Come hanno ormai messo in luce, tra gli altri, Marcello Neri e Andrea Grillo, la Costituzione Apostolica Veritatis gaudium (VG) si compone di due parti disomogenee. Il Proemio disegna infatti un orizzonte che non trova corrispondenza nella parte giuridica che compone la maggior parte del testo.
La sfida di Veritatis gaudium
In questo, si parva licet, abbiamo un precedente interessante: al concilio Vaticano II, la dissonanza stridente tra il «proemio» del Concilio – considerando tale Gaudet mater ecclesia (GME), il discorso di apertura di papa Giovanni XXIII – e le prime bozze dei documenti. A quel tempo, i padri conciliari – e i teologi loro collaboratori – non si limitarono tuttavia alla critica: iniziarono a immaginare ben presto soluzioni, senza aspettare necessariamente un’«autorizzazione», forti della libertà concessa dalla loro dignità e dal silenzioso assenso del papa, che esplicitamente aveva invece chiesto loro un’assunzione di responsabilità proprio in GME.
L’analogia può rischiare forzata, ma anche noi non possiamo limitarci alla critica, soprattutto se autoassolvente rispetto al compito primario stabilito dal Proemio stesso: il «rinnovamento sapiente e coraggioso» degli studi ecclesiastici, «richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa in uscita», compito «ingente e non rinviabile» (VG 3). Dobbiamo perciò serenamente metterci in gioco e iniziare un percorso di cui nessuno conosce in anticipo le tappe, gli ostacoli e gli incroci.
Il Centro Fede e Cultura «A. Hurtado» della Pontificia Università Gregoriana di Roma ha dato vita, nell’anno accademico 2018/19, a una serie di iniziative su VG. Tra queste, l’allestimento di quattro workshop riservati a docenti e studenti del II e III ciclo dell’università[1].
Il sottoscritto ha avuto modo di partecipare a uno di essi e di interagire con i moderatori e segretari degli altri tre. Non presenterò qui una sintesi, impossibile per la quantità di idee, sensibilità e questioni emerse, che costituiscono il terreno fertile per le iniziative del Centro in merito alla riforma degli Studi ecclesiastici. Vorrei semplicemente riportare una personale selezione di alcune questioni emerse come urgenti e di alcuni espedienti pratici che si potrebbero attivare per provare a iniziare ad affrontare alcuni aspetti degli snodi problematici.
Questi due brevi elenchi non rendono conto della grande quantità di materiale messo in gioco in quell’occasione, ma ritengo possano comunque essere utili per la riflessione sugli Studi ecclesiastici.
Tre questioni urgenti
La prima questione urgente è una certa «depressione» generalizzata, non limitata alla sola VG. Presentando un altro recente documento, papa Francesco ha pronunciato parole che possono forse far sorridere, ma che esprimono verità: «Il risultato del Sinodo non è un documento. Siamo pieni di documenti». I documenti non servono a nulla se qualcuno non li attua. Non è solo questione di politica ecclesiastica, ma di fede nello Spirito Santo.
Una riforma della portata annunciata in VG che non inneschi presto alcuni visibili cambiamenti strutturali, anche minimi, rischia di esaurirsi, macerandosi nel desiderio di una rivoluzione. Piuttosto che l’immobilità paralizzante in attesa di un disegno omnicomprensivo, meglio un’andatura anche incerta e dinoccolante, per uscire da una situazione che sta diventando insopportabile.
La seconda questione riguarda il tema della inter e transdisciplinarietà. A fronte di molti studi che ne motivano l’urgente adozione e a fronte degli stessi interventi magisteriali, le pratiche sono, per il momento, lasciate quasi solo alla buona volontà dei singoli, studenti e docenti, in molti luoghi di studio e ricerca. Occorre dare vita – strutturalmente – a luoghi in cui inter e trans disciplinarietà siano vissuti e non solo teorizzati.
La terza questione è la paura, fenomeno culturale tutt’altro che ristretto alle mura accademiche. Ci sono diverse paure che caratterizzano l’atmosfera universitaria: quella di sbagliare, quella di essere denunciati alle autorità superiori, quella di fallire un esame… Quanto incidono nella vita universitaria? Come creare spazi di fiducia condivisa in cui l’errore possa essere gestito come momento inevitabile, se non addirittura fruttuoso, del percorso?
Come si fa la teologia?
Nella storia, anche recente, degli Studi Ecclesiastici abbiamo già vissuto significativi momenti di passaggio, tornare ai quali può esserci utile. Negli anni che hanno preceduto e seguito la promulgazione di Sapientia christiana, ad esempio, hanno visto la luce alcuni studi che hanno fatto la storia della riflessione teologica. Per restare solo all’esperienza dell’Università Gregoriana di Roma, si possono citare le opere di R. Latourelle, B. Lonergan, M. Flick e Z. Alszeghy, ma l’elenco potrebbe ovviamente allargarsi a molti altri nomi e luoghi.
La loro diversità (di sensibilità e approccio) e la loro capacità generativa sono oggi evidenti, ma forse non ancora abbastanza recepite. Non penso solo a opere come Il metodo in teologia (visto con gli occhi di un teologo fondamentale) e Come si fa la teologia (scritto da due autori di teologia dogmatica), ma a quel clima culturale caratterizzato da tre elementi: in primo luogo dall’estremo rigore formale nel «sapere come si stava pensando mentre si pensava» (per citare uno dei partecipanti ai workshop); in secondo luogo dalla pluralità di approcci e contenuti, rispettosi e interagenti; infine – ma non ultimo – da uno sguardo aperto alle questioni delle «pratiche» intese come luoghi generatori e non solo applicativi del pensiero. Occorre un ritorno a quei testi, ma soprattutto a quell’atmosfera di ricerca.
E se cominciassimo da piccole cose?
In moltissimi luoghi accademici, le lezioni si distinguono in «corsi cattedratici» e «lezioni seminariali». Il potenziale di queste seconde andrebbe esplorato con molta più forza. Non pensiamo qui ai «seminari» come a luoghi in cui a turno uno dei partecipanti «fa il professore», allenandosi a travasare contenuti e a difendersi dalle domande di un pubblico, ma a luoghi «performativi» in cui si fanno cose (commentano testi, esplorano percorsi, immaginano scenari, affrontano questioni di cui nessuno ha la risposta…) nel rispetto di ruoli differenziati, e facendo si apprende uno stile, un modo, un metodo…
Gli «esercizi seminariali», la cui necessità è riconosciuta negli studi teologici da quasi un secolo[2], sono luoghi di formazione per gli studenti ma, e forse in misura ancora maggiore, anche per i docenti, specialmente quando è prevista una loro presenza plurale e contemporanea. Qual è il peso dato alla didattica seminariale nei vari istituti? Quanto influiscono sul percorso e sulla valutazione complessivi? Quanto tempo è dedicato alla formazione dei docenti a questo particolare luogo?
A questo proposito, diversi docenti delle varie discipline teologiche cominciano a sentire come un’esigenza fruttuosa prevedere lezioni – anche cattedratiche – in compresenza con docenti di altre aree disciplinari. È possibile dare una forma strutturata a queste esperienze, spesso lasciate alla sensibilità personale o alla sola capacità relazionale dei singoli? Oggi spetta allo studente tentare una sintesi, ad esempio, sul tema del peccato «mettendo insieme» quanto ricevuto nel corso di diritto, di dogmatica, di morale e di esegesi (per tacere di teologia pastorale o psicologia). E se fossero i docenti stessi a dover interloquire in classe per mostrare la complessità della sintesi stessa? Cambierebbe solo il «modo»?
Restando alla «interdisciplinarietà», i docenti sono spesso poco abituati al lavoro di gruppo, anche perché vengono scelti tra studenti che per tutto il percorso di studi sono stati – nella pratica – incentivati al lavoro individuale, se non individualistico. Lungi da noi il criticare l’importanza dello studio personale, ma non si potrebbe inserire nei piani di studi almeno una valutazione su un lavoro obbligatoriamente «di équipe»? O si pensa che tale «competenza» sia ininfluente allo studio della teologia?
Il discorso sulla valutazione, poi, sposta l’attenzione sul «modello di studente» che viene a identificarsi con le aspettative e soprattutto con le pratiche degli studi stessi. Il fatto che le verifiche e le valutazioni siano quasi sempre solo alla fine di un percorso, totalmente individuali, sempre su una teoria verbalizzata, cosa dice implicitamente riguardo la nostra concezione degli studi ecclesiastici?
«La definizione della teologia è già di per sé un compito teologico; non possiamo dire che cosa sia la teologia se non facendo teologia»[3]. Non facciamo teologia solo dicendo contenuti teologici. Facciamo teologia nel modo in cui facciamo teologia. E forse occorrerebbe ripartire da qui, da piccole cose, che potremmo fare in modo diverso.
[1] Una presentazione del piano di lavoro dei workshop è disponibile su Il Regno Attualità 4(2019), 89-90.
[2] Cfr. Pio XI, Deus scientiarium Dominus. Constitutio apostolica de universitatibus et facultatibus studiorum ecclesiasticorum, 24/05/1931, art.30; cfr. anche Ghellinck, Joseph de, Les exercices pratiques du «Séminaire» en théologie, Paris 1934; Henrici, Peter, Guida pratica allo studio, Roma 1976.
[3] Cfr. Alfaro, Juan, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986, 132.