Uno degli esiti più importanti del concilio Vaticano II è la riscoperta del ruolo centrale della sacra Scrittura nella vita della Chiesa e nell’esistenza credente dei singoli fedeli. È ormai chiaro per tutti che essa, in quanto raccolta di testi ispirati che contengono la parola di Dio, rappresenta la sorgente alla quale le comunità cristiane devono continuamente ritornare per vivere la loro relazione dialogica con Gesù e con il Padre attraverso lo Spirito Santo.
Anche se permangono alcune diversità di vedute sul modo di accostarsi alle pagine bibliche, e sebbene siano talora interpretate in modo un po’ troppo creativo o sbrigativo, è comunque indubbio che esse debbano essere ascoltate, in quanto ciò che attestano in modo esplicito è normativo per la fede e per la vita ecclesiale.
In ascolto del popolo di Dio
Non è invece presente nei testi conciliari il tema dell’ascolto del popolo di Dio, almeno nei termini in cui viene delineato dal recente documento della Commissione teologica internazionale La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, che su questo punto cita l’Evangelii gaudium: «Il discernimento comunitario implica l’ascolto attento e coraggioso dei “gemiti dello Spirito” (cf. Rm 8,26) che si fanno strada attraverso il grido, esplicito o anche muto, che sale dal popolo di Dio: “ascolto di Dio, fino a sentire con lui il grido del popolo; ascolto del popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama”. I discepoli di Cristo debbono essere “dei contemplativi della Parola e dei contemplativi del popolo di Dio” (EG 154).
Il discernimento si deve svolgere in uno spazio di preghiera, di meditazione, di riflessione e dello studio necessario per ascoltare la voce dello Spirito; attraverso un dialogo sincero, sereno e obiettivo con i fratelli e le sorelle; con attenzione alle esperienze e ai problemi reali di ogni comunità e di ogni situazione; nello scambio dei doni e nella convergenza di tutte le energie in vista dell’edificazione del corpo di Cristo e dell’annuncio del Vangelo; nel crogiuolo della purificazione degli affetti e dei pensieri che rende possibile l’intelligenza della volontà del Signore; nella ricerca della libertà evangelica da qualsiasi ostacolo che possa affievolire l’apertura allo Spirito» (n. 114).
In realtà, l’ascolto del popolo di Dio di cui parla questo documento non è che un’estensione del tema del senso di fede trattato in LG 12, cioè di quella sorta di intuito spirituale che è donato dallo Spirito a tutti i battezzati e che consente loro di comprendere più pienamente la fede ecclesiale e di viverne in modo migliore gli aspetti etici.
Nella stessa linea, il passaggio citato si preoccupa di chiarire che questo ascolto non corrisponde alla consultazione della base all’interno di un’organizzazione democratica, nella quale i suoi membri sono liberi di stabilire i principi e le modalità concrete su cui si deve reggere la loro vita collettiva. Piuttosto esso ha i tratti del discernimento ecclesiale, che passa attraverso la conversione personale e la valorizzazione di ogni credente al fine di riconoscere e accogliere la voce dello Spirito. Questi, dunque, non parla solo attraverso le parole della Scrittura, ma anche tramite le persone e le comunità che sono state raggiunte dalla sua pluriforme azione.
Il testo della Commissione teologica internazionale, riprendendo papa Francesco, afferma pure che l’atteggiamento di ascolto che occorre assumere nei confronti del popolo di Dio deve essere caratterizzato dalla contemplazione. Mi sembra che l’uso un po’ inconsueto di questo termine voglia indicare la necessaria qualità spirituale di quell’ascolto.
In effetti, non basta usare la ragione per comprendere quanto emerge dalla base ecclesiale e discernere se corrisponda realmente alla voce dello Spirito. Normalmente le istanze che emergono dai “gridi espliciti o muti” dei credenti sono mere intuizioni che non possono farsi strada con la forza dell’argomentazione, ma solo interpellare l’intuito spirituale dei pastori e dei teologi e assumere attraverso di loro una forma comprensibile e articolata. Per questo tali soggetti ecclesiali devono assumere un atteggiamento contemplativo davanti al popolo, in modo da cogliere quelle convinzioni che esso non sa esprimere in modo lineare ed esplicito.
Compito dei pastori
Per poter fare questo, il pastore e il teologo devono essere ovviamente in sintonia con lo Spirito, e anzi avere alle spalle una certa esperienza nel discernere la sua voce nel proprio cammino spirituale. Tuttavia, essi devono anche essere molto vicini al modo di credere della porzione del popolo di Dio di cui fanno parte.
Soltanto permettendo alla fede della gente con cui si vive di “contaminare” la propria esperienza cristiana, facendosi così non solo padri o madri ma anche figli della propria comunità, essi saranno in grado di intuirne il senso di ciò che essa grida, in modo esplicito o muto, perché, in fondo, quel grido sarà anche dentro al loro cuore.
In altre parole, se la contemplazione del mistero divino richiede una certa affinità con esso, acquisibile solamente attraverso un lungo e travagliato percorso di conversione personale sotto la guida dello Spirito, analogamente per contemplare la parola che emerge da una comunità ecclesiale occorre, in un certo senso, convertirsi ad essa, cioè imparare a condividere il suo modo caratteristico di pensare e di vivere il Vangelo.
Per un pastore o un teologo questa seconda conversione fa parte integrante della prima. Chi ha responsabilità ecclesiali di questo genere non può pensare di santificarsi semplicemente coltivando in modo rigoroso la propria vita spirituale personale e il proprio studio per poi riversare sugli altri quello che ha compreso e contemplato nel proprio splendido isolamento.
Per questi soggetti ecclesiali, il lasciarsi “contaminare” dall’esistenza credente della comunità a cui si appartiene – dalle sue domande, dai suoi dubbi, dalle sue certezze – fa parte integrante della propria santificazione, cioè del proprio modo specifico di corrispondere all’azione dello Spirito nella propria vita.