Presentazione del documento congiunto Rafforzare la fiducia nella democrazia pubblicato a cura della Conferenza episcopale tedesca e del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania.
Una confessione di civiltà politica da parte delle Chiese cristiane nella vita del paese e dell’Europa – si potrebbe sintetizzare così il documento congiunto «Rafforzare la fiducia nella democrazia» pubblicato a metà aprile dalla Conferenza episcopale tedesca e dalla Chiesa evangelica in Germania.
Una confessione e una dichiarazione d’amore, al tempo stesso. Perché nel testo non scorre solo il rigore dell’analisi e la pertinenza delle osservazioni, che hanno quasi sempre caratterizzato i documenti congiunti delle due maggiori Chiese cristiane in Germania.
Dichiararsi alla democrazia
Tra le righe di questo documento scorre anche una dichiarata passione per la forma democratica del vivere insieme fra molti nei nostri territori europei. Passione e affetto per la democrazia, dunque – da parte delle Chiese. Pronte a riconoscere che la forma democratica ha sì i suoi limiti, ma che proprio in questo rappresenta il modo più alto che abbiamo raggiunto nel governare la coesistenza umana.
Una dichiarazione d’amore spassionata, ossia pronta a riconoscere anche le crisi profonde che l’istituto democratico sta attraversando in questo momento. Davanti alle quali sembra essersi prodotta come una sorta di stasi, di incapacità di fare ricorso alle risorse della forma democratica per scongiurare la possibilità di una sua drammatica implosione.
Il lento e tortuoso processo europeo, nonostante tutte le battute di arresto e le insufficienze a livello politico e di gestione della burocrazia, ha dato luogo a «un ordinamento sociale democratico portante e stabile, caratterizzato dallo stato di diritto. Questo però non ci deve portare a nascondere il fatto che da alcuni anni, in molti paese, si sono moltiplicate le voci che mettono in questione tale ordinamento. Il pensiero autoritario si fa breccia rapidamente – almeno, così sembrerebbe essere» (p. 5).
L’intento del documento congiunto è quello di declinare una persuasione profonda nei confronti della velidità dell’istituto democratico, facendosi contemporaneamente carico delle ragioni che stanno portando larghe fette della popolazione europea a una sostanziale disaffezione, se non avversità, verso di esso. Quello che però nel testo non viene tematizzato è la materia oscura di cui si nutre la forma democratica, ossia che per essere tale essa debba portare da sempre in sé la possibilità della propria dissoluzione.
La debolezza costitutiva della democrazia
Questa materia oscura è la forza del processo democratico, che dà forma alle possibili istituzioni della sua effettiva realizzazione. Le Chiese tedesche si accorgono oggi, forse con troppo ritardo (ma comunque tra le prime in Europa per la consapevolezza mostrata), che, proprio nel suo essere la forma migliore di regolazione della coesistenza umana, la democrazia non è né un automatismo istituzionale né qualcosa di scontato. Per troppo tempo abbiamo lasciato l’istituto democratico abbandonato a se stesso, nella convinzione che si potesse auto-perpetuare illimitatamente.
Salvo poi accorgerci che le cose non stanno proprio così. Che ci sono stati usi dell’istituto democratico stesso che hanno prodotto forme di estraneazione o distanziamento dalle sue pratiche. Che la democrazia come forma del vivere insieme è inserita in processi più grandi di lei, o che comunque non rispondono né alle sue logiche né alle sue regole (su questo, in particolare, si concentra il documento congiunto delle due Chiese tedesche). Che tutto l’apparato istituzionale, organizzato a protezione dell’istituto democratico, può diventare una sorta di buco nero che risucchia in sé tutte le forze che, invece, andrebbero disseminate nella cura delle pratiche effettive del vivere insieme dei cittadini e delle cittadine.
Il populismo sembrerebbe essere in grande contenitore in cui la disaffezione per la democrazia trova oggi il suo punto di condensazione e di rappresentanza politica legittimata. «I movimenti populisti propagano una presunta volontà unitaria del popolo e si oppongono ai vincoli del diritto e degli accordi internazionali. Criticano il pluralismo della società come un errore fatale e promettono univocità e sicurezza in un mondo che viene sempre più sentito come insicuro e confuso. I movimenti populisti danno risposte semplici a questioni complesse e, con ciò, trovano un apprezzamento considerevole» (p. 9).
Il populismo, ossia il caso serio
Se i limiti politici e storici del populismo possono essere anche immediatamente evidenti, rimane il fatto che esso attrae e raccoglie intorno a sé una fetta sempre più ampia della cittadinanza democratica – probabilmente del tutto inconsapevole della contraddizione in cui, così, viene a cadere. Questo fatto non può essere dismesso facilmente, come una sorta di improvvisa follia dei cittadini o come un accecamento barbarico di alcuni tra di essi.
Le ragioni che nutrono e spingono la macchina populista sono di grande interesse per la democrazia, perché senza un loro giusto apprezzamento e presa in carico essa è destinata a soccombere davanti alla sua stessa pretesa. «Chi prende sul serio la democrazia non può reagire solo con sdegno o disprezzo per le scelte elettorali altrui. Piuttosto, deve chiedersi in maniera auto-critica se le forze politiche e sociali tradizionali (anche noi Chiese) non hanno forse fatto troppo poco per intercettare le diverse sfide legate alle domande e agli interessi delle persone, da un lato, e per entrare in dialogo con loro su ciò che concerne le possibili soluzioni, dall’altro» (p. 14).
Per l’Europa… ancora una volta
Questa distanza «istituzionale» si innesta però su una sorta di sfasamento strutturale che contrassegna le procedure odierne della democrazia: da un lato, il fatto che quest’ultima si attua per riferimento a uno spettro territoriale comunque determinato; dall’altro, il fatto che le dinamiche di potere che guidano il mondo odierno sono completamente disarticolate rispetto a un qualsivoglia ancoraggio territoriale.
Se si guarda all’Unione Europea come via possibile per ricomporre i lembi di questo sfasamento, ossia come progetto transnazionale in grado di delimitare un’area politica ed economica sufficientemente ampia per reggere i processi globali, si deve registrare che molto rimane da fare per ciò che riguarda «uno sviluppo parallelo di meccanismi in grado di garantire un bilanciamento sociale. Allo stesso modo, non si è ancora trovata una risposta in merito a come dovrebbe essere una solidarietà europea e a come essa dovrebbe essere attuata di fatto» (p. 16).
Compensazione sociale e solidarietà effettiva sono, dunque, i due capostipiti di cui l’Europa ha bisogno per poter affermare un proprio modo, secondo giustizia, di attraversare una globalizzazione che produce in serie asimmetrie e distopie (vivendo praticamente di esse). Qui si inquadrano sia la questione della sempre più marcata disuguaglianza economica, sia quella dei movimenti migratori di massa. Davanti a questi fenomeni, uno dei problemi centrali è rappresentato dal fatto che è venuto a mancare, a causa dei processi di digitalizzazione spinta, quello spazio in cui si rende possibile un dibattito pubblico in merito all’interno del quadro porspettato dallo stato di diritto.
La deregulation digitale del dibattito pubblico non solo lo sottrae alle forme tradizionali del diritto, ma risponde anche a logiche di interesse privato che invadono in maniera pervasiva e aggressiva quella dimensione pubblica che dovrebbe essere di tutti proprio perché non appartiene in toto a nessuno.
Il nuovo monopolio tecno-finanziario del potere è assecondato dalla concentrazione della disposizione sui dati e sulle informazioni vitali nelle mani di «poche, enormi multinazionali digitali (…). Fatto che conduce a nuove forme di monopolio e abuso dei dati» (p. 21-22).
Moralità democratica
Davanti a questa condizione di indebolimento della democrazia e delle sue procedure, le due Chiese individuano nella sfera del diritto il luogo in cui si deciderà del suo futuro. Ma il diritto in sé stesso non «rappresenta ancora una garanzia per il mantenimento della democrazia. Accanto a questi presupposti sedimentati nel diritto, la democrazia dipende anche da presupposti non scritti. Essa ha bisogno di cittadini e cittadine che si sentono responsabili per la riuscita di questo ordinamento esigente» del vivere insieme (p. 25). A questo punto viene introdotto il concetto di «moralità democratica», intesa come la realizzazione dei «buoni costumi della democrazia» (p. 26).
Una più precisa determinazione del concetto di moralità democratica riesce attraverso la descrizione di cosa essa non deve essere: ossia, «non si tratta di iniettare nella vita democratica una determinata rappresentazione della ‘vita buona’ (…)». La democrazia riesce se non viene presa in ostaggio da un contenuto e immagine di vita buona, di diritti umani, di forme della coesistenza, ma se si concentra su una serie di disposizioni di fondo che articolano il molteplice del vivere insieme fra i tanti. «Di questa moralità fa parte anche il fatto di non presentare la propria prospettiva come immodificabile, e di riconoscere la fondamentale pluralità dei punti di vista» (p. 26).
Da parte cattolica, solo una Chiesa sotto Francesco può arrivare a concedere tale spazio all’istituto democratico, riconoscendolo al contempo obbligante anche per la propria stessa posizione nel contesto del dialogo e dibattito politico. Guardando alla propria storia, le due Chiese tedesche confessano inoltre una fatale mancanza rispetto alla democrazia stessa: «Come Chiese abbiamo guardato all’idea moderna di democrazia e stato di diritto in maniera scettica, talvolta ci siamo addirittura opposti a essa. Proprio la storia tedesca ci insegna che così facendo abbiamo commesso una fatale mancanza. (…)
Da questa consapevolezza e da questo riconoscimento traiamo il dovere di impegnarci, in quanto Chiese, a favore della democrazia e di orientare il nostro agire sociale nella direzione di un rafforzamento dell’ordinamento democratico» (p. 28). Insomma, le Chiese stesse stanno sotto il dovere della moralità democratica riconoscendolo come destinazione della propria obbedienza.
Lo specchio della rappresentanza
Nell’insieme il documento congiunto riesce a individuare non solo le aree di crisi dell’attuale condizione democratica, ma anche a suggerire forme pratiche dell’agire politico che consentono un suo avanzamento radicato nelle trasformazioni complessive su piano globale. In particolare, la necessità di combinare la formalità di una «uguaglianza politica» con l’«effettività di un bilanciamento socio-economico» – mettendo cioè mano a un’«economia di mercato sociale» (p. 34-36).
L’eventuale limite di questo testo non risiede né nell’analisi né nell’indicazione della prassi politica necessaria per traghettare la democrazia al di fuori delle secche in cui sembra essersi incagliata. Questo possibile limite risiede, piuttosto, in quella «confessione di fede» nella forma della rappresentanza che articola il ragionamento di fondo del documento. Rappresentanza che non sarebbe in se stessa in crisi, ma che sarebbe adottata politicamente solo in forma parziale – ossia, non al pieno delle sue capacità.
«Le ricerche compiute mostrano che sono soprattutto i ceti discriminati della popolazione a prendere congedo dalla partecipazione democratica. Questi “buchi di rappresentanza” devono essere chiusi rapidamente» (p. 34). Ma come starebbero le cose se la rappresentanza stessa fosse entrata in una crisi irreversibile, e con essa la forma di democrazia rappresentativa? Se così fosse, la fine della rappresentanza significherebbe immediatamente la fine dell’istituto democratico?[1]
Non potrebbe essere che oggi il compito del pensiero politico e quello del pensiero della fede arrivino a toccarsi tra di loro nell’essere chiamati a immaginarsi un ordinamento democratico post-rappresentativo? Certo, nella consapevolezza che questo vorrebbe dire congedarsi dalla forma democratica così come l’abbiamo praticata fino a oggi; senza però rimanere inerti davanti alla sua scomparsa.
[1] Cf. Interdisciplinary Journal for Religion and Transformation in Contemporary Society 4 (2018): The Crisis of Representation.