Iam Christe sol iustitiae, mentis dehiscant tenebrae, virtutum ut lux redeat, terris diem cum reparas.
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Cristo, sol di giustizia, squarcia del cuor le tenebre, virtù tornino a splendere col giorno che rinnovi.
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Invocare il sole al sorgere dell’alba sembra pleonastico: come si fa a chiamare chi è già presente? Ma l’invocazione non è tanto rivolta a qualcuno di cui si attende la venuta, ma, nella gioia di ricevere una visita peraltro desiderata e sperata, si prega perché il nuovo sole cresca e faccia in pieno la sua funzione.
Squarciare le tenebre
La Quaresima è da noi una stagione in cui le giornate si allungano e la natura si risveglia. Iniziando la preghiera del mattino, è del tutto naturale partire dall’esperienza del ritorno della luce e, insieme, di una vita che riprende nella sua consapevolezza. Che poi la luce faccia pensare a Cristo, e il mattino alla risurrezione, viene abbastanza naturale, nutriti come siamo da secoli di tradizione e di pietà cristiana. In tre versi su quattro si parla di luce (sol, lux, dies), ed è come se le tenebre diventasse un’appendice.
Ma la cosa che mi ha colpito di più è uno dei tre verbi, dehiscant, che non mi era familiare, e che contiene un potenziale di impressionante violenza. Significa “squarciare, fendere, spaccare, smembrare”! E ciò che si chiede venga squarciato è il buio che occupa il cuore, o la mens, che è lo stesso. Non inganni la somiglianza con l’italiano “mente”, perché il termine latino, almeno nella letteratura monastica medievale, non coincide con la capacità raziocinante, resa piuttosto con ratio, ma con quello che noi diremmo lo “spirito”, la parte interiore dell’uomo, e che dunque va benissimo con “cuore” inteso nel senso biblico di luogo ove si esprime il centro della persona in ciò che sente, sperimenta e decide. Lì ci sono delle tenebre – dice l’inno – e si capisce che debbano essere così dense da dover pregare perché siano letteralmente “squarciate”.
La contrizione
Tanta letteratura spirituale pare provare un certo fastidio davanti a un linguaggio violento, come se la spiritualità fosse fatta soltanto di garbo e dolcezza. Questo dissanguamento semantico ha fatto perdere nel tempo il senso letterale di una parola che è di casa nel linguaggio della conversione che caratterizza la Quaresima: si è dimenticato che un termine quale contrizione, peraltro ancora ben presente nella lingua a cominciare dal verbo “tritare”, rimanda alla lettera a un cuore “fatto a pezzi”, “mandato in frantumi”! Ce lo dovrebbe ricordare il gesto con cui ci battiamo il petto per fenderne la durezza, ma chi se ne accorge? Chi pensa ancora che quello è il gesto del pubblicano, una persona di cui nessuno aveva stima, che forse si sentiva addosso un tale peso di disprezzo da faticare persino ad aver pietà di se stesso? Ed è per questo che l’unica speranza che gli rimane, avendo perso quella degli uomini, è la pietà di Dio.
Non so se, e quanto, e quando sia necessario che le persone e gli eventi della vita arrivino a riempirci di un buio tale il cuore che si deve invocare la violenza di un sole che squarcia.
Non so se, e quanto, e quando sia necessario che si crei in noi un tale stato di frantumazione interiore da farci supplicare l’arrivo di una luce che splenda sulle rovine e incoraggi una ripresa.
Non so, e neanche avrei l’ardire di chiedere che ciò avvenga. Come invece accadde a un grande poeta inglese del Seicento, John Donne, che attaccava uno dei suoi mirabili “Sonetti sacri” con simile richiesta:
Il cuore mio percuoti, o Dio in tre persone; ora
soltanto bussi, sospiri, splendi e cerchi di guarire;
perché sorgere possa, e stare in piedi, rovesciami e dispiega
la forza tua, che a raffiche mi spezzi, mi bruci e mi ricrei.
Retorica barocca? Forse. Ma il poeta era un temperamento drammatico, di quelli che difficilmente sanno stare nelle misure intermedie. E viveva in tempi drammatici, in cui la gentilezza era forse rimasta solo nelle danze di corte, nella musica dei polifonisti, e nel garbo delicato dei virginalisti.
Confesso di aver trovato difficoltà a rendere in italiano la splendida sequenza allitterante dei tre monosillabi dell’ultimo verso, break, blow, burn, ma spero di essere riuscito a tradurre il netto contrasto tra due comportamenti di Dio, quello mite del secondo verso (knock, breathe, shine), che richiama il personaggio di Ap 3,20, che sta alla porta del nostro cuore e bussa in attesa che gli si apra, e quello violento del quarto.
Cosa vuol dirmi il Signore?
I mistici conoscono bene questo linguaggio, peraltro ben presente anche nella Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento, e del resto esso nasce non da una diretta comunicazione di Dio, per noi impossibile, ma da quello che noi leggiamo come intervento suo in ciò che ci accade. E non è neanche detto che debba essere una richiesta, per la quale temo ci mancherebbe il coraggio, ma può essere benissimo un modo di comprendere le cose che arriva a posteriori, a cose fatte. E allora, quello che a tutta prima sembrava uno squarcio rovinoso può rivelarsi una fenditura che si spalanca poco a poco su un paesaggio luminoso, ed è quando la domanda “cosa ha voluto dirmi il Signore con quanto mi è capitato?” trova una risposta che fa luce e paradossalmente ci ricrea, o, per tradurre Donne alla lettera, “ci fa nuovi” (make me new).
È tempo di sostare su quello che è il vero cuore della strofa: il ritorno della luce, quella delle virtù, che riflettono il “Sole di giustizia”, e che arrivano a riempire un “giorno” per il quale, ancora una volta, il latino usa un verbo suggestivo e ricco di significato. Perché reparare vuol dire qualcosa che ci viene restituito, ridato, ridonato, restaurato, guarito.
Sarebbe bello svegliarsi al mattino in questo stato di accoglienza grata di un quotidiano “innocente”. Ci è ridonata la luce, ci è ridonato il tempo, ci è ridonata la vita, e tutto questo ci viene ridato come una nuova possibilità, come un tempo rimesso a nuovo, come opportunità per riparare gli eventuali guasti del giorno precedente.
Sarebbe bello, ma se non ci viene d’istinto, è la preghiera che ce lo ricorda. Su questo bisogna fidarsi un po’ di più dello Spirito e delle sue sorprese.
Quante volte capita di entrare nella “preghiera dei giorni” un po’ di malavoglia, e piuttosto impreparati! Ma c’è un accorgimento semplice che funziona sempre, ed è il chiedersi “che messaggio mi arriva oggi da inni, salmi, letture, antifone, orazioni”?
La liturgia delle ore, purché si sia un poco attenti, e ci si arrivi magari con qualche domanda dentro, incluse quelle sgradevoli, raramente fa mancare una parola, un’immagine, una frase che si accende nel buio del cuore, se non proprio come un sole (ma accade anche questo!), almeno come un piccolo raggio che di quel Sole è comunque un riverbero. “Torni la luce delle virtù”, canta l’inno, “nel mentre che restituisci, rifatto, il giorno alle terre”.
Isacco della Stella, commentando una frase del Cantico in cui una figura misteriosa avanza come l’aurora, come la luna, come il sole (Ct 3,6), interpreta allegoricamente questo crescendo di luce come un percorso di conversione, discorso perfettamente in tema con la Quaresima. Nelle tre immagini vede forme di una giustizia che si rivela in progressione: l’innocenza come luce interiore (l’aurora), la buona condotta che illumina gli altri (la luna), lo zelo che incoraggia gli altri a diventare più luminosi (il sole). Tre modi di assorbire il “Sole di giustizia” per lasciarsi poi condurre da lui nella giornata.
Il giorno che si rinnova, su un asse temporale più lungo, rimanda anche alla stagione che si rinnova. In questo senso la Quaresima è il tempo della primavera, il tempo della rinascita, il tempo in cui la natura, che sembrava morta, riprende a vivere, esce dal letargo invernale per riempire il mondo di gemme, foglie e fiori.
Il viola che marca la liturgia del tempo è spesso associato con sensazioni lugubri e luttuose, dimenticando che le umili e profumate viole dei campi sono il fiore che più caratterizza questa stagione.
E poi i canti, che gli uccelli di qui, indifferenti alle abbondanti tracce di neve rimaste nel bosco, ogni mattina intonano alla gloria di Dio.
In tempi lontani, quando il contatto con la natura era totale, il mutamento di stagione era percepito con ben altra gioia di quanto avvenga oggi da noi. Mi tornano in mente i versi musicali di una lirica inglese medievale:
Primavera è venuta con amore al villaggio,
coi fiori e i gorgheggi degli uccelli.
Margherite nelle valli, dolci canti di usignoli,
canta la sua canzone ogni pennuto…
Che ogni alba, come ogni primavera, porti davvero in noi la luce fulgente del Sole di giustizia, che ci aiuti a credere, in un mondo allo sfascio, che lui c’è, e la giustizia non è fuggita dalle nostre terre! E che tocca ancora a noi, discepoli di quel Sole, viverla e irradiarla per conservare la speranza.