Il “pesce d’aprile” – così lo hanno definito in tanti – di un attore televisivo che reinterpreta nella realtà un personaggio divenuto popolarissimo sugli schermi nazionali, senza avere di fatto nessuna competenza, nessun programma, è solo l’ultimo snodo di una crisi che coinvolge ormai da anni l’Ucraina dal punto di vista politico, sociale, economico, militare e religioso, e che è arrivata a minare, oltre che i rapporti all’interno del mondo slavo, anche quelli all’interno dell’ortodossia mondiale.
Come si spiega il clamoroso successo ottenuto dall’anti-politica, ovvero da Volodymir Zelensky alle elezioni, e successivamente al ballottaggio, in proporzioni ancora maggiori delle previsioni: 73% contro il 25% del presidente uscente Petro Porošenko? Come ha potuto un’intera nazione scambiare una fiction per realtà, compiere con tanto entusiasmo e convinzione un salto nel buio?
L’hanno detto in tanti: la sua vittoria accomuna l’Ucraina all’ondata dei movimenti di protesta diffusi in tante parti del mondo. Oltre alla stanchezza per il conflitto del Donbass, la grande spinta alla vittoria di Zelensky è stata certamente il rigetto del sistema di corruzione diffuso tra le classi dirigenti locali, la rabbia contro un establishment che avrebbe tradito lo spirito della “rivoluzione del Majdan”, occupando il potere senza ascoltare la volontà del popolo, cavalcando toni nazionalisti anti-russi e fomentando le divisioni anche in campo religioso.
Le ripercussioni sulle Chiese ortodosse di Ucraina
Vari osservatori fanno notare il fallimento dell’ideologia nazionalista con cui Porošenko pensava di essersi conquistato un posto d’onore nella storia travagliata del Paese. Anche il progetto di «ucrainizzazione linguistica», che esclude la lingua russa come seconda lingua ufficiale, non incontra molti entusiasmi; non è un caso che Zelensky parli principalmente il russo, passando con disinvoltura all’ucraino.
Ma probabilmente anche il progetto di nuova Chiesa nazionale ha contribuito fortemente a condannare l’ex presidente alla sconfitta: un progetto usato da Porošenko come un’arma elettorale, brandita in ogni angolo del Paese in cui è stato presentato solennemente insieme al metropolita Epifanij (Dumenko), ma che in realtà si è incagliato a metà strada, portando all’esistenza di due Chiese parallele e irriducibilmente nemiche nel Paese, e scavando un profondo solco nell’Ortodossia mondiale. Nel suo show televisivo il comico aveva ridicolizzato l’operazione chiamando thermos il Tomos ricevuto da Costantinopoli, e scusandosi poi in modo piuttosto ambiguo.
Ora tutto verrà rimesso in gioco, e il portavoce del patriarcato di Mosca, Vladimir Legojda, ha salutato l’elezione di Zelensky con l’auspicio che ponga fine «alle persecuzioni contro l’unica Chiesa ortodossa canonica del Paese», quella appunto dipendente dal Patriarcato di Mosca.
Tristemente, neppure la Pasqua, celebrata dal mondo ortodosso il 28 aprile, sembra aver portato uno spiraglio di riconciliazione nello scisma apertosi nel mondo ortodosso. In quest’occasione, infatti, dietro le pressioni di Mosca, il patriarca Teofilo di Gerusalemme ha proibito a tutti i membri della nuova Chiesa ucraina autocefala, ecclesiastici e laici, che si trovino sul territorio del patriarcato, di prendere parte alle funzioni religiose. «Nessuna forma di partecipazione, neanche la semplice preghiera sui luoghi santi, per i rappresentanti di queste strutture scismatiche», recita il comunicato ufficiale.
Questo ha riguardato, in particolare, la cerimonia del «fuoco di Grazia» del Santo Sepolcro, che si accende inspiegabilmente sul Santo Sepolcro la vigilia della risurrezione di Cristo alla Pasqua ortodossa, in un’enorme lampada riempita di olio con 33 candele, che simboleggiano gli anni della vita di Gesù. Queste fiamme poi vengono portate nelle terre ortodosse, in gran quantità a Mosca, che da anni organizza una delegazione (quest’anno contava circa 100 persone), benedetta dal patriarca e finanziata da esponenti di primo piano dell’economia e della politica russa.
Una ferita ancora aperta
Non si può, tuttavia, parlare dello scisma semplicemente nei termini di una spartizione di «territori canonici» o di una lotta per il «papato ortodosso» tra Mosca e Costantinopoli. È un processo molto complesso in cui – paradossalmente – va maturando una rinnovata coscienza ecclesiale all’interno del mondo ortodosso. Lo provano le posizioni assunte al riguardo dalle varie Chiese ortodosse locali. Di fatto, stando alle loro dichiarazioni ufficiali negli ultimi mesi, nessuna di esse ha appoggiato le decisioni di Bartolomeo. Pur riconoscendo che i sacri canoni prevedono che la Chiesa locale segua amministrativamente lo Stato di appartenenza, si sono tutte astenute dal legittimare la neonata Chiesa ortodossa ucraina.
A destare perplessità non è la concessione dell’autocefalia in sé, quanto le modalità con cui il patriarca ecumenico l’ha concessa: reintegrando di propria singola iniziativa (senza una decisione collegiale tra le varie Chiese) prelati (in particolare il metropolita Filaret Denisenko, autoproclamatosi patriarca di Kiev), la cui scomunica era riconosciuta da tutta l’ortodossia, entrando giuridicamente in collisione con il Patriarcato di Mosca, che quella scomunica aveva a suo tempo comminato, e aggravando di fatto quella spaccatura tra le Chiese che il suo intervento mirava a risolvere.
Proprio su quest’ultimo punto – sulla previa necessità di giungere a un accordo tra le parti in Ucraina, prima di prendere decisioni di tale portata – si sono concentrate le critiche maggiori: «In Ucraina esistono dei gruppi scismatici che devono prima pentirsi e ritornare nel seno della Chiesa madre. Solo successivamente sarà possibile parlare di autocefalia» (comunicato del Santo Sinodo polacco); il patriarca della Chiesa serba, Ireneo, ha stigmatizzato la decisione di ricondurre gli scismatici (in primis il sedicente patriarca Filaret Denisenko) «al servizio e alla partecipazione liturgica senza che si siano pentiti e siano tornati nel seno della Chiesa russa, da cui si sono allontanati» e, lo scorso 28 febbraio, ha invitato gli ortodossi a non entrare in comunione con Epifanij e con gli esponenti della neonata Chiesa ortodossa ucraina.
Netto anche il patriarca cecoslovacco Rostislav, secondo cui «lo scisma, provocato dall’egoismo umano, può essere guarito solo dal pentimento e dal ritorno nel seno della Chiesa. Una nuova autocefalia dev’essere il risultato di un consenso comune». Anche altre Chiese (quella georgiana, bulgara, greca, di Gerusalemme) hanno espresso sostegno a Kirill, patriarca di Mosca, e a Onufrij, capo della Chiesa ucraina che ne dipende.
Ignorata la “conciliarità”?
Tuttavia, pur criticando in maniera franca il modus operandi di Bartolomeo, nessuna delle Chiese ha accettato di seguire Mosca nella rottura della comunione ecclesiale con Costantinopoli. Al contrario, la collisione tra le «due Rome» ha dato inizio a una riflessione più matura sulla reale condizione dell’ortodossia, sul significato della sua unità, della sua conciliarità (sobornost’), sulla necessità di superare le mere contrapposizioni geopolitiche per recuperare l’essenzialità della fede.
Ha aperto gli occhi, almeno in modo embrionale, sul fatto che la crisi ucraina è l’apice di una crisi ecclesiale che riguarda tutta l’ecumene ortodossa; ha dato spinta a rinnovati appelli al dialogo, alla richiesta di una maggior sincerità e semplicità nei rapporti tra le Chiese, all’abbandono cioè di una posizione clericale in favore di una autenticamente ecclesiale.
Ne è una dimostrazione l’appello del Santo Sinodo della Chiesa di Cipro dello scorso 19 febbraio, che ha posto alcune domande pressanti: «Quanto sono stabili e sincere le relazioni tra le nostre Chiese?… Che serietà dimostriamo noi ortodossi al resto della cristianità e al mondo? Che credibilità possiamo avere quando diciamo che le nostre vite si attengono al comandamento di Cristo: “se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”?».
Ugualmente, lo status di Chiesa autocefala non può coincidere con un’affermazione patriottica e divisiva, ma comporta una responsabilità verso i fedeli di tutta l’ecumene ortodossa, e di quella cristiana più in generale: è una vocazione all’universalità, che stride con le posizioni di chi vorrebbe farne un vessillo di guerra. Forte in questo senso il richiamo nel comunicato congiunto delle Chiese di Serbia e Antiochia, dello scorso ottobre: «Nel mondo contemporaneo, lacerato da tensioni esistenziali e sociali, non è possibile per la Chiesa ortodossa tradurre l’unità di fede in una realtà tangibile, capace di influenzare la persona umana, se non con la dimostrazione concreta della sua unità ecclesiale. Tale unità si esprime in parole e opere, si esprime nella conciliarità (sobornost’), nelle procedure di lavoro, nelle consultazioni e nelle decisioni basate sull’ordine canonico tradizionale della Chiesa ortodossa, e sul consenso tra le varie Chiese locali, quale che sia la loro dimensione. La Chiesa ortodossa è una, santa, universale e apostolica, non è una federazione o una confederazione di Chiese separate e indipendenti, che agiscono e reagiscono a seconda dei loro interessi e che si mostrano al mondo bellicose, litigiose, divise tra loro».
Simili anche le parole del Primate di Albania: «Indefettibilmente continuiamo a credere nella fondamentale verità teologica, che andiamo ripetendo da decenni nei dialoghi inter-cristiani, che la Chiesa ortodossa è Una, Santa, Cattolica e Apostolica, e non una confederazione di Chiese locali».
La situazione è nebulosa, e i problemi e le divisioni sono gravi. Lo dimostra la risposta di Bartolomeo alle molteplici esortazioni (l’ultima lo scorso 5 marzo, da parte della Chiesa di Antiochia), a convocare un concilio per dirimere la questione ucraina. Il patriarca ecumenico ha affermato che non c’è bisogno di un concilio per concedere l’autocefalia, e che, all’ultimo da lui convocato, quello di Creta nel 2016, ben quattro Chiese si sono rifiutate arbitrariamente di partecipare.
La strada da percorrere è dunque ancora molto lunga, ma un dato è certo, lungo questa strada provvidenzialmente – forse – sta maturando una più profonda coscienza ecclesiale.