L’addio di un missionario

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Padre Gabriele Ferrari, saveriano, rientra dalla sua esperienza missionaria in Burundi. Un addio consapevole accompagnato da molti interrogativi.

Bujumbura, 23 marzo 2019

Scrivo queste righe mentre attendo che venga l’ora di andare all’aeroporto di Bujumbura (Burundi) per prendere l’aereo che mi condurrà ad Addis Abeba e a Milano.

p. Gabriele FerrariTra poche ore lascerò questo paese, un paese che amo, anche se e forse perché insieme alle molte gioie del ministero missionario mi ha dato anche una certa serie di fastidi e… tante paure. Quando si soffre per una persona, ci si accorge di amarla.

L’aeroporto di Bujumbura è stato per questi 53 anni il punto di arrivo e di partenza della mia missione… Non riesco a contare le volte che sono venuto per stare o per far vista a questo Paese spesso in occasione di emergenze nazionali (guerre, persecuzione o espulsioni) o comunitarie (per le riunioni dei confratelli o per le bizzarrie di qualcuno di loro) oppure per insegnare come in questi ultimi 19 anni.

Ci sono venuto ogni anno senza interruzione dal 2001, dopo esservi stato in modo permanente e – per quello che mi concerneva – anche definitivo, dal 1966 al 1971 e poi dal 1997 al 2000. Troppo poco tempo… ma, per fortuna, ci sono venuto molte volte nel mio servizio alla direzione generale e ci sono venuto quando la terra scottava… Proprio per questo mi sento legato a questa terra. È il mio primo amore missionario.

Un compito e le sue trasformazioni

Ma sento che questa è l’ultima volta e vivo questo momento con mixed feelings. Gli anni passano e la resistenza fisica si è progressivamente ridotta. Ormai devo confessare che viaggiare mi pesa e mi costa molto più del solito. Anche il mio servizio non è più così necessario. Ragioni affettive, che mi hanno quasi obbligato a venire in Burundi in questi ultimi anni, oggi sono superate dagli avvenimenti. Per questo mi sento pronto a ritenere che faccio bene a chiudere a questo punto il mio servizio, anche se questo passo mi costa. Un servizio che finalmente è stato un bene anche per me, un autoservizio, se così posso dire.

All’inizio non riuscivo ad accettare quello che il nunzio e l’arcivescovo mi chiedevano. Ricordo l’insistenza con cui, nel 1998, mi fu chiesto di andare a insegnare in seminario maggiore nazionale di Gitega-Songa: mai avevo insegnato in una scuola. Poi mi sono affezionato a quel lavoro e ho insegnato tutto e di tutto. Alla fine, quando avevo finito il servizio perché richiamato di nuovo in Italia, quasi mi dispiaceva di lasciare l’insegnamento. Fui quindi lieto quando il rettore mi chiese di ritornare – con il consenso dei miei superiori – a insegnare come visiting professor.

Ora, avendo lasciato spontaneamente l’insegnamento in seminario per non deresponsabilizzare il clero locale in un compito che è anzitutto suo proprio, in questi ultimi quattro anni ho insegnato solo alla propedeutica dei miei confratelli a Bujumbura.

Ogni volta che ho dovuto venire in Burundi, ci sono sempre venuto volentieri, anche se qualche volta, in questi ultimi anni, l’essere qui con i confratelli e soprattutto con la comunità degli studenti mi è stato un po’ pesante; ho provato la solitudine e il vuoto attorno a me in una comunità di confratelli super-impegnati nei loro studi. Quest’ultima volta lo è stato meno di altre volte, però sento che una permanenza più lunga mi peserebbe troppo.

Una cosa che questa volta mi ha confortato e fatto piacere è stato vedere che i formatori sono più presenti in mezzo ai giovani e più attenti alla loro formazione che tuttavia essi sanno non è né semplice né scontata.

La campana dell’ultimo giro

Lascio il Burundi quindi con più serenità delle altre volte. Mi pare che sia suonata ormai per me la campana dell’ultimo giro, quello finale. Sono vecchio, lo dico anche se con poca convinzione, perché dentro di me mi sento e mi pare di essere ancora il Gabriele di cinquantatré anni fa, quando arrivai qui per la prima volta, quando avevo appena venticinque anni. Ero giovane e pieno di entusiasmo per la missione in questo Paese da tutti considerato una missione fuori serie, per la sua gente e la sua evangelizzazione.

La casa in cui abito oggi è ancora quella in cui ho vissuto il primo mese e mezzo di permanenza in questo Paese. È stata ampliata e ingrandita, ma essa mi ricorda quella che ho visto quel giorno, il 7 luglio 1966. Vedo la stanza dove passai quelle prime settimane prima di andare alla scuola di lingua kirundi nel seminario minore di Buta (Bururi), dattilografando la grammatica di kirundi. Mi pare ancora di vedere le facce dei padri che la abitavano e la dirigevano. Eppure quanti anni sono passati! Quasi tutti quei confratelli sono morti e insieme con gli ultimi “resti” sono anch’io diventato uno degli “antenati” della comunità.

Questo mi fa riflettere sul tempo e sulla storia, una storia che non interessa ai giovani di oggi, ma che, quando è evocata, sembra risvegliare in loro una nostalgia di qualcosa che neppure sarebbero capaci di immaginare. Ti ascoltano con interesse, ma per loro è un passato tutto sommato misterioso e quindi affascinante.

Ce la faranno?

Vedo i miei confratelli anziani, i pochi italiani rimasti degli oltre trentasei che sono passati per questa missione. Oggi ce ne sono ancora quattro, il più giovane dei quali è il Superiore regionale. Sono anziani e certi anche malati, ma resistono… con i denti.

Io non condivido questa resistenza a oltranza che è contro la storia, ma li capisco: è per loro una questione di vita e di morte e qualcosa che dà senso alla vita, ma quando si è vecchi non è forse bene accettare di esserlo? Quanto potranno ancora durare? Io ho deciso di fare quello che per tanti anni ho insegnato: riconoscere la propria povertà esistenziale.

Saveriani in Burundi

Il resto della comunità dei confratelli sono giovani di diverse nazionalità, messicani, camerunesi, congolesi, burundesi ai quali sono affidati compiti pastorali e formativi. Essi sono evidentemente diversi da noi italiani, hanno degli atout che noi non abbiamo, ma faticano a tenere gli impegni con la nostra precisione e puntualità, faticano a compierli a tempo o nel tempo fissato, hanno una maniera diversa di vivere la vita comunitaria che a noi sembra disordinata… un disordine che a me personalmente dà molto fastidio ma nel quale essi vivono e prosperano. Quando vedo le loro scrivanie cariche di carte e di note d’ogni specie, di penne e telefonini, di fatture, di libri e di quaderni lasciati lì alla rinfusa, mi domando come faranno a ritrovarsi e a dare resoconto delle loro attività…

Eppure, essi ci vivono dentro ed è proprio a loro che noi dobbiamo passare questo campo di lavoro una volta – e ancora oggi – ben organizzato. Saranno in grado di portarlo avanti? Che cosa resterà di quello che abbiamo incominciato e portato avanti? Ad essi consegniamo un lavoro organizzato alla maniera occidentale ma non possiamo garantire loro gli aiuti economici che hanno accompagnato il nostro lavoro di missionari della vecchia generazione che hanno alle spalle la generosità delle comunità cristiane italiane. Come faranno a continuare?

Abulia e passione

Lascio il Burundi e una realtà sociale ed ecclesiale molto diversa da quella che io ho conosciuto ed è normale che così sia. Lascio qui una comunità con prospettive di futuro che non è facile immaginare nei dettagli.

Mi sorprendo spesso con una domanda imbarazzante e fondamentalmente ingiusta, ma inevitabile: sarà ancora una comunità saveriana, in altre parole, una comunità come la penso io? Non ho diritto di farmi queste domande, ma non posso sfuggirle. Vedo questi giovani in formazione e non mi sento in grande sintonia con loro. Saranno miei confratelli, ma saranno veri fratelli, veri missionari come io li ho sempre pensati?

Mi paiono molto diversi da noi, da me. Tanto per noi essere missionari era una sfida gioiosa e gloriosa, altrettanto questi giovani mi sembrano indifferenti e quasi abulici, preoccupati solo dell’esito dei loro esami di filosofia… Vogliono proprio essere missionari? Se fosse vero, mi parrebbe che dovrebbero schiattare di gioia o di sofferenza a seconda delle situazioni che si presentano, invece li vedo entusiasti e impegnati… solo quando c’è da preparare una festa, quando c’è la prospettiva di passare del tempo a chiacchierare o davanti a una birra o al massimo per andare a giocare a basket. E questo mi fa davvero pensare.

Un’altra mia paura è che qui si vada costituendo una comunità saveriana locale chiusa in se stessa e senza sbocchi missionari fuori delle frontiere nazionali dove Cristo ha bisogno di noi. C’è il rischio di costruire una regione saveriana autoreferenziale, che si gestisce in vista di essere a vantaggio di se stessa. Mi pare che si pensi troppo in termini di promozione vocazionale e di formazione dei futuri Saveriani per averne da utilizzare qui sur place e questo temo sia sinonimo di voglia di potere, possibilità di vivere in città dove c’è tutto o quasi tutto, internet compreso. E insieme mi pare di intravvedere la tendenza a rimanere in casa propria, a trattenere i giovani ordinati locali al servizio delle opere di questa regione in questa terra. Questo non dovrebbe accadere perché è contro la natura della nostra Famiglia missionaria che, per natura nostra, esiste per inviare i suoi figli a lavorare fuori delle sue frontiere.

Ecco una serie d’interrogativi e di paure che io sento nel lasciare questa circoscrizione. Inquietudini che vengono dall’amore che sento per questo popolo e per questa Chiesa che sento di amare per il molto bene che essi mi hanno dato.

 

 

 

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