“Rossa l’aurora sfolgora…”

di:
Aurora lucis rutilat,
Caelum resultat canticis,
Mundus exsultans iubilat,
Gemens infernus ululat,
Rossa l’aurora sfolgora,
risuona il ciel di cantici,
il mondo esulta e giubila,
l’inferno geme ed ulula,
Cum rex ille fortissimus
Mortis confractis viribus,
Pede conculcans tartara,
Solvit catena miseris.

mentre quel re fortissimo
di morte infrange l’impeto,
coi piedi schiaccia il tartaro,
toglie dai ceppi i miseri.

Luce aurorale e canti di giubilo contro il buio dell’abisso infernale e gli ululati dei diavoli: questo è lo splendido paesaggio dipinto nelle prime due strofe dell’inno di Lodi che canta il trionfo del risorto che era morto. Il cielo e il tartaro, la vita e la morte: questo contrasto totale è la cifra della Pasqua cristiana.

L’uscita di Gesù, vivo, dal sepolcro è un evento che nessuno ha visto, è un momento nascosto tra lo spettacolo doloroso della sua morte crudele e la dolcezza consolatoria delle sue apparizioni alle donne e ai discepoli, ancora dibattuti tra la speranza, poca, e la delusione, fortissima.

Teologia per immagini

Il linguaggio dell’inno, dunque, non “narra” la risurrezione, né lo potrebbe: ne descrive invece gli effetti in termini altamente poetici e suggestivi. È quella che diremmo una teologia per immagini: una lettura del “mistero” che aiuta a inquadrare e a dare senso ai racconti delle apparizioni di Gesù, e a confermare quello che resta il fondamento della vita cristiana che ne deriva: Gesù è vivo!

Si noti, da subito, una scelta che è cruciale. I tempi dei verbi non sono al passato, ma dicono quanto avviene al presente: l’evento storico è evocato e insieme celebrato, perché è avvenuto e continua ad avvenire, ogni giorno, ogni aurora, che ne è lo splendido segno. La storia è il fondamento che dà solidità e verità a quanto avviene nell’oggi perenne della fede: Cristo è risorto, per sé e per noi, noi risorgiamo con lui in questa guerra continua contro la morte.

Quanta forza emani da questa vita ritrovata è meravigliosamente espresso dal linguaggio utilizzato, sul quale è bene osservare che l’enfasi posta sulla vittoria del Risorto tocca punte travolgenti, evidenti nei verbi latini che si è cercato di rendere con la maggiore fedeltà possibile.

Mettere in testa all’inno il rosseggiare dell’aurora non indica tanto il momento dell’uscita dal sepolcro (e chi lo sa?), ma il senso di quell’evento: è un giorno nuovo che nasce, è un’alba che si tinge di un colore che evoca insieme il sangue della crocifissione e la gloria del trionfo. Si riparte, si ricomincia, e questa volta con la sicurezza di una vita posseduta in pieno, una vita che segna la sconfitta definitiva di ciò che ne costituisce una perenna minaccia: la «frantumazione delle forze di morte» (mortis confractis viribus).

L’antagonismo rimane, ed è molto marcato: se il cielo e il mondo scoppiano nella gioia del canto, l’inferno geme in ululati lamentosi! L’assonanza che crea un’eco significativa, e voluta, tra rutilat e ululat avvicina due parole che si respingono, stabilisce una corrispondenza assoluta e immediata tra la vivacità piena di speranza di un’aurora che sorge e il pianto disperato e cacofonico del tartaro, l’abisso buio del male, dei demoni, della morte.

Il corpo del crocifisso, ridotto a uno straccio lacerato, si trasfigura ora in un «re fortissimo», la corona di spine è ora una corona regale. Ricordo una bella miniatura di Filippo d’Argenta, riprodotta nel libro Il corpo risorto, dove le spine si trasformano in foglie d’alloro.

Le immagini di questa seconda strofa rimandano chiaramente all’icona bizantina della risurrezione. Lì il Cristo, infrante le porte dell’inferno, tende la mano ai progenitori per toglierli dal carcere infernale, sul cui fondo nero vorticano nel caos figure di diavoli, ridotte a fantasmi filiformi che si identificano con il buio della loro casa, quasi naufragandovi e dissolvendosi nella tenebre.

Le porte degli inferi giacciono ora sotto i piedi di Gesù in forma di croce: «O morte, sarò la tua morte, sarò il tuo morso, inferno!» (Ant. Sabato Santo). Le porte dell’icona, infatti, hanno il colore dell’oro, perché ciò che doveva produrre umiliazione e sconfitta si è rivelato fattore di trionfo e di vittoria.

E le mani, le dolci mani di Gesù, mani che Giuliana di Norwich, chiamando «beate» le ferite che le segnano, paragona a quelle di una «gentile nutrice che non ha altro da fare se non prendersi cura del suo bambino» (Rivelazioni 61, 262), mani che afferrano per i polsi Adamo ed Eva, e dietro di loro tutti i “miseri” che giacevano in catene in attesa della liberazione.

I suoi piedi, quelli che due donne del vangelo, la “peccatrice” di Lc 36-38 e Maria di Betania di Gv 12,1-4, avevano unto con profumi preziosi, bagnati con le loro lacrime, e asciugati con i loro capelli, quei piedi trapassati dai chiodi sulla croce ora sono così forti da “calpestare” le potenze dell’inferno e scardinarne le porte. È scritto: «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1Cor 15,25-27). Quei piedi ora camminano davanti a tutti i salvati verso una patria in cui regnano la vita e la gioia, l’amicizia e la pace.

Non finiremo mai di sorprenderci davanti all’incredibile ribaltamento prodotto nella storia dell’umanità e, insieme, in tutte le filosofie e in tutte le logiche, da quell’evento che è la morte e la risurrezione di Gesù.

Spesso capita che lo splendore delle immagini arrivi a far dimenticare le tante brutture che segnano l’esistenza quotidiana. È un rischio, ma per il vero è anche una possibilità.

Una salutare alternanza

Che fare? Cancellare un sogno così facilmente e così frequentemente contraddetto, o evadere dalla “realtà” lasciandosi incantare dalla bellezza della poesia?

Mi sembra che porre così la questione sia infilarsi in un vicolo cieco. Come insegnano da sempre i maestri spirituali, e come suggerisce lo stesso Gesù quando si presenta ostentando le sue piaghe, la soluzione è in una salutare alternanza. Perché, in effetti, non proprio di “evasione” si tratta, ma di contemplare un’altra prospettiva: uscire dal “mondo” dell’immediato, ma solo per rientrarvi, guardandolo semmai con altri occhi. Si tratta di tenere insieme due aspetti che sembrano respingersi, ma regolandone la rispettiva valenza. Li chiameremo per semplicità morte e vita, indicando il negativo e il positivo del vivere.

E la sequenza, dimostrata nella storia di Gesù, stabilisce che solo la vita ha l’ultima parola, e che in questa luce persino tante esperienze che noi saremmo portati a etichettare frettolosamente come “morte” possono tradursi in uscite verso la vita. Lo sapevano bene i medievali che amavano trasformare le ferite in fiori, o, come insegnano, tra gli altri, san Bernardo e san Bonaventura, vedevano nelle piaghe del Crocifisso la figura delle fenditure nella roccia in cui la timida e fragile colomba del Cantico si rifugia per sfuggire agli artigli dello sparviero (Ct 2,14) che la minaccia.

Fare delle piaghe un “nido” dove tornare, nel quale crescere per sempre nuovi voli, che altro vuol dire se non fare buon uso di tutto, anche delle nostre ferite e dei nostri fallimenti? Questo è possibile solo perché, risorgendo, Gesù dimostra che la morte può essere sempre sconfitta, e dunque si può affermare con sicurezza, e farne un principio di vita che, se «il peccato è inevitabile, alla fine tutto sarà bene» (Giuliana di Norwich, Rivelazioni 27, 165).

Pasqua, la liberazione

L’alternanza, del resto, è la legge che regola l’Anno liturgico, per cui all’Avvento segue il Natale, alla Quaresima la Pasqua, e così di seguito, educando ora l’una ora l’altra delle nostre facoltà e dei sentimenti che le caratterizzano: il timore e l’amore, l’attesa e il possesso, il pentimento e il perdono, e persino il fallimento e il riscatto.

Alla fine, le due strofe dell’inno offrono un programma di vita riassumibile in due principi e regole di comportamento: spezzare le forze della morte, liberarsi delle catene che ci tengono in una condizione di “miseria”. Questa è stata l’azione di Gesù, altro non può essere la nostra se vogliamo seguirlo nel suo cammino. Questo lavoro esige forza e determinazione, è una vera e propria “agonia”, una lotta da condurre pressoché ogni giorno.

Ma la Pasqua ci indica un traguardo incoraggiante e, a dare coraggio, servono anche le parole e le immagini di un inno che ci accompagna in tutto questo tempo di risurrezione.

Si ama spesso citare l’invito ripetuto di papa Francesco a «non lasciarci rubare la speranza». Capita che ce la rubiamo da soli, quando ignoriamo la nuova logica che la Pasqua di Gesù ha immesso nella storia, quella grande dell’umanità e quella piccola di ciascuno di noi. Noi siamo il mundus che sta tra il cielo e il tartaro, un mondo che è pure chiamato a esplodere nel canto di vittoria che inizia con la risurrezione di Gesù. È una situazione “sospesa”: dipende da noi dirigerla con decisione verso l’alto, verso l’uscita, sempre.

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