All’uscita dall’asilo mio figlio mi dice: «No, papà, non voglio morire… nessuno deve morire!». Gli asciugo le lacrime e lo prendo in braccio. Singhiozzando mi racconta la trama di un mito, appena ascoltato, dove la morte vince su tutto. Allora gli parlo del bruco, che giunto a maturità, rompe il bozzolo e si risveglia farfalla. L’incanto però dura poco. Ciò che vuole ora è solo nascondersi fra le mie braccia.
Il disagio del piccolo Davide è infondo quello di ogni uomo: non c’è paura più grande della morte; non c’è desiderio più grande che vivere eternamente.
Eppure la Risurrezione lascia perplessi, e non poco. Emblematico è il grandioso insuccesso di Paolo all’Areopago di Atene (Atti 7,22-31). Con una verve retorica da manuale l’Apostolo prova ad innestare il messaggio pasquale sul ceppo dell’umanesimo pagano: quel «dio ignoto» che voi adorate senza conoscere e che i vostri filosofi e poeti hanno celebrato è il Crocifisso risorto. E qui il tonfo: «Su questo ti sentiremo un’altra volta»– ironizzano gli ateniesi (At 17,32). La delusione brucia a tal punto che Paolo d’ora in poi predicherà la croce senz’altri preamboli: essa è «scandalo», pietra d’inciampo per i giudei e «stupidità» per i greci – scriverà ai corinzi (1Cor 1,1-4; 23).
E oggi come stanno le cose? Riesce la teologia a preservare lo scandalo? La domanda non è peregrina, se pensiamo a quella tendenza divenuta egemone con R. Bultmann, e anticipata da I. Kant e G.E. Lessing. La Risurrezione è un’idea, un mito e non un evento storico. L’uomo moderno potrà decidersi per la fede, solo se il teologo saprà schiudere il senso esistenziale o etico di quel «simbolo», la morale della favola, diremmo noi. Ma è evidente: dalla «spiritualizzazione» alla «proiezione» il passo è breve. E qui il proliferare di congetture su presunte allucinazioni: le apparizioni pasquali non sarebbero altro che il frutto di un’alterazione psicologica collettiva, originata dal trauma del Golgota. Attenzione dunque ad addomesticare lo scandalo. Il fatto cristiano è irriducibile a forme di spiritualismo, di idealismo, di psicoigiene o di umanesimo.
Il cristianesimo è l’annuncio di un evento corporeo prima impensabile. Da Betlemme a Gerusalemme un corpo ne è il protagonista. Il Verbo si è fatto carne («ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο» Gv 1,14) – l’assuefazione al linguaggio religioso rischia di ottundere l’ossimoro. Non una divinità qualunque, ma il Logos, la parola più sublime della filosofia greca, il principio incorruttibile, si è tradotto nel vocabolo più basso, in una carne (sarx) vulnerabile soggetta alla putrefazione. Il Figlio assume la natura umana, Dio stesso diventa uomo e lo rimane per l’eternità. Non c’è dunque spazio alcuno per forme di «disincarnazione» a nome dell’Incarnazione. Questo vero corpo di Gesù, che non conosce peccato, germoglia nel grembo di Maria, attraversa la feritoia e viene alla luce, impara, piange e ride e diventa adulto, carne torturata, inchiodata alla croce, cadavere deposto e corpo trasfigurato nel mattino pasquale. «Avete qui qualche cosa da mangiare?» – dice il Risorto ai discepoli sul lago di Tiberiade; «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho; […] ed egli prese una porzione di pesce arrostito e lo mangiò davanti a loro» (Lc 24,38-42); «metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere più incredulo ma credente (Gv 20,27).
Fosse stata una trovata letteraria, gli autori avrebbero certo escogitato una messa in scena più conforme alla loro cultura. E invece no: i racconti pasquali non hanno nulla di quel Cristo ritroso che popola le tele del Noli me tangere – e che tanto piace a J.L Nancy. Per Giotto, Bronzino e Rembrandt il Cristo schiva il contatto; Tiziano, Pontormo, e Dürer sovrappongono nello spazio le due figure lasciando indecisa la questione; per Alonso Cano invece il Maestro posa la mano sul capo della donna. Il dono di quest’arte è stato quello di tradurre in mesta bellezza il brusco imperativo della Vulgata latina: «Non mi toccare!». Far arretrare di appena un poco il divieto è però possibile. Il testo originale riporta infatti un imperativo presente che esprime un’azione di una certa durata: «μὴ μου ἅπτου». Possiamo tradurlo con «non trattenermi» – come elegantemente fa la nuova versione italiana del Vangelo – o col più gergale: «Non attaccarti». Il significato del verbo ἅπτομαι (lat: apio) oscilla infratti tra un toccare fisico e un molestare (cf. 1Cor 7,1). Perché mai scongiurare allora un contatto fra i due?
Lasciamo pure da parte le finezze esegetiche. Quel che importa è l’assenza di una visione eterea della Risurrezione in tutto il Nuovo Testamento. E questo non deve sorprendere. Infatti una rimozione della corporeità ci porterebbe dritti dritti nel docetismo, per il quale Gesù è un ologramma. Altrettanto sconveniente è il riduzionismo opposto, che enfatizza invece l’empiria e pensa la Risurrezione come la rianimazione di un cadavere. Come uscire dall’impasse? Qui, come spesso accade, il tedesco ha una parola per tutto. Esso distingue fra corpo-oggetto (Körper) e corpo-vissuto (Leib). La corporeità del Risorto (Leib) nulla ha perso di ciò che ha realmente inciso sulla sua carne (stimmate, affetti, conoscenza e voce). L’aspetto materiale non è dunque rimosso, ma trasfigurato.
Non è una esagerazione, si tratta piuttosto di un vero paradosso, che non ci è poi così alieno. Si parva licet anche noi incarniamo una misteriosa sproporzione. Noi siamo il nostro corpo, ma abbiamo anche un corpo, che ci avvolge e detta legge alla nostra vita. Il corpo è la zona liminale fra essere e avere, fra soggettività e oggettività, fra assolutezza e precarietà, fra trasparenza e ambiguità. Nell’esperienza del pudore, della vergogna, della gioia, del dolore, dell’intimità l’incorporeo è messo a nudo nella trasparenza del corpo. E viceversa è proprio il corpo il veicolo per raggiungere l’anima. È proprio su questo enigma che ha da dire qualcosa la speranza cristiana. Nulla di veramente essenziale andrà perduto. È scandalosa allora la Risurrezione? Certamente sì, ma anche noi non scherziamo.
Gianluca De Candia insegna attualmente Teologia sistematica all’Università di Siegen ed è libero docente al Dipartimento di questioni filosofiche fondamentali della teologia della Westfälische Wilhelms-Universität di Münster. Queste considerazioni si sviluppano a pochi giorni dalla pubblicazione del suo saggio sullo charme di Gesù: Il Rovescio del vangelo (EDB, 2019, pp. 104, € 9,50). Il testo è stato pubblicato sull’edizione quotidiana de Il Foglio.