Religioni per la cittadinanza (RPC) nasce come naturale continuazione e sviluppo di Diritti, doveri, solidarietà (DDS), un progetto di dialogo tra culture e Costituzioni realizzato nel biennio 2014-2016 presso la Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna, promosso dal Centro per l’Istruzione degli Adulti (CPIA Metropolitano di Bologna), in collaborazione con l’ufficio del Garante regionale dei detenuti e la Direzione del carcere.
Grazie alla pubblicazione di due report (editi dalla Regione Emilia-Romagna) e del docufilm Dustur di Marco Santarelli, DDS ha fatto conoscere in Italia e all’estero un efficace modello d’intervento educativo, fondato sull’approccio interculturale. DDS è così entrato nei programmi di Erasmus Plus ed è attualmente sperimentato in quattro Paesi (Italia, Germania, Spagna, Romania) sotto il titolo Duties, Rights, Solidariety: European Constitutions and Muslim Immigration.
Perché il tema religione
DDS si muoveva ad ampio raggio sui temi fondamentali della cittadinanza, mettendo in dialogo la Costituzione italiana con alcune Costituzioni arabe del Nord Africa. Era rivolto quindi principalmente a detenuti di fede musulmana. RPC, invece, si concentra sull’ambito religioso ed è rivolto senza distinzione a detenuti italiani e stranieri appartenenti a diverse confessioni.
Scopo del nuovo progetto è far riflettere i partecipanti (studenti del CPIA Metropolitano di Bologna) sulle rispettive appartenenze religiose, per mettere in luce ciò che di esse può contribuire al successo del percorso rieducativo e, allo stesso tempo, ciò che invece può costituire una criticità o addirittura un rischio.
L’importanza di intervenire in questo campo è segnalata dalle cifre fornite nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione curato dall’Associazione Antigone, che dedica al tema religioso uno spazio significativo: al 31 dicembre 2017, il 55,75% dei detenuti era composto da cattolici (32.119), una maggioranza diminuita rispetto a qualche decennio fa, quando in carcere c’erano pochi immigrati. A ottobre 2017, il 34,4% della popolazione detenuta era straniera (19.859, su un totale di 57.737). Il più consistente gruppo di questa è registrato come musulmano: il 36,1% degli stranieri e il 12,4% del totale (7.194). Nel 2016 erano 7.646, circa 500 in più del 2017.
Dalla lettura dei dati si scopre però che molti preferiscono non dichiarare la propria fede. A inizio 2016 erano addirittura il 26,3% del totale (14.235). In realtà, i musulmani sono molti di più, se si tiene conto dei paesi di provenienza dei detenuti a maggioranza musulmana: 12.567 nel 2017 (erano 11.029 nel 2016).
I dati e una certa pratica delle carceri – nota il Rapporto di Antigone – mostrano una tendenza a non dichiarare la religione di appartenenza, presumibilmente per paura di essere discriminati.
In terza posizione, dopo cattolici e musulmani, ci sono i cristiani ortodossi: nel 2017 erano 2.481, il 4,3% del totale. Gli altri si situano al di sotto dell’1%: evangelisti, avventisti del settimo giorno, testimoni di Geova, hindu e via dicendo.
La cura dell’esperienza religiosa in carcere
Connessi con l’esperienza religiosa in carcere ci sono i due nodi dei luoghi di culto e degli assistenti spirituali.
Sul primo punto il Rapporto di Antigone rileva una disparità evidente: «Tutti gli istituti di pena hanno almeno una cappella; molti più d’una. Le altre confessioni ne escono meno bene: su 86 istituti da noi visitati, solo in 20 erano presenti spazi per culti i non cattolici: il 23%. Ciò vuol dire che nel 77% degli istituti non c’era altro che la propria cella, per pregare».
Considerazioni analoghe valgono per il secondo punto: si calcola la presenza di 314 ministri di culto cattolici su 189 carceri. Nel caso dell’islam, gli imam autorizzati sono 25, ai quali si aggiungono 41 assistenti volontari. Il rapporto di Antigone riferisce che il DAP recensisce poi anche i detenuti che fanno da imam, che in tutto sono 97.
È vero che l’imam non equivale alla figura del prete, tuttavia la sua posizione gli conferisce un certo carisma religioso sugli altri detenuti, fatto che deve porre serie domande sull’opportunità di affidare questo incarico a persone detenute, che si trovano, esse stesse, in un cammino di rieducazione.
Normalmente si pone l’accento sul diritto di esercizio della libertà religiosa in carcere. Soltanto in tempi recenti, e per impulso dal problema del radicalismo islamico, si è iniziato a riflettere sull’impatto che il “recupero del religioso” può avere nella vita dei detenuti. Il ritorno o la scoperta di una fede religiosa può svolgere un ruolo importante nella tenuta psicologica/spirituale di chi subisce il carcere, lo può stimolare positivamente anche ad un recupero di importanti valori morali, che lo aiutano a rompere con il crimine e a ritornare ad una vita onesta.
Il recupero del religioso può però evolvere negativamente, alzando i muri di separazione dal resto del corpo sociale, spingendo a posizioni di contrasto e persino di ostilità. Il radicalismo islamico è un esempio chiaro. Vi si può aggiungere anche l’uso della religione (cattolica e altre) nell’affiliazione a organizzazioni criminali di stampo mafioso. La scuola del carcere è quindi chiamata ad agire su questi fronti.
Come si articola il percorso
Il percorso proposto da RPC si articola in dieci incontri per i detenuti comuni e quattro per quelli di Alta Sicurezza. Complessivamente sono coinvolte una quarantina di persone, invitate a riflettere sui seguenti temi: Fonti del religioso (dove imparo, da chi, religione e tradizione); Contenuti del religioso (che cosa ho capito quanto a dogma ed etica); Religione e libertà di coscienza (libertà di scegliere, libertà di cambiare); Il culto e la ritualità religiosa (incluse superstizioni e magia); Religione e rapporti di genere; Religioni e rapporti intergenerazionali; Legge di Dio e/o Legge degli uomini (graduatoria delle norme, principi di obbedienza); Religione e città (religione e politica, integrazione e/o disintegrazione sociale); Religione e violenza; Interazioni con l’Altro (che non crede, crede diversamente, incontro-confronto-scontro).
Gli incontri sono condotti dallo scrivente¹ e dalla giornalista Caterina Bombarda, ma si avvalgono della presenza, volta per volta, di un esperto, scelto tra teologi, sociologi, giuristi, antropologi, psicologi e psichiatri, nell’ordine: Brunetto Salvarani, Pier Francesco Bresciani, Fabrizio Mandreoli, Franco Pilati, Piero Stefani, Barbara Ghiringhelli, Elsa Antonazzi, Marco Bontempi, Maria Inglese, Pino Lucà Trombetta, Maurizio Millo.
La trattazione dei temi prevede in modo sistematico tre passaggi: il momento dell’auto-narrazione; il conferimento di alcune informazioni, al fine di completare ma soprattutto problematizzare il quadro emerso dai racconti personali; la proiezione sul livello delle norme della cittadinanza, al fine di mostrare la necessità di collocare la propria fede religiosa su un orizzonte più ampio, perché condiviso con appartenenti ad altre fedi e convinzioni.
Il tema della “cittadinanza responsabile” viene inteso quindi come quadro del vissuto religioso e non come alterità ad esso estranea.
Come per DDS così anche per RPC si prevedono due forme di comunicazione dell’esperienza svolta, affinché questo progetto risulti di valido stimolo alla nascita di altre iniziative, a livello locale, nazionale ed europeo: la pubblicazione di un report illustrato; un docufilm del regista Lorenzo Stanzani, noto documentarista italiano, che sta riprendendo con la sua troupe tutti gli incontri e altre interviste condotte con operatori carcerari.
L’autore di questo articolo, Ignazio De Francesco, appartiene alla Piccola Famiglia dell’Annunziata ed è volontario AVoC (Associazione Volontari del Carcere, Bologna).