Rese possibili dalla scienza, l’unità e prosperità d’Europa potrebbero finire per un deficit di scienza. Così si potrebbe riassumere la monumentale opera di Pietro Greco La scienza e l’Europa, che in cinque volumi ha voluto ripercorrere la storia del continente dall’autunno del Medioevo fino ai giorni nostri.
La coscienza dell’appartenenza a una cultura europea si fa strada con il risveglio delle lettere e delle scienze nel XII e XIII secolo (primo volume), si consolida nel Rinascimento (secondo volume), conosce il suo fulgore con la nascita della scienza sperimentale nel Seicento e nei suoi sviluppi sette e ottocenteschi (terzo volume).
Il primo Novecento vede, tra le altre discipline, la grande stagione della fisica della relatività e dei quanti (quarto volume). Ma è nel secondo dopoguerra, di cui si parla nel volume appena uscito, che l’Europa cede la primazia scientifica, economica e politica agli Stati Uniti, e in un futuro non lontano alla Cina e agli altri paesi asiatici.
La grande scienza del secondo Novecento
Ogni volume intreccia le vicende politiche ed economiche del continente con il racconto delle principali conquiste scientifiche. Il secondo Novecento ci regala scoperte straordinarie.
Sfogliando le 109 densissime pagine del capitolo dedicato al fiorire scientifico post bellico, si potrebbe partire dallo «zoo delle particelle» portato alla luce dagli esperimenti condotti nei grandi acceleratori di Brookhaven negli Stati Uniti e del CERN di Ginevra. Seguono gli sforzi per ora vani di unificare la quattro forze fondamentali della natura, oltre le colonne d’Ercole del Modello Standard. Negli stessi anni nella cosmologia si afferma la teoria del Big Bang su quella dello stato stazionario, confermata dalla rilevazione casuale della radiazione fossile di fondo.
Le esplorazioni spaziali, che scandiscono la competizione scientifica e tecnologica dei due blocchi, mostrano plasticamente come dalle fine della seconda guerra mondiale il baricentro della big science si sia spostato oltre Atlantico. La stessa deriva si può osservare nello sviluppo dei primi computer e di internet, e nei grandi progetti della biologia molecolare e delle neuroscienze, pur mantenendo i ricercatori europei e italiani posizioni di assoluto rilievo. Basti pensare al ruolo avuto da Renato Dulbecco nel progetto genoma umano e alla scoperta dei neuroni specchio da parte di Giacomo Rizzolatti.
La chimica conosce dopo la guerra il prepotente sviluppo della sintesi organica, che gioverà soprattutto alla produzione di nuovi farmaci, mentre a Vincenzo Balzani si deve l’ideazione delle prime macchine molecolari premiate con il Nobel nel 2016.
La frontiera infinita di Vannevar Bush
Il secondo Novecento appare da questi pochi esempi l’epoca in cui la ricerca scientifica tocca i suoi vertici e si afferma come un’impresa internazionale, dove i capitali investiti in infrastrutture e progetti cominciano a contare più della genialità dei singoli ricercatori. È allora che la leadership passa da un’Europa sempre più in difficoltà alla nuova superpotenza statunitense.
Il progetto Manhattan getta le basi di questa egemonia tecnico-scientifica, anche grazie alla grande emigrazione intellettuale di ricercatori europei in fuga dal nazifascismo. Finita la guerra, il documento che sancisce la centralità della scienza per la ripresa economica è Science: the endless frontier del consigliere del presidente F.D. Roosvelt, Vannevar Bush. Solo un vigoroso investimento pubblico nella ricerca (in particolare quella di base), secondo Bush, potrà collocare gli Stati Uniti al centro del nuovo ordine mondiale.
Ma le risorse non sono tutto. Servirà un programma nazionale della ricerca che orienti le sforzi e li connetta a una nuova specializzazione produttiva del paese. Bisognerà anche puntare sul merito, quindi su valutazioni dei progetti condotti dagli scienziati stessi, radunati in una agenzia nazionale della ricerca.
Nasce così nel 1947 la National Science Foundation, mentre un «programma per la nazione» redatto da John Steelman si dà l’obiettivo di portare in dieci anni l’investimento in ricerca all’1% del PIL, così ripartito: il 20% alla ricerca di base, il 14% alla ricerca medica, il 44% alla ricerca applicata e il 22% alla ricerca in ambito militare. Non dimentichiamoci che la ricerca scientifica trae il suo momento anche dallo sviluppo “atomico” e dal conseguente equilibrio del terrore che non verrà meno nemmeno dopo la dissoluzione dell’impero sovietico.
Il sorpasso
Che la ricerca scientifica sia da un lato instrumentum regni e dall’altro motore dello sviluppo economico lo si può cogliere, ad esempio, nelle serie di dati, riportati da Greco, che registrano i diversi andamenti del reddito pro capite europeo e statunitense prima e dopo la Seconda guerra mondiale, oppure l’analogo passaggio dalla prevalenza di Nobel europei a quella dei Nobel americani.
La nuova locomotiva del mondo si rende conto che non può farcela senza l’Europa. I mille miliardi di dollari (in valore attuale) del piano Marshall ridanno fiato al continente, che in vent’anni recupera quasi interamente il distacco economico dagli Stati Uniti. Nasce in quegli anni «la più grande scoperta sociale del secolo»: il Welfare State, e ha inizio il processo di unificazione economica europea. Anche la ricerca comincia a fare sistema, per esempio con la creazione del CERN a Ginevra grazie a Edoardo Amaldi. Altre strutture e programmi nascono in Europa per rilanciare la ricerca dopo la guerra, ma il distacco dagli Stati Uniti, soprattutto in termini di risorse, sembra incolmabile.
È qui che, nella lettura di Pietro Greco, l’Europa manca l’appuntamento con la storia. Già nel 1993 il commissario Jacques Delors aveva ben chiaro che il bilancio scientifico europeo andava rapidamente portato dal 2 al 3% del Prodotto interno lordo continentale. L’obiettivo, da raggiungere entro il 2010, viene proposto prima a Lisbona nel 2000, quindi a Barcellona nel 2002. Ma ben poco si muove.
Ed ecco qual è oggi la situazione: l’Europa ferma al 2% del PIL, con l’eccezione dell’area teutonica attestata al 3%, gli Stati Uniti che stentano a mantenere la leadership tecnico scientifica di fronte alla crescita prepotente della Cina (che da sola possiede la metà dei ricercatori al mondo e i cui livelli di produttività e qualità scientifica si stanno uniformando gli standard occidentali).
La nuova competizione, che si gioca principalmente nel campo dell’intelligenza artificiale e delle scienze della vita, si fa sempre più serrata fra i due nuovi blocchi, USA e Cina, con l’Europa nel ruolo di comprimario. Importante, certo, ma subalterno.
Sei punti contro il declino europeo
È questa la fine della storia? Non è detto, se si seguono i sei punti elencati dall’autore per un possibile riscatto:
- Tornare a credere nella ricerca come motore dello sviluppo delle nazioni
- Riequilibrare le disparità fra l’Europa carolingia e quelle mediterranea e orientale attraverso una regia unica della ricerca
- Rimettere al centro la ricerca di base, che sola può innescare salti quantici nel progresso scientifico e tecnologico
- Arrivare a una effettiva parità di genere nella ricerca per una questione di giustizia ma anche per liberare nuove energie creative
- Portare a un livello di istruzione universitaria almeno metà della popolazione europea
- Creare un ambiente culturale favorevole alla scienza e all’innovazione continua
Anche se i segnali provenienti dall’Europa attuale non sono certo in linea con queste speranze, Pietro Greco mette in luce il crescere di una domanda di «cittadinanza scientifica» e di maggiore partecipazione alla vita pubblica (si pensi ad esempio al recente movimento sul cambiamento climatico). Uno degli scenari possibili è che l’Europa non rinneghi la sua vocazione universalistica e solidale e possa diventare il laboratorio di una nuova «società democratica della conoscenza».
Pietro Greco, La scienza e l’Europa. Dal secondo dopoguerra a oggi, L’Asino d’oro, 2019, pp. 315, 18,00 euro. La recensione è stata pubblicata su Scienza in rete lo scorso 25 aprile 2019.