Vivere la campagna elettorale per il Parlamento europeo di queste settimane non può che farmi ripercorrere con la mente ciò che ho vissuto 5 anni fa, quando ero io in prima linea come candidata, e quello che è successo in questi anni, durante i quali molto è cambiato in Italia e in Europa.
Nel 2014 l’Unione Europea stava attraversando già un momento complicato: gli strascichi della grave crisi del 2008 avevano provocato scossoni su tutto il sistema economico e istituzionale europeo, e tra questi il momento più sofferto ed eclatante era stato probabilmente il crollo e il successivo salvataggio della Grecia.
L’Unione Europea – si diceva allora – dev’essere riformata perché le regole non sono più adeguate alle nuove condizioni. In questi 5 anni le dinamiche si sono accelerate esponenzialmente, al punto che anche parlare di riforme è sembrato non bastare. È stato necessario arrivare a invocare un cambio radicale di paradigma. Le istituzioni hanno iniziato almeno a considerare questa prospettiva (sicuramente a livello di Parlamento europeo), ma – come sempre accade in queste fasi di passaggio – la difficoltà sta nell’inserirsi in modo positivo ed efficace nella dialettica tra chi vorrebbe distruggere tutto e chi, di rimando, vorrebbe salvaguardare inerzialmente lo status quo.
Attentati, Brexit e Trump
In questi 5 anni ci sono stati 3 eventi simbolici, conseguenza e causa delle accelerazioni disgreganti cui facevo cenno: gli attentati a Parigi e poi a Bruxelles del 2015 e 2016, il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca sempre nel 2016.
Questi eventi, tra gli altri, hanno modificato le priorità e gli equilibri interni alle istituzioni europee e hanno iniziato a plasmare nuovi scenari politici.
Intanto gli attentati: se, da un lato, l’Europa tutta si è stretta unita intorno alle tragedie del Bataclan e di Bruxelles, dall’altro, si sono messe in atto pesanti limitazioni al nostro sistema di libera circolazione (è stato sospeso Schengen, per esempio) e si sono rafforzate le spinte ideologiche che associano il terrorismo ai flussi migratori (per quanto sia stato sempre chiaro che i terroristi fossero nella stragrande maggioranza dei casi cittadini europei, seppur di origini extraeuropee, radicalizzatisi su territorio europeo).
La pressione su questi temi è poi aumentata con l’inizio della crisi migratoria, specie nel momento di massima asprezza del conflitto in Siria.
A queste nuove esigenze di sicurezza, di accoglienza, di integrazione non si è stati capaci di rispondere in modo unitario. O, quantomeno, gli stati membri non hanno avuto tale capacità: dal canto suo, il Parlamento europeo si è mostrato unito e coraggioso nel presentare proposte concrete, come una realistica bozza di riforma del Regolamento di Dublino, che oggi affida ai soli stati di confine l’onere di gestire le richieste di protezione internazionale; gli stati membri hanno però preferito far prevalere logiche nazionali e nazionaliste, non mostrando alcun senso di solidarietà, di comunità e anche di visione di medio termine. Si sono rafforzate le spaccature, con un evidente protagonismo del blocco di Visegrad (i paesi dell’ex blocco dell’est Europa) contro le richieste specialmente dei paesi del sud Europa e, con sfumature differenti, della Germania.
È importante ribadire che queste spaccature sono state assurde, perché hanno portato a definire “emergenza” una situazione che, in realtà, avrebbe potuto essere gestita molto più serenamente, se ci fosse stata la volontà politica di farlo: secondo i dati ONU,[1] dal 2014 ad oggi hanno attraversato il mediterraneo meno di 2 milioni di persone, una cifra che, per quanto elevata, risulta comunque inferiore allo 0,4% della popolazione europea. Davvero pensiamo che l’Europa unita sarebbe crollata se avesse tentato un maggiore sforzo di accoglienza? O forse questa è una comoda scusa per evitare di affrontare alla radice i problemi da cui nascono i disagi sociali causati dall’attuale sistema economico?
Il disagio non visto
Perché un disagio sociale esiste, e proprio su questo tema è necessario fare autocritica, come ci hanno fatto comprendere gli altri due momenti emblematici di questi recenti anni, materializzatisi nel 2016.
In entrambi i casi, molti degli espatriati a Bruxelles, come me, si erano ritrovati il giorno del voto a scommettere tranquillamente sulla sconfitta sia della Brexit che di Trump, per poi risvegliarsi la mattina dopo con una amarissima sorpresa: non avevamo capito la gravità del malessere e la pervasività di messaggi costruiti ad arte per insidiarsi in tale malessere sociale.
Ma davvero l’uscita dall’Unione Europea e lo slogan “America first” sono in grado di rispondere a questo disagio profondo? O sono formule buone solo a deviare l’attenzione dalle vere cause di disuguaglianze e ingiustizie della nostra società?
Anche in questo caso il dubbio è legittimo, se pensiamo a come le ricette economiche di Trump e dei conservatori britannici (e delle Lega, a casa nostra) vadano soprattutto a vantaggio degli strati più alti della società.
Complessivamente, dunque, il 2016 ha inaugurato una nuova era nelle relazioni geopolitiche. Ad essere messo in discussione è oggi l’intero ordine globale, come si era andato configurando almeno dall’inizio del nuovo millennio. Un efficace lavoro ideologico, portato avanti per decenni dalle destre più reazionarie, è stato in grado di creare nuove parole d’ordine e scatenare nuove paure, senza però trovare nuove soluzioni.
Si è diffuso in tutto l’Occidente un pensiero illiberale, che ha trovato nella globalizzazione il principale nemico, considerato il solo responsabile delle sempre maggiori diseguaglianze sociali.
Il mercato: liberalizzare e guidare
L’Unione Europea è stata anch’essa travolta da questi nuovi impulsi e l’agenda del nostro lavoro, specialmente di noi impegnati sulle materie del commercio internazionale, si è modificata di conseguenza. Gli effetti di questi cambiamenti sono stati ambigui: se, da un lato, ci siamo trovati a dover contrastare desideri di chiusura dai toni inquietanti, dall’altro, è nata la possibilità di recuperare un’attenzione ai diritti che negli anni passati faceva fatica ad affermarsi.
Intanto non è stato più immaginabile concepire il commercio esclusivamente come uno strumento per liberalizzare il mercato: è stato indispensabile inserire sempre di più elementi di aggiustamento e di salvaguardia da possibili scompensi che l’apertura degli scambi normalmente genera. Regole per la protezione dei lavoratori, per la riduzione delle possibilità di concorrenza sleale, per la tutela dei diritti umani, per la tutela dei consumatori, per la tutela dell’ambiente, degli animali, delle foreste sono diventate parti integranti dei negoziati condotti in questi anni.
In più, a seguito del raggiungimento dell’Accordo di Parigi per il cambiamento climatico, l’Unione Europea ha stabilito che non sia più possibile concludere accordi con paesi che non abbiano sottoscritto tale accordo e che non si impegnino per implementarlo.
Insomma, da una logica di deregolamentazione per rendere più libero il mercato si è passati a una logica che mira a definire regole per rendere il commercio più equo e sostenibile.
USA, Cina e l’Europa?
Anche sul piano delle partnership la vittoria di Trump e la Brexit hanno accelerato una serie di dinamiche. All’inizio del mandato la più aspra discussione, negli ambienti europei che si occupano di commercio internazionale, ruotava intorno al TTIP, l’ambizioso e controverso accordo commerciale che l’Unione Europea stava negoziando con gli Stati Uniti. L’accordo probabilmente non sarebbe mai giunto a una conclusione, certamente però il nuovo presidente americano ha bloccato qualsiasi negoziato e anzi ha inaugurato una fase di guerra commerciale aperta rivolta non solo verso la Cina, ma anche verso lo storico alleato europeo. In reazione a queste prese di posizione, l’Unione Europea ha accelerato la chiusura di accordi con altri partner interessati a salvaguardare un commercio certo più equo, ma comunque “libero”.
Con questa chiave interpretativa può essere letta l’approvazione degli accordi con il Canada (il CETA), quello con il Giappone e quello con Singapore, sui quali il Parlamento europeo ha lavorato assiduamente negli ultimi tre anni. Se siamo riusciti a trovare buone intese con Paesi tanto diversi da noi (per leggi, sensibilità politica e standard) è anche perché ci ha unito un comune desiderio di opporci alla logica dei muri e del protezionismo.
Parallelamente, si è iniziata ad affrontare la questione del ruolo che ha giocato e giocherà nel prossimo futuro la Cina: le istituzioni europee hanno approvato due nuovi regolamenti atti a fornire strumenti per contrastare le pratiche di dumping e di distorsione del mercato. Su questi temi ancora molto resta da fare, ma certamente un punto è chiaro: la Cina si sta muovendo con tale forza che solo una Europa che si muove unitariamente può mettersi al tavolo negoziale discutendo alla pari con il colosso asiatico.
Le iniziative scoordinate dei singoli paesi membri non sono solo inutili, ma anche dannose: gli investimenti stranieri possono essere davvero di sostegno alla crescita di medio periodo solo se si inseriscono nell’alveo di rispetto di regole condivise, che solo unita l’Europa può negoziare. In caso contrario, si è forzati ad accettare imposizioni che violano i nostri valori fondanti.
Incattiviti o sovrani?
Molto altro è stato discusso e deciso in questi anni. Ho voluto concentrarmi su ciò che ho seguito più direttamente, ma che credo sia anche ciò che più fortemente ci chiama a una responsabilità: l’Unione Europea, con tutti i suoi difetti, resta un modello di tutela degli individui e della società che non ha pari nel mondo. In una fase in cui sembra profilarsi una nuova guerra tra Stati Uniti e Cina per determinare chi avrà nei prossimi decenni la supremazia sul mondo, l’Unione Europea e tutti noi cittadini europei abbiamo il dovere di non farci schiacciare in questa morsa e dobbiamo rivendicare il nostro ruolo. Ma possiamo farlo solo ed esclusivamente se riusciremo a superare tutti i nazionalismi e gli egoismi di finto patriottismo che stanno emergendo da nord a sud.
Il vero patriottismo che riconosce e valorizza le differenti identità potrà essere garantito e salvaguardato se rapidamente ci renderemo conto che solo attraverso l’Europa unita potremo evitare di essere travolti e sottomessi alle logiche delle altre superpotenze globali.
Alessia Mosca è deputata al Parlamento Europeo dal 2014, dove è membro della Commissione INTA (Commercio internazionale) e vice presidente della Delegazione per le relazioni con la Penisola arabica. Prima di arrivare a Bruxelles è stata deputata al Parlamento italiano, dal 2008 al 2013, dapprima membro della commissione Lavoro poi capogruppo del PD nella commissione Politiche Europee.