Mercoledì 17 aprile, circa 200 milioni di indonesiani si recheranno alle urne per eleggere il nuovo parlamento e il presidente per il prossimo quinquennio. L’interrogativo è se l’Indonesia cadrà nelle mani degli estremisti o se rimarrà un paese saldamente ancorato ai principi della Pancasila.
In lizza ci sono, da un lato, Joko Widodo, chiamato familiarmente Jokovi, presidente dal 2014, e, dall’altro, Prabowo Subiyanto – ex genero del secondo presidente indonesiano Suharto – per lungo tempo a capo del Kopassus, le famigerate forze speciali dell’esercito, storicamente accusate di gravi violazioni dei diritti umani in Indonesia e nel Timor Est.
Come cinque anni fa, Prabowo è il candidato dichiarato dei falchi e degli estremisti musulmani. Una sua vittoria potrebbe costituire la fine della democratica e religiosamente tollerante – nonostante vari conflitti – Indonesia.
Con i suoi 265 milioni di abitanti, l’Indonesia è la terza più grande democrazia del mondo. È anche il Paese con il maggior numero di musulmani. Nel mondo, un musulmano su cinque è indonesiano. Se – scrive Franz Magnis Suseno, gesuita, nell’ultimo numero di Stimmen der Zeit (n. 4/2018) – vincerà le elezioni del 17 aprile Widodo o Prabowo, il fatto avrà un’importanza che va ben oltre l’Indonesia.
Per molto tempo, l’Indonesia è stata considerata il paese modello della tolleranza islamica. Ma questa immagine ha cominciato a incrinarsi. L’apertura democratica, dopo la caduta dell’autoritario presidente Suharto, ha consentito infatti ai radicali islamici e agli estremisti di assumere maggiore visibilità. Da allora – scrive Suseno – l’intolleranza e la violenza sono notevolmente aumentate. È diventato sempre più difficile per le religioni minoritarie aprire chiese e templi e capita sempre più di frequente che alcuni gruppi propensi alla violenza ostacolino in tutti i modi l’autorizzazione a costruire nuove chiese, mentre nel paese si stanno moltiplicando attentati terroristici.
Un modello di tolleranza s’incrina
I musulmani moderati sono preoccupati anche per l’aumento di regolamenti basati sulla sharia, illegalmente imposti da alcune amministrazioni locali. Un caso tipico è quello della provincia occidentale di Sumatra dove i candidati musulmani, per accedere allo status di dipendenti pubblici, devono essere in grado di leggere il Corano (in arabo).
Il primo attacco terroristico in questi ultimi 20 anni avvenne nel 1999, quando una bomba fu fatta esplodere davanti alla grande moschea Istiqual a Giacarta. Nel Natale 2000 esplosero 32 bombe davanti a diverse chiese da Sumatra a Giava fino a Lombok provocando 17 morti e oltre 100 feriti.
La polizia non ha mai indagato a fondo su questi attentati, probabilmente perché si suppone che dietro ad essi ci fossero dei militari. Nell’ottobre 2002 tre ordigni sono esplosi a Kuta, nell’isola di Bali, uccidendo oltre 200 persone, in gran parte stranieri.
Uno degli attentati più recenti è avvenuto nel maggio 2018, quando una famiglia intera, il padre con due figli quasi adulti e la madre con le sue due bambine in sella si sono fatti esplodere, uccidendo otto cristiani.
Preoccupante è stato anche anche il caso Ahok, il cui nome completo è Basuki Tjahaja Purnama. Nel 2014 aveva assunto la carica di governatore della Grande Giacarta, dopo che l’anno precedente, nel 2013, era diventato presidente dell’Indonesia il governatore Joko Widolo.
Ahok divenne vice di Jokovi. In questo incarico si rivelò subito come una persona estremamente capace. Mise sotto controllo la corruzione e rese efficiente l’amministrazione della città, e cominciò a regolare i fiumi che minacciavano di inondare Giacarta. Era molto popolare e incorruttibile. Ma era un cristiano protestante di origine cinese, quindi di doppia minoranza.
Una sua incauta affermazione, nel settembre 2016, offrì ai suoi avversari islamisti l’occasione di accusarlo di blasfemia contro il Corano. Migliaia di dimostranti musulmani, all’insegna dello slogan “Difesa dell’islam” si mobilitarono a Giacarta. Era la prima volta che aveva luogo in Indonesia un’ondata di populismo islamista.
Ahok l’anno seguente, alle elezioni regolari, fu espulso e condannato da una corte, dietro pressione di una folla islamista, a due anni di carcere, cosa che fu giudicata anche da molti musulmani un grave errore giudiziario.
Ma il vero bersaglio degli islamisti non era tanto Ahok, ma Jokovi, che per gli estremisti costituisce il principale ostacolo ad un’ulteriore islamizzazione del Paese.
L’87% degli indonesiani appartiene in qualche modo all’islam. Pertanto il problema della posizione assunta dall’islam è fin dall’inizio una questione cruciale per l’Indonesia. Sorprendentemente, nel 1945, dopo aver proclamato l’indipendenza dall’Olanda, il Paese si diede una Costituzione – che è tuttora in vigore – secondo cui l’islam non gode di alcuno status speciale.
La Costituzione si basa invece su cinque principi filosofici politici che il presidente Sukarno formulò nella cosiddetta Pancasila: fede nel Dio unico; umanità giusta e civile; unità dell’Indonesia; democrazia guidata dalla saggezza; giustizia sociale.
Cruciale è il primo punto, il quale afferma che tutte le religioni, non solo l’islam, ne sono soggette.
La Pancasila costituisce la piattaforma della Costituzione indonesiana. Esprime il consenso basilare secondo cui tutti gli indonesiani, senza distinzione tra maggioranza e gruppi minoritari, sono cittadini a pieno titolo. Garantisce che le identità presenti nel Paese – ci sono centinaia di etnie, lingue e numerosi orientamenti religiosi – non sono soppresse, ma protette e riconosciute. In fase di elaborazione, c’era stato un tentativo di affermare l’obbligo della sharia per i musulmani, cosa che avrebbe relegato tutti gli altri indonesiani a cittadini di seconda classe. Ma la clausola fu in extremis cancellata.
Pertanto la Pancasila è il documento chiave per l’unità di questo Stato multiculturale. Ciò non significa – afferma p. Suseno – che nella pratica non ci siano mai state delle discriminazioni su base religiosa. Ma la Pancasila è così profondamente radicata nella coscienza identitaria indonesiana che gli stessi musulmani radicali non osano più metterla in questione.
I tre orientamenti nell’islam
Attualmente possiamo distinguere tre orientamenti dell’islam indonesiano. I primi vent’anni della Repubblica sotto Sukarno trascorsero all’insegna del nazionalismo. Con l’annientamento dei comunisti, nel 1965, cadde la più forte opposizione all’islam.
Suharto, al potere dal 1966, nei suoi primi vent’anni mise a freno l’islam politico, ma promosse una islamizzazione interna, allo scopo di privare per sempre il comunismo della sua base. Furono costruite delle moschee, i funzionari dello stato dovevano recarsi alla preghiera del venerdì alla moschea.
Negli anni ’80, Suharto stabilì che tutte le organizzazioni, anche quelle religiose, erano obbligate ad attenersi al documento base della Pancasila.
Negli anni ’90 però si rivolse all’islam per ampliare la sua base politica. Gli islamisti dichiarati poterono così tal modo partecipare al sistema Suharto. In questo modo l’islam indonesiano divenne più influente anche politicamente. Quanto tuttavia fosse forte l’orientamento alla Pancasila in Indonesia si manifestò dopo il ritiro di Suharto nel 1998, quando il Paese stava attraversando una situazione pericolosa, scosso dalle dimostrazioni degli studenti per le vie di Giacarta. Situazione superata ad opera di politici i quali, invece di approfittarne per trasformare l’Indonesia in uno stato islamista, hanno guidato il Paese verso una democrazia basata sulla Pancasila.
Gli attuali orientamenti
Oggi possiamo distinguere nell’islam indonesiano tre orientamenti. Ci sono anzitutto i figli (e i figli dei figli) di coloro che erano religiosamente indifferenti – i cosiddetti abangan – che avevano poche cose in comune con l’islam e che, fin dall’inizio, si sono opposti all’islamizzazione dello stato indonesiano. I loro figli ora pregano, digiunano, leggono il Corano e sono orgogliosi di aver compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, ma politicamente continuano a scegliere i partiti non islamici. La forza di questo gruppo si vede nel fatto che, insieme, questi partiti a orientamento islamico, dopo la svolta democratica del 1998, non hanno mai ottenuto oltre il 37% dei suffragi.
Il secondo grande gruppo vive pienamente la sua identità musulmana. Ad esso appartengono gli aderenti dei partiti politici a orientamento islamico, ma non sono mai riusciti a sviluppare una forte identità sociale.
Il nucleo di questo secondo gruppo è composto da due grandi organizzazioni, la Muhammadiyah e la Nadlatul Ulama (NU). Entrambe si considerano organizzazioni non politiche.
La prima, fondata all’inizio del sec. XX, ha la sua base nelle città. Rappresenta un islam aperto alle scienze ed è attivo soprattutto del campo dell’istruzione; gestisce inoltre più di un centinaio di università in tutta l’Indonesia e opera anche nel settore degli ospedali. La base della NU, che è la seconda organizzazione, è composta da oltre 20.000 pesantrens, scuole-internati coranici, che accolgono migliaia di studenti fra i 10 e i 17-18 anni, gestiti da studiosi islamici e rappresentano un islam più tradizionale. La sua base è l’entroterra agrario ed è l’organizzazione di gran lunga più influente nella società.
Ci sono, infine, gli estremisti, radicali e fondamentalisti di vario genere che vogliono fare dell’Indonesia uno stato totalmente islamico alla loro maniera. Ci sono sempre stati degli estremisti in Indonesia.
Negli anni ’50, un’insurrezione per la liberazione, chiamata “Daruf Islam”, ha reso insicure alcune zone dell’isola occidentale di Giava, del sud Sulawesi (ex Celebes) e dell’Aceh.
Da anni l’Arabia Saudita elargisce generosi aiuti finanziari per diffondere il suo wahabismo intollerante e fondamentalista che sia la NU e la Muhammadiyah guardano invece con grande sospetto. La NU ha persino emanato una fatwa che dichiara il wahabismo un’eresia.
Ci sono poi altri gruppi e organizzazioni, per esempio, il Forum della comunità islamica (FUI) protagonista di azioni intolleranti. Tristemente noti sono, per esempio, gli attacchi contro i bar karaoke e l’azione per la chiusura delle chiese.
24 milioni di cristiani in Indonesia
Questa situazione preoccupa naturalmente le minoranze religiose, tra cui il 9% di cristiani rappresentato da 24 milioni di abitanti – due terzi protestanti e un terzo cattolici. Delle altre minoranze fanno parte anche l’uno e mezzo per cento di indonesiani indù di Bali, buddisti, confuciani e aderenti a religioni tribali indigene.
I cristiani – scrive p. Suseno – non vivono però in un clima di paura. Anche se una minoranza di essi abita a Giava o nell’islamista Aceh, essi possono vivere, lavorare, esercitare il commercio e pregare senza difficoltà particolari. Non solo: l’Indonesia è forse l’unica nazione a maggioranza musulmana in cui esiste ancora la libertà di cambiare religione. Ogni anno vengono amministrati migliaia di battesimi di adulti, compresi musulmani.
È interessante notare – sottolinea ancora Suseno – che, nonostante casi isolati di intolleranza, le relazioni tra cristiani cattolici e protestanti e la corrente principale musulmana non sono mai state così buone come attualmente. I cattolici hanno alle spalle un lungo processo di apprendimento. I cattolici indonesiani, infatti, hanno collaborato fin dall’inizio con il movimento di liberazione nazionale. Come riconoscimento, il presidente Sukarno dichiarò il primo vescovo indonesiano, Albertus Soegijaprasata, gesuita, eroe nazionale.
Politicamente, i cattolici hanno avuto buoni rapporti con i musulmani. Hanno condiviso l’anticomunismo e le convinzioni democratiche. Si sono schierati con i “nazionalisti”, ossia con la maggior parte degli indonesiani che si sono opposti all’islamizzazione dell’Indonesia. Quando il generale Suharto istituì praticamente una dittatura, i cristiani lo appoggiarono poiché vedevano nel “Nuovo Ordine” una garanzia contro la supremazia dell’islam.
La situazione cominciò tuttavia a cambiare negli anni ’70. Le violazioni dei diritti umani commessi da Suharto resero sempre più problematico il loro appoggio morale al suo regime.
Per avere, come cristiani, una lunga prospettiva di vita in un Paese dove l’87% è musulmano – osserva Suseno –, dobbiamo instaurare rapporti positivi e di fiducia con i musulmani. Tanto più che l’islam indonesiano è costituito da una varietà di correnti molto diverse.
Da parte musulmana abbiamo trovato un numero crescente di intellettuali e capi religiosi desiderosi di collaborare con noi.
Ma, attualmente, in Indonesia è in corso una lotta per l’anima dell’islam. Fondamentalisti e radicali cercano di reclutare aderenti tra la gioventù islamista, tacciando soprattutto NU come “kafir” (pagani). Al contrario, sia NU sia Muhammadiyah hanno dichiarato pubblicamente che, per loro, “la Repubblica indonesiana” è l’organizzazione politica definitiva dell’Indonesia, che l’idea di un califfato è un traviamento estremista, che la Pancasila è la traduzione dei valori islamici nella realtà politica indonesiana e che l’islam ha sempre sostenuto la tolleranza religiosa.
Si è così formata una specie di coalizione non ufficiale contro l’estremismo islamista, che si autodefinisce moderata, costituita da NU, Muhammadiyah, i nazionalisti e da non musulmani.
Prabowo è considerato il candidato alla presidenza degli estremisti islamici, mentre la coalizione dei moderati è schierata di fatto a favore del presidente Jokovi.
Coma andrà a finire? Nelle prossime elezioni – conclude p. Suseno – non si tratterà tanto di vedere se l’Indonesia diventerà più islamica, ma se l’attuale islamizzazione interna nel quadro di una Pancasila democratica avverrà nel rispetto dei diritti umani e della libertà di religione, oppure se l’Indonesia andrà incontro a una radicalizzazione distruttiva come è accaduto in Pakistan.
A lungo termine, i progressi nel campo della giustizia sociale saranno decisivi. Se la gente comune sarà convinta che in un regime come quello di Jokovi i loro figli avranno la speranza di un futuro migliore, allora gli estremisti islamici rimarranno un fenomeno marginale spiacevole. Ma un cambiamento improvviso è sempre possibile.
Nel caso che il 50% degli indonesiani più poveri avesse l’impressione che Giacarta li ha dimenticati e che l’Indonesia è un Paese corrotto in cui “quelli che stanno in alto”, i visitatori dei brillanti templi dello shopping e coloro che abitano nelle alte torri, arricchiscono se stessi, tutto potrebbe essere possibile. Si può sperare che Jokovi, che proviene da condizioni modeste, non lasci che si arrivi a tanto.
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