Che cosa fare quando il nemico sembra avere la meglio, tutto sembra precipitare, e non hai più le forze per contrastare il male? Che cosa possiamo fare quando sembra di essere soli davanti alla fine, quando tutti sembrano scappati, fuggiti per paura e troppo fragili per resistere alla prova?
Che cosa fare quando il male sembra insinuarsi anche nelle istituzioni religiose e politiche; quando chi dovrebbe agire nel nome di Dio, nel suo nome commette violenza; e chi dovrebbe cercare il bene comune difende il proprio potere a scapito dei più deboli?
Che cosa si può fare quando anche Dio sembra impotente e la sua Parola resta “lettera morta”?
Quando anche l’Alleanza sembra non bastare
Perché tutta la storia di Alleanza tra Dio e gli uomini sembra non bastare perché il suo popolo – che siamo noi – ascolti e si converta; anche chi ha ricevuto la Scrittura sembra avere un cuore di pietra, proclama e legge quella Parola di vita, ma non si converte e con la sua vita la smentisce clamorosamente! Diventa impronunciabile anche il nome di Dio!
Che cosa si può fare di fronte all’inevitabile, quando tutto precipita e non serve più parlare, cercare di convincere gli amici e i nemici, provare a correggere la trama degli avvenimenti?
Quando non ci si può più sottrarre agli eventi che incombono, quando non c’è argine che tenga, e la violenza prende le redini della storia, e tutti danno il peggio di sé, e prevalgono gli istinti più primitivi; quando ciascuno pensa solo a mettere in salvo se stesso, quando i più fragili pagano per tutti, quando i più forti, quelli che gridano di più, sembrano essere gli unici ascoltati. Che cosa si può fare allora?
Il Dio che si lascia ferire
Puoi solo lasciarti ferire. Puoi solo offrire il tuo corpo, “come agnello condotto al macello”, offrire il volto agli sputi, porgere l’altra guancia allo schiaffo, la giugulare al coltello, il corpo alla croce.
Puoi solo lasciarti ferire, e, disarmato, esporre il tuo corpo alla violenza, senza veli, nudo e vulnerabile, senza difese. Esporti fragile per disarmare, con un azzardo, la forza del nemico.
Puoi solo lasciarti ferire, decidere che il male è bene che cada su di te piuttosto che sui tuoi amici, che è meglio perdere la vita piuttosto che toglierla ad altri.
Puoi solo lasciarti ferire.
Ma occorre farlo senza rancore, senza rispondere al male con il male, senza emettere parole di condanna, senza giudizi su chi ha tradito ed è fuggito o suoi nemici che infieriscono.
Puoi solo lasciarti ferire, in silenzio, senza lamenti, senza amarezza, ma piuttosto con una dolce tenerezza, con la speranza che questa resa sia l’ultima parola d’amore per gli amici e per i nemici.
Puoi solo lasciarti ferire, perché la fine di tutto non sia una condanna, ma l’offerta della vita a salvezza di chi ti ha lasciato solo, per il bene di chi infierisce, inconsapevole del male di cui lui stesso è prigioniero.
Puoi solo lasciarti ferire senza che dalle ferite esca un rimprovero, soffrire senza maledire.
Da quelle ferite allora “uscì sangue e acqua”: una nuova fonte di vita e di purificazione. Quelle sono ferite che diventano come delle “feritoie” dalle quali proviene una grazia: “dalle sue piaghe noi siamo guariti”.
Puoi solo lasciarti ferire, Gesù, perché solo un Dio può portare il male su di sé per la vita di tutti, nella vulnerabilità dell’amore, che si arrende davanti alla libertà dell’amato.
Puoi solo lasciarti ferire, Gesù, perché nessuno vada perduto, per radunare i figli dispersi, per attirare dalla tua croce tutti gli uomini a te.
Nelle parole di una donna
Verrà il giorno nel quale trovare parole di luce e di speranza, verrà – e già viene – il giorno della vita più forte della morte, ma ora tu, Gesù, puoi solo lasciarti ferire, senza amarezza, senza odio alcuno, continuando a sperare nel Padre, continuando a volere solo il bene per tutti, per gli amici e per i nemici. Puoi solo lasciarti ferire, sorretto da una speranza indefettibile, da un amore che non viene meno, da uno Spirito che ti tiene in vita, legato al Padre fino alla fine.
Un giorno, una donna, in un campo di prigionia potrà scrivere parole che oggi sento essere il riflesso delle tue ferite, parole che tengono accesa la luce anche nei giorni più oscuri, parole che possono dire solo le anime che si sono lasciate ferire come te.
«Volevo solo dire questo: la miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande; più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo.
A ogni crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopraviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina» (Etty Hillesum).
Quando tutto si svuota
Oggi ti guardo, Gesù, vorrei toccare e baciare le tue ferite, e mentre le bacio ascoltare parole di speranza per i tempi difficili che la vita a volte ci chiede di attraversare.
Ti guardo, e ti chiedo di togliere ogni amarezza dal nostro cuore, ti chiedo di non lasciarci soli nella prova, di versare ancora “sangue e acqua” perché possiamo essere guariti dal male.
Posso solo attestare quello che mi viene raccontato, ma i segnali si moltiplicano. Parlo degli attacchi di panico.
Qualcuno ne parla come di un indicatore della nostra epoca, il sintomo di uno stato d’animo che ci riguarda in realtà un po’ tutti.
Siamo prigionieri di una paura che paralizza, e i sintomi degli attacchi di panico forse parlano di ciascuno di noi. Ma restiamo ai racconti.
Chi viene colto da questi attacchi di panico prova la sensazione di precipitare, come se venissero a mancare punti di appoggio, di riferimento, argini possibili a cui aggrapparsi, mentre incombe qualcosa di terribile e inevitabile.
La terra sembra venir meno sotto i piedi, e le previsioni più nefaste si fanno reali. E tu cadi, precipiti, e con te tutto viene meno. All’immagine del precipitare si accompagna spesso quella dell’essere risucchiati, inghiottiti da un vortice che impedisce i movimenti, che come una pietra schiaccia il torace, rende difficile anche il respiro, paralizza il corpo mentre non ci si riesce ad alzare. Non a caso è la mattina il momento più difficile, iniziare una giornata, uscire di casa, provare ad affrontare il giorno che incombe.
Manca il respiro e mancano le forze tanto che si vorrebbe restare a letto, non svegliarsi più.
Infine colpisce un effetto postumo agli attacchi di panico: un senso di depressione, una spossatezza che disarma, la tendenza a vedere tutto oscuro, e a sentirsi anche in colpa per non saper o poter reagire.
Il silenzio di un’alba inattesa
Io rimango sempre senza parole, non so che dire. Certo, a tutti verrà in mente di consigliare un aiuto medico, il sostegno di un professionista, ma penso sempre che questi stati dell’anima siano anche e soprattutto sintomi spirituali, abbiano a che fare anche con la fede, soprattutto con la fede! E mi chiedo in che modo l’annuncio della risurrezione debba farsi spazio anche e proprio nel cuore oppresso di chi è paralizzato dal male.
E non lo siamo in qualche modo tutti noi? Non siamo tutti vittime della sensazione che ogni cosa stia precipitando e non ci sia più nulla da fare per impedirlo? Non proviamo tutti il senso di panico che paralizza, che ti schiaccia come un peso sul petto? O la percezione di un vuoto che ti risucchia, di una mancanza che come una voragine rende tutto inconsistente? Non ci manca il respiro? E allora: a noi che cosa può dire l’annuncio della risurrezione?
Quella del Vangelo non è certo una soluzione magica, una pillola che fa sparire ogni paura. Non è come il risveglio da un incubo, quando qualcuno ti dice: “è stato solo un brutto sogno!”, “non è successo nulla”. Qualcosa è successo, ed effettivamente ci sarebbero buone ragioni per essere in preda al panico. Eppure proprio all’inizio di quel giorno, dopo una notte da incubi, al mattino, un annuncio viene rivolto dalle donne, come oggi a noi; come un invito ad uscire dal tunnel, a vedere una luce, a muovere timidi ma autentici passi vero l’alba e non solo verso un sepolcro.
«Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva predetto, guardate il luogo dove era stato deposto». È l’invito guardare meglio, a rivisitare la storia che sembra segnata dal male, da una perdita irreparabile, da un dolore insopportabile, ad aprire gli occhi non a chiuderli.
Quello che occorre è un uomo
«Non abbiate paura!» ci dice l’angelo: il dolore è vero, ma c’è qualcosa di più vivo del dolore. Il male è vero, ma c’è qualcosa di così buono da essere più forte del male. La menzogna ha effettivamente corrotto le parole, ma c’è una verità più grande che non viene meno. La ferita è vera – e ne resteranno i segni per sempre, non si cancellano le cicatrici – ma c’è qualcosa di più vivo di quelle ferite. Come è possibile? Come credere che ci sia qualcosa oltre al panico, quando tutto sembra precipitare?
Serve una mano ferma che ci sorregga. Serve un uomo, come dice il poeta:
Ciò che occorre è un uomo
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose
ciò che occorre è un uomo
un passo sicuro e tanto salda
la mano che porge, che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi e salvarsi (Carlo Betocchi).
E proprio questo racconta la vicenda di Gesù, quella dell’umanità di Dio che ci prende per mano. Perché Dio non poteva salvarci restando fuori, dall’alto della sua onnipotenza, mantenendo una distanza infinita dai nostri mali più oscuri.
Doveva assumere la nostra carne, farla sua, per ridonarla a noi trasformata, come una nuova possibilità di essere uomini e donne. Ciò che occorre è un uomo, ma di un’umanità così vera da vincere la morte, così umana da essere divina.
Dio non ci abbandona, entra nel nostro panico, entra nel vuoto, visita il sepolcro, ma non ne rimane prigioniero. E ci ha preso per mano perché da quel vuoto, da quella mancanza, da quella perdita potessimo anche noi uscirne vivi, semplicemente più veri e più umani, rigenerati dall’umanità di Dio.
Bellissima riflessione, grazie !!!