Il proemio della costituzione apostolica Veritatis Gaudium circa le università e le facoltà ecclesiastiche è un invito alla riflessione a all’azione comune. Sovente lo stile pastorale di Francesco ha la forma dell’invito e dell’esortazione, si dispiega cioè nell’incoraggiamento a fare cose insieme. Esemplare in tal senso è il discorso pronunciato il 10 novembre 2015 a Firenze, in occasione del Convegno ecclesiale nazionale. Il dito del pastore viene “puntato” non per ammonire, ma per “additare” l’urgenza di un cammino condiviso.
In questo modo il magistero si riappropria di un’autorità riconoscibile perché capace di mostrare la praticabilità delle imprese comuni. Il pastore non è colui che apre la strada o detta l’agenda, ma colui che scorge la necessità della convocazione. Convocato è chiunque si senta coinvolto o implicato nelle questioni che interessano trasversalmente la complessità del corpo ecclesiale e sociale.
Per queste ragioni mi propongo di offrire un ulteriore contributo al dibattito fecondamente avviato da Marcello Neri e Marco Ronconi, soffermandomi principalmente sulla riforma “laboratoriale” della ricerca teologica, prospettata da Veritatis Gaudium. Quella del laboratorio è una delle immagini più fertili e incisive dell’intero documento. Nel proemio si legge che gli studi ecclesiastici «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo» (n. 3).
Ritengo che il principale obiettivo di queste parole sia non solo auspicare uno stile laboratoriale in teologia, ma fare del laboratorio stesso una categoria teologica. Tutto questo può significare diverse cose: 1) La natura performativa dell’esperienza credente è naturalmente situata in una realtà culturale; 2) La condivisione delle imprese e delle opere comuni non è un requisito accessorio per le comunità cristiane, ma il luogo processuale in cui permanentemente vivono coram Deo; 3) La compartecipazione libera, feconda e creativa è un atteggiamento che accomuna la vita culturale di un popolo, il cammino storico di una chiesa e il clima dialogico di una comunità accademica.
Teologia e scienze sociali
La prima funzione di un laboratorio non è di natura didattica, né riguarda principalmente le modalità di insegnamento. In un contesto laboratoriale è necessario prima di tutto condividere uno spazio o un ambiente. La precedenza viene assegnata alla coabitazione dei viventi, la diponibilità al mutuo apprendimento viene anteposta alla certificazione delle qualità personali. Un tratto marcatamente pratico del laboratorio consiste nel dover lavorare gomito a gomito, nell’impossibilità di costruirsi una bolla operativa, di ritrarsi in una stanza isolata e immune.
Chi ha qualche confidenza con la vita di un laboratorio biomedico conosce i limiti e le potenzialità della prossimità fisica all’interno di un comune ambiente di ricerca. Quest’ultimo aspetto viene spesso ignorato dagli studiosi e dai ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali. Tuttavia, sono proprio le scienze sociali a giocare un ruolo di primaria importanza nella costruzione di un “provvidenziale laboratorio culturale”.
Se il laboratorio non è un metodo, ma una categoria del pensiero teologico, occorre che la stessa riflessività teologica si esprima non solo attraverso forme condivise di ricerca, ma interiorizzi coerentemente la forma pubblica e sociale della rivelazione cristiana. La relazione con Cristo e l’annuncio del vangelo non sono confinabili nello spazio del privato o nel perimetro del santo, ma sconfinano nell’orizzonte del pubblico e del sociale. La vita cristiana diventa percorribile e pensabile solo nella ricerca di inespresse configurazioni del comune, di nuove costruzioni sociali e di inedite forme di fraternità.
Per questo occorre che teologia e scienze sociali siano capaci non solo di dialogare, ma di elaborare un nuovo paradigma di ricerca. Bisogna andare oltre il contatto o il semplice scambio di approcci e contributi tra discipline diverse come la teologia e le scienze della società. È in gioco la possibilità di scoprire e valorizzare il loro comune ancoramento, l’ispirazione che le sostiene: entrambe si interessano all’uomo avendo a cuore la radice relazionale che lo porta, lo nutre e lo salva. Penso ad esempio ai frutti della compenetrazione teoretica e della collaborazione pratica tra teologia e filosofia sociale. Secondo Max Horkheimer la filosofia sociale si occupa di interpretare filosoficamente «il destino degli uomini, non in quanto meri individui, ma quali membri di una comunità»[1].
Lo statuto, il metodo e i “classici” di un auspicabile paradigma ermeneutico, nato dalla cooperazione tra teologi e scienziati sociali, sono ancora tutti da rinvenire ed esplorare. Potrebbe essere questo un eventuale cantiere per gli studi ecclesiastici nella misura in cui si immagineranno come un provvidenziale laboratorio culturale.
I molti modi dell’apprendimento
Per la riforma degli studi ecclesiastici l’immagine del laboratorio è particolarmente efficace proprio perché insiste sulla modalità operativa e condivisa del lavoro scientifico e intellettuale. Per fugare equivoci occorre specificare e ampliare la portata evocativa dell’immagine stessa. Un laboratorio teologico non può essere un luogo di manipolazione artificiale della realtà, ma un contesto in cui è possibile esercitare l’«interpretazione performativa della realtà», un ambiente in cui la vita non viene creata o riprodotta “in vitro”, ma offerta quale dono e dote comune (cum-munus) da parte di ciascun membro.
La performatività laboratoriale richiede non solo la capacità di collaborare fianco a fianco, ma la disponibilità di ogni soggetto a trasformarsi, in quanto individuo o gruppo, mentre si dedica a un’attività comune o condivisa. L’interpretazione della realtà è performativa quando qualcuno, avanzando una pretesa di validità, si impegna in un’azione comprensibile all’interno del mondo sociale di cui è parte. La natura dell’apprendimento non è mai intellettualistica o disincarnata. Ogni atto linguistico-propositivo è in grado di convocare più interlocutori e di coinvolgere diverse facoltà umane.
Per questa ragione la performatività laboratoriale è attenta alla pluralità delle forme di apprendimento. Non si tratta esclusivamente di favorire l’incontro tra discipline o approcci differenti.
Ogni discorso sulla transdisciplinarità della conoscenza scientifica deve essere preceduto dalla critica delle istituzioni che hanno limitato la diversificazione delle forme di apprendimento, riducendo ad esempio l’apprendimento a sinonimo di insegnamento.
Si pensi a come la ritualità scolastica abbia monopolizzato il pluralismo delle pratiche e dei processi di apprendimento. Si potrebbe leggere l’intera storia della modernità come un processo di erosione della coralità popolare dei contesti e delle occasioni di formazione.
L’apprendimento è stato confinato nella forma istituzionale scolastica, l’unica riconosciuta e riconoscibile. La scolarizzazione si è imposta quale modello unico e universale, squalificando i contesti educativi popolari o le forme di apprendimento extra-scolastico. Il mondo sociale diventa dis-educativo nella misura in cui l’insegnamento (scolastico o accademico) concepisce se stesso quale unica forma legittima ed esclusiva di apprendimento.
In questo problematico contesto culturale la forma-laboratorio si colloca agli antipodi dei sistemi chiusi, artificiali e autoreferenziali. Il laboratorio è un luogo di sperimentazione e di riforma nella misura in cui include la pluralità delle forme, dei processi e dei contesti di apprendimento. È il luogo in cui l’apprendimento «non è il risultato dell’istruzione, ma di una libera partecipazione a un ambiente significante»[2].
Anche nella vita pastorale delle comunità credenti la diversità delle pratiche di formazione è stata soppressa in favore della ritualità, replicata oramai all’inverosimile, dell’insegnamento scolastico. Troppo spesso la comunicazione della fede viene affidata a un corso para-scolastico senza preoccuparsi di collocarla, ad esempio, nel crocevia dello spazio liturgico e sociale di una comunità parrocchiale. Vengono eccessivamente sottovalutate le conseguenze di una vita cristiana compressa nella spazialità pratica e simbolica dell’insegnamento frontale. Anche nella sincera ricerca di visioni alternative si finisce quasi sempre per replicare la forma dell’apprendimento magisteriale, ricorrendo ad esempio alla modalità dell’incontro di formazione o della conferenza.
L’apprendimento reciproco è un’azione organica della chiesa, è un tratto coestensivo all’intero corpo ecclesiale, non può essere una funzione riduzionistica o privilegiata. Ecco perché è urgente, e allo stesso tempo appassionante, sperimentare comunitariamente la pluralità dei gesti in cui si articola la vita ecclesiale: «prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare»[3].
La locanda accademica
La perfomatività laboratoriale può essere un valido criterio per la riforma degli studi ecclesiastici, ma anche delle istituzioni scolastiche e accademiche in generale. Si devono a Pierre Bourdieu notevoli riflessioni sul potere “consacratorio” della scuola e dell’università, istituzioni che tagliano il corpo sociale in classi e gruppi. Il potere consacrante dei sistemi di istruzione agisce attraverso l’assegnazione dei titoli e si esercita nella certificazione delle competenze.
Accanto a questo risvolto istituzionale occorre valorizzare un potere diffuso e operante nella vita quotidiana delle realtà accademiche: il potere di avviare e coltivare conversazioni prolungate tra persone differenti per ruolo, età, cultura e appartenenza sociale. Occorre riscoprire l’università non solo come istituzione che legittima e consacra, ma come luogo in cui è possibile intrattenere conversazioni inaspettate e prolungate.
L’intreccio delle conversazioni può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico dell’accademia. In modo provocatorio ma efficace, ricorrendo a un espressione di Leopold Kohr, Ivan Illich amava parlare dell’università come di una locanda (academic inn). Il senso di questa espressione si dischiude non solo nella convergenza di studium e convivium.
Quello che più conta è che in una locanda è possibile fare incontri imprevisti o non del tutto programmabili. L’avventore della “locanda accademica” si dichiara quindi disponibile e incontrare e a lasciarsi incontrare, si apre costantemente all’eventualità di una frequentazione assidua, alla possibilità che la philia si dischiuda anche in imprese e riflessioni comuni. L’università-locanda è il luogo privilegiato in cui la vita dell’intelletto e la possibilità dell’amicizia si rincorrono aprendosi all’eventualità di un intreccio fruttuoso. Tutto questo diventa possibile se anche nel centro visibile e spaziale dell’università viene aperto e garantito uno spazio utile alle conversazioni inattese e prolungate. Nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare «non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme»[4].
L’università-locanda avanza un’istanza critica nei riguardi della razionalità manageriale che sta colonizzando il mondo sociale e quello della comunicazione pubblica. Un certo modello di management, occupando quasi completamente gli spazi della socialità contemporanea, rischia di favorire “conversazioni brevi” e finalizzate esclusivamente alla decisione (problem solving).
Rivendicando una funzione critica e alternativa, l’università dovrebbe presentarsi come il luogo delle “conversazioni lunghe”, non finalizzate esclusivamente alla chiusura o alla risoluzione di un problema, ma capaci di aprire costantemente la problematizzazione del reale, conservando il contatto tra la catena assertiva delle proposizioni e le relazioni personali di chi le avanza. In questo modo le istituzioni accademiche possono finalmente collocarsi in un contesto ecclesiale che le riconosce non solo come luoghi di un potere consacratorio, ma come ambienti aperti e frequentabili.
Nelle istituzioni scolastiche e accademiche deve essere possibile, prima di ogni cosa, esercitarsi nel dono reciproco della conversazione, scambiarsi il munus dell’argomentazione, frequentare conversazioni impreviste e prolungate mediante le quali il tessuto della vita civile e quello del corpo ecclesiale si arricchiscono contestualmente. «Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione: commune conversationis officium, dice Ambrogio: “comune è il dovere di intrattenere relazioni”»[5].
Veritatis gaudium – Cf. SettimanaNews
L. Prezzi, Intervista a mons. Zani
M. Neri, Sugli studi ecclesiastici
[1] M. Horkheimer, «La situazione attuale della filosofia della società e i compiti di un istituto per la ricerca sociale» in Id., Studi di filosofia della società, Mimesis, Milano 2011. Cf. R. Jaeggi – R. Celikates, Filosofia sociale. Una introduzione, Mondadori, Milano 2018.
[2] I. Illich, Descolarizzare la società, Mimesis, Milano 2010, 45.
[3] Francesco, Evangelii gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24 novembre 2013, 24.
[4] Francesco, Discorso in occasione dell’incontro con i rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015.
[5] C.M. Martini, «Discorso al comune di Milano del 28 giugno 2002» in Id., Giustizia, etica e politica nella città, Bompiani, Milano 2017, 1873.