in una «forma mentis politeistica, privata, antieroica e attimale» (p. 82). È superfluo aggiungere che il capitalismo è il terreno di coltura ideale per questo modo di stare al mondo.
Oltre al corpo come centro di soggettivazione permane però anche un sottile ma persistente disagio che si manifesta, da un lato, nella resistenza intermittente a una riduzione integrale della condizione umana alle funzioni di una natura senza fine, e, dall’altro, nella fascinazione per metà inorridita e per metà incantata verso i periodici rigurgiti dell’urgenza irrazionale di sacrificare la propria e le altrui vite nel nome di una causa superiore. Così il fondamentalismo islamico, soprattutto a partire dall’11 settembre, ha finito per svolgere freudianamente in Occidente il ruolo dell’Unheimliche: la spettrale ricomparsa di un sostrato familiare ma rimosso della Western Way of Life.
La città post-secolare
La mito-storia raccontata da Mazzoni, sebbene rispecchi alcuni tratti tipici dell’esperienza contemporanea, non sembra però rendere pienamente giustizia agli orizzonti morali scompaginati che, alla maniera di una scenografia cubista, fanno da sfondo alle vicende umane da cui ha preso le mosse questa riflessione. Esistono valide ragioni, allora, per pretendere che venga qualificata la tesi secondo cui il corpo sarebbe diventato il teatro di una competizione senza vincoli – almeno senza vincoli interni – per il raggiungimento del massimo godimento possibile o che una condizione di totale disincanto rappresenti la destinazione ultima del processo di modernizzazione culturale.
L’impressione che si ricava passando in rassegna i principali studi sul tema pubblicati negli ultimi decenni è che il dibattito storico, filosofico, sociologico e antropologico circa gli esiti della secolarizzazione abbia prodotto risultati che hanno arricchito e complicato in maniera sostanziale la concezione classica del destino della religione (più precisamente, del cristianesimo) nell’età moderna.[7] Parlando in generale, è diventato pressoché impossibile oggi descrivere la modernizzazione come un processo storico che, dal punto di vista dell’evoluzione religiosa dell’umanità, abbia un significato univoco o tutt’al più duplice (secondo l’ottica disgiuntiva o «non possiamo più dirci cristiani» o «non possiamo non dirci cristiani»).
Se facciamo coincidere convenzionalmente il culmine della teoria classica della secolarizzazione con la sua celebrazione teologica nel best seller mondiale di Harvey Cox, The Secular City (1965),[8] si potrebbero ricapitolare schematicamente in sei punti le principali novità emerse dalla discussione sviluppatasi da allora.
1 Per cominciare con un’acquisizione negativa, a partire dalle riflessioni pionieristiche di Hans Blumenberg e David Martin sono stati messi progressivamente in luce i difetti strutturali di una concezione processuale della storia che concepisce lo sviluppo socio-culturale nei termini della metamorfosi di una sostanza sottostante (sia essa la religione o la natura umana).[9] Detto più semplicemente, pensare la secolarizzazione come un processo graduale di «svelamento» o «travestimento» del sostrato immutabile della condizione umana (sia esso esemplificato dai moventi profondi dell’azione umana o, sul fronte opposto, dall’irriducibile matrice sacrale della sovranità politica) non consente di prendere sul serio le grandi innovazioni storiche (un esempio su tutti, la laicità moderna) e comprenderle iuxta propria principia.
2 Dal punto di vista delle indagini empiriche, la tesi macro-storica della secolarizzazione come processo globale tende a essere spacchettata in modelli meso- o micro-storici di fasi, campagne o ondate di secolarizzazione o revival religioso la cui spiegazione dipende in maniera essenziale dal riferimento giudizioso a contesti locali contingenti e diversificati. In quest’ottica, non stupisce che la modernizzazione di paesi come gli Stati Uniti, l’Italia, la Francia, la Svezia, il Brasile, la Russia o la Turchia produca effetti molto diversi sulla vitalità religiosa a seconda delle dinamiche confessionali, della tipologia dei conflitti sociali, delle politiche migratorie, delle linee di divisione ideologica, ecc.[10]
3 Se esiste un minimo comun denominatore in questa diversità congenita delle traiettorie moderne, esso non deve essere cercato in un presunto duello di lungo periodo tra il «secolare» e il «religioso», ma nella inedita cornice culturale entro cui finisce per operare il potere causale dei fattori contingenti menzionati sopra. Da questo punto di vista, la secolarizzazione appare prima di tutto come l’effetto di una macroinnovazione sociale che ha trasformato in profondità la gamma delle opzioni spirituali accessibili a persone a cui viene riconosciuto uno spazio sempre più ampio di scelta individuale.
Detto senza lunghi giri di parole, è più utile cioè intendere la «secolarizzazione» come l’affermazione di un ideale storicamente inedito di vita buona – di eudaimonia, se vogliamo usare il vecchio vocabolo socratico – indipendente da qualsiasi esperienza del sacro, dall’adesione a dottrine religiose quali che siano e da ogni forma di appartenenza a istituzioni confessionali. La «secolarità» è precisamente la diffusione di massa di questa condizione di autonomia dal religioso. La semplice comparsa di tale possibilità trasforma la fede religiosa in un’opzione e, così facendo, modifica il campo delle esperienze spirituali in senso ampio, favorendo allo stesso tempo pluralismo, mobilità, riflessività, ma anche, per altro verso, radicalizzazioni fondamentaliste, mobilitazioni identitarie, guerre culturali endemiche.[11]
4 Il fenomeno storico della secolarizzazione ha comunque una sua specifica matrice cristiana che chiede di essere soppesata criticamente. Da questo punto di vista, la «provincializzazione dell’Europa» operata dal pensiero postcoloniale ha avuto un duplice effetto benefico sullo studio della secolarizzazione. In primo luogo, ha portato a galla il dualismo tra, da un lato, una concezione interdipendente (entangled) o meticcia delle identità culturali e del campo dove si esercita la loro influenza e, dall’altro, una visione segmentata e agonistica della relazione tra le grandi civiltà storiche (in particolare della biforcazione moderna tra the West and the Rest).
Quest’ultima, in particolare, ha avuto poi il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi sul ruolo strategico che la dicotomia tra società secolarizzate e non secolarizzate ha avuto e continua ad avere nell’espansione coloniale dei paesi più ricchi e potenti dell’Occidente. È soprattutto grazie a queste contronarrazioni che la popolare tesi dello scontro di civiltà e, più ancora, del presunto conflitto insanabile tra islam ed ex cristianità ha subito delle correzioni significative.[12]
5 Un altro effetto tangibile dell’ampliamento (sia sincronico che diacronico) dello sguardo sul processo di secolarizzazione è la relativizzazione del modo liberale di concepire e istituzionalizzare la tolleranza e la neutralità dello Stato in materia di religione. Esso, infatti, non solo si adatta alla perfezione, ma asseconda una concezione latamente «protestante» della fede religiosa in cui l’enfasi cade sistematicamente sull’adesione interiore ai contenuti della credenza, con i quali è possibile, anzi è doveroso intrecciare un rapporto intimo, che prescinda dalle dimensioni rituale, comunitaria e ortoprassica tipiche della maggior parte delle esperienze religiose e spirituali susseguitesi nel corso della storia umana.
6 Da ultimo, anche gli sforzi di quegli autori che, nel mutato contesto teorico, si sono posti l’obiettivo di conservare in una versione rinnovata il nocciolo del teorema della secolarizzazione hanno comunque beneficiato indirettamente di questo vero e proprio cambio di paradigma. Esempi influenti di un simile lavoro di aggiornamento sono il ritratto dell’evoluzione religiosa dell’umanità di Marcel Gauchet, la concezione habermasiana della post-secolarità e della supremazia debole di una laicità politica debitrice nei confronti della ragione postmetafisica, o le riformulazioni della tesi nietzschiana della morte di Dio che si possono trovare in pensatori diversi come Agamben, Sloterdijk o Vattimo.[13]
Cambio di atmosfera
Alla luce di quest’opera certosina di revisione della tesi classica della secolarizzazione, ha senso tirare le fila del ragionamento notando che ormai da alcuni anni la città secolare ha fatto posto alla città post-secolare nell’immaginario di una larga fetta di studiosi. Come capita spesso con i termini che contengono il prefisso «post», anche l’espressione «città post-secolare» di per sé significa ben poco, e probabilmente spiega ancora meno.
La si può però considerare come un segnaposto che, prima ancora che uno stato di cose, denota un cambio di atmosfera. Nello specifico segnala, da un lato, l’urgenza di adattarsi a una condizione di diversità profonda nei modi di intendere e praticare anche aspetti apparentemente banali dell’esistenza umana come il corpo proprio, diversità che sarebbe sbagliato interpretare secondo la logica storicistica della contemporaneità del non-contemporaneo.
Dall’altro lato, indica la riscossa di alcuni habitus intellettuali attivistici, non contemplativi, come la tendenza a vedere nel presente una sfida cognitiva e pratica più che un destino, la disponibilità a essere sorpresi dalla quantità di confusione che la storia ha sempre in serbo per il genere umano e un’attitudine pragmatica a farsi carico di tale confusione senza schemi che ne predeterminino a monte la comprensione in maniera troppo meccanica.
Per rispondere con uno slogan alla domanda contenuta nel titolo di questo articolo, si potrebbe dire allora che la fine della città secolare non è altro che un nuovo inizio. Forse addirittura il suo vero inizio.
Riproponiamo qui un saggio di Paolo Costa che mette a tema la questione della città secolare/post-secolare, apparso sul sito LE PAROLE E LE COSE. Ringraziamo l’autore e gli editors per aver gentilmente permesso la pubblicazione anche su SettimanaNews.
[1] Cf. E. Amedei, Bimbo muore a 2 anni dopo circoncisione in casa a Monterotondo: grave il fratellino. Un arresto, «Il Messaggero», 23 dicembre 2018.
[2] Cf. T. Curcio, Cagliari: genitori vegani assolti: la dieta vegana ne ha garantito il corretto sviluppo.
[3] Cf. Aspetti bioetici della chirurgia estetica e ricostruttiva, 21 giugno 2012.
[4] Health: Down’s Syndrome Mother Denies Vanity, «BBC News», 18 novembre 1998.
[5] Cf. K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, trad. it., il Saggiatore, Milano 2015.
[6] Cf. G. Mazzoni, I destini generali, Laterza, Roma-Bari 2015. I numeri di pagina inseriti tra parentesi nel testo si riferiscono a questo libro.
[7] Ho provato a ripercorrere e cartografare il nuovo dibattito sulla secolarizzazione in P. Costa, La città post-secolare, Queriniana, Brescia 2019.
[8] H. Cox, La città secolare. La «morte di Dio» nella tecnopoli: la Bibbia nella civiltà industriale, trad. it., Vallecchi, Firenze 1968.
[9] Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. it., Marietti, Genova 1992; D. Martin, The Religious and the Secular: Studies in Secularization, Routledge & Kegan Paul, London 1969.
[10] Cfr. D. Martin, A General Theory of Secularization, Basil Blackwell, Oxford 1978.
[11] Cfr. C. Taylor, L’età secolare, trad. it., Feltrinelli, Milano 2009; H. Joas, La fede come opzione, trad. it., Queriniana, Brescia 2013.
[12] Cfr. T. Asad, Formations of the Secular: Christianity, Islam, Modernity, Stanford University Press, Stanford 2003.
[13] Cfr. M. Gauchet, Il disincanto del mondo, trad. it., Einaudi, Torino 1992; J. Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2015; G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996; G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009; P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2010.