L’arresto di Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente di rilievo dei 5 Stelle, è stato un brutto colpo per il Movimento, puntualmente investito da aspre polemiche. Non sorprende. Qualcuno potrebbe notare che un po’ se le sono cercate.
Il loro motto gridato “onestà, onestà”, una certa cultura del sospetto, la loro pressante e sistematica invocazione delle dimissioni all’indirizzo di avversari politici raggiunti anche solo da un avviso di garanzia, in un’occasione come questa – non la prima su Roma, la cui amministrazione non raccoglie particolare apprezzamento – non poteva che sortire l’effetto di attirare sul Movimento gli strali di critici e oppositori. Un certo manicheismo misto a giustizialismo gli si ritorce contro. Ripeto: ci sta, purtroppo fa parte delle regole del (duro) gioco politico.
E tuttavia, a mio avviso, non è questo il principale problema politico che affligge i 5 Stelle. Le mele marce allignano ovunque, trasversalmente. Dall’umana fragilità, se vogliamo dal peccato originale, nessuno è immune.
Le buone domande
Anche se i modi e i toni della polemica politica da anni condotta dai pentastellati sono spesso francamente fastidiosi e respingenti, non mi iscrivo tra chi li liquida sbrigativamente. Penso anzi che ci si debba interrogare sulle ragioni del largo consenso da essi raccolto. Un italiano su tre ha dato loro il proprio voto alle elezioni politiche, facendone il primo partito italiano, tuttora il più grande gruppo parlamentare. Non si può non chiedersi perché.
Un giudizio equanime dovrebbe almeno riconoscere tre cose. In una società segnata da paura, risentimento e acuto disagio sociale, i 5 Stelle hanno:
a) parlamentarizzato tensioni che altrove hanno preso una piega ancor più allarmante come la violenza (vedi i gilet gialli) o lo sviluppo di movimenti apertamente nazionalisti e xenofobi;
b) raccolto una domanda di partecipazione centrata su questioni attinenti alla legalità e alla qualità sociale e ambientale, disattesa dai partiti tradizionali, che ha fatto breccia soprattutto tra le giovani generazioni;
c) mostrato di farsi carico di un bisogno di protezione sociale con la proposta-bandiera del reddito di cittadinanza. La quale, pur criticabile per come è stata congeniata (soprattutto la confusione tra strumenti che altrove, in Europa, sono rigorosamente distinti: la lotta alla povertà e quella alla disoccupazione), risponde a una urgenza oggettiva in un paese socialmente provato e diviso. Una urgenza, va detto, sottovalutata anche a sinistra.
Il governo è altra cosa
Ciò detto, merita anche domandarsi perché, come documentano i sondaggi e i test elettorali amministrativi, il Movimento sembra non reggere alla prova del governo. Qui, più che nell’incidente di qualche briccone, stanno i problemi che affliggono i 5 Stelle. Eccone alcuni.
In primis, l’inadeguatezza della sua classe dirigente, anche a motivo dei suoi meccanismi di selezione. Approssimativi, opachi, affidati a click limitati a una cerchia chiusa e ristretta. Competenza ed esperienza dovrebbero contare, ma non si improvvisano. Al riguardo uno non vale uno …. Sconcerta il mix di superficialità e presunzione di taluni loro rappresentanti in parlamento.
In secondo luogo, un deficit di cultura di governo, della cura di coniugare i fini con i mezzi, di operare le giuste mediazioni e, perché no, i saggi compromessi. Per paradosso, il rifiuto delle virtuose mediazioni su visione e programmi e delle alleanze politiche dichiarate si è risolto in uno stravagante contratto di governo con una forza politica idealmente lontanissima – almeno in origine – quale la Lega. Una contraddizione insanabile foriera di endemici, quotidiani conflitti e di sistematici differimenti delle questioni che contano nell’agenda di governo. Un contratto destinato a ridursi a mero patto di potere. Per altro con un partner dall’identità definita, decisamente più strutturato, che vanta un ceto politico sperimentato nel governo nazionale e locale. Con il risultato di una progressiva assimilazione/subalternità dei pentastellati. Quasi ostaggio di un rapporto che manifestamente li snatura politicamente e li cannibalizza elettoralmente, ma dal quale non possono e non vogliono divincolarsi. Soprattutto non lo vuole il loro capo Di Maio, privo di alternative e di una seconda chance personale e politica.
Qui si innesta un terzo limite: un vistoso deficit di democrazia interna. Chi ha fatto l’esperienza del ’68 sa bene come la retorica assemblearista e democraticista (e il mito fallace della democrazia diretta) si risolve nel suo contrario, cioè in un massimo di verticismo. La finzione del partito che si rifiuta di chiamarsi partito, privo di uno statuto, con un vertice monocratico (il “capo politico”), con procedure decisionali opache, con alle spalle un’azienda gestita da un erede dinastico. Un difetto di trasparenza e una chiusura quasi settaria nelle quali si spiega come fioriscano casi del tipo di quello di Giulia Sarti e comunque conflitti, gelosie, rivalità, lotte di potere dissimulate e represse, anziché discussioni in chiaro nella forma fisiologica (per un organismo democratico) di una trasparente dialettica tra posizioni politiche distinte.
Questi, a mio avviso, i nodi politici che affliggono i 5 Stelle, che spiegano i limiti della loro esperienza di governo e la repentina contrazione del loro consenso. Non una buona notizia per chi, a torto o a ragione, aveva riposto in loro la speranza di un riscatto.
Nessun commento