Il 15 maggio 2019 il presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) e il segretario generale della Conferenza episcopale italiana (CEI) hanno sottoscritto un Manifesto per l’università. Ne hanno dato notizia, tramite comunicati stampa, le relative istituzioni, e soprattutto i siti cattolici, anche se non molti. Non mi pare abbia avuto particolare risonanza.
Il manifesto, molto denso, stilato a forma di tesi elencate, è certamente il frutto di un percorso condiviso tra le due realtà in causa.
Che valore ha un atto del genere? Come è da leggersi e quali sono le ricadute per il mondo universitario sia laico che cattolico, come pure per la società italiana?
Capisaldi umanistici
Innanzitutto, una breve parola sui contenuti, facilmente individuabili. Il manifesto è diviso in due parti.
Nella prima vengono esplicitati in nove punti gli intenti, i valori e gli ambiti che giustificano una comunanza di impegno e di collaborazione nella formazione universitaria: il diritto all’educazione e alla cultura, il ruolo di una comunità di studenti e docenti, l’umanesimo solidale, la promozione della cultura del dialogo e della libertà, il principio di autonomia e sussidiarietà, l’integrazione delle competenze, le collaborazioni internazionali, il tema dello sviluppo integrale, la sfida della cultura digitale. Si tratta dei capisaldi principali che hanno come terreno comune l’umanesimo, la visione dell’uomo nel contesto attuale e nelle sue radici cristiane.
Il primo elemento del manifesto ha un valore emblematico, rispetto agli attuali conflitti sociali o alle discriminazioni: «Tutti gli esseri umani di qualunque etnia, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona hanno il diritto inalienabile a un’educazione».
Nella seconda parte, che consta di altrettanti nove punti, vengono esplicitati alcuni obiettivi pratici su cui entrambe le parti desiderano impegnarsi: sostanzialmente, la promozione di collaborazioni a diversi livelli, culturali, accademici, spirituali, come pure la realizzazione di accordi o protocolli comuni. Il tutto per dare attuazione alla “terza missione” dell’università, rispetto alla ricerca e alla didattica (la due missioni classiche): ovvero il dialogo con il territorio e con altre istituzioni accademiche e formative per mostrare la valenza sociale e pubblica della formazione universitaria. Rappresenta l’aspetto di novità su cui insiste il Processo di Bologna.
Incoraggiamento
Qual è il valore di tale sottoscrizione? Tenendo conto della realtà italiana e del regime di separazione tra mondo laico e mondo cattolico, segnato in passato da pregiudizi reciproci, una manifestazione comune di intenti sull’idea di università ha certamente un grande valore, va salutata con favore.
Non è un fulmine a ciel sereno, ma si inserisce in una serie di felici iniziative locali, dove si sperimentano già forme di collaborazioni con convegni, percorsi formativi, convenzioni accademiche. Questo grazie anche alla pastorale universitaria delle diocesi e alla rete di relazioni avviate da istituzioni accademiche cattoliche, come Facoltà teologiche o Istituti superiori di scienze religiose. Un atto nazionale rafforza e incoraggia l’esistente.
In regime di separazione, ovvero non essendoci istituzioni teologiche nel mondo universitario laico – abbiamo università cattoliche ma non esistono realtà accademiche della Chiesa cattolica nel mondo universitario laico se non qualche rara eccezione – il dialogo tra i saperi strutturati, tra le diverse visioni del mondo e dell’uomo, non ha altra strada se non quella delle cooperazioni, degli accordi, delle iniziative comuni, del dialogo: questa è la via italiana.
L’atto non è sottoscritto dalle autorità istituzionali più alte come il ministero della pubblica istruzione (MIUR) e la Congregazione per l’educazione cattolica, ma da soggetti autorevoli, responsabili delle istituzioni locali, i rettori delle università e la Conferenza episcopale italiana, in quanto responsabile della pastorale negli ambiti dell’università. Non ha quindi carattere vincolante ma di promozione; del resto, sono le persone e non le strutture che agiscono. Rappresenta un segno di alleanza educativa («insieme attori e alleati»), che riconosce il bene alto della formazione e del servizio delle istituzioni accademiche in un territorio.
In maniera significativa, l’accordo avviene quasi al termine del decennio che la Chiesa italiana ha dedicato all’educazione: Educare alla vita buona del Vangelo, dove in molti passaggi si auspicano alleanze tra vari soggetti educativi.
Veritatis gaudium (2017) – l’ultimo testo normativo del magistero per le realtà accademiche ecclesiastiche – presenta, tra i principali criteri di rinnovamento degli studi ecclesiastici, quello della interdisciplinarietà e quello del “fare rete”, in modo da formare all’unità nella pluralità delle esperienze e delle forme della realtà.
Assenze giuridico-istituzionali
Il gesto può essere letto anche in continuità con l’accordo, firmato mercoledì 13 febbraio 2019, fra MIUR e Congregazione per l’educazione cattolica per il riconoscimento dei titoli di studio forniti dalle università pontificie e dagli Istituti superiori di scienze religiose. Una firma invocata da decenni, che certamente promuove la cooperazione tra università laiche e cattoliche. Dopo più di tre mesi, però, mancano i decreti attuativi, e di quell’accordo non si conoscono ancora gli effetti e le modalità concrete.
Una nota critica finale. Si lavora molto a livello di intenzioni, di manifesti – non è poco –, ma rimane ancora troppo debole la parte attuativa, concreta, giuridica e istituzionale, che tuteli e riconosca la qualità e il valore della formazione accademica ecclesiastica, da una parte, e, dall’altra, che favorisca anche in seno al mondo cattolico il confronto con il pensiero plurale e post-moderno.
L’autore è docente presso la Facoltà Teologica del Triveneto-Padova.
Il documento condiviso CEI-CRUI risulta un passo piccolo ma importante, come fa notare mons. Toniolo. Mette in luce, a mio parere, tre aspetti.
1) La preoccupazione dell’Università al calo di interesse per le materie umanistiche, riconosciute come centrali e valorizzate, invece, dalla tradizione ecclesiale. Il documento, unitamente al recente importante sviluppo del “processo di Bologna”, preme in questa direzione: viene riconosciuto alla Chiesa italiana un ruolo di custodia di contenuti e di categorie di pensiero centrali per la costruzione del buon (e critico) cittadino.
2) Molto interessante l’aspetto di avere degli interlocutori-delegati per entrambe le parti (Chiesa e Università). La confusione burocratica e la macchinosa dinamica di cui a volte entrambe soffrono può essere così semplificata, a meno che – e su questo bisogna fare attenzione – si scelgano persone capaci di “parlare due lingue”. Non si può fare gli apologeti all’Università, né svuotare la dimensione spirituale della Chiesa e ridurla a semplice contenitore culturale. Questo richiederà, appunto, che ogni diocesi scelga bene persone capaci di decodificare un linguaggio, quello ecclesiale, che risente di una certa età e genera, oggi, un innegabile sospetto.
3) L’attenzione e il riferimento esplicito alle soft skill (o metacompetenze) mi sembra il riconoscimento che l’Università fa alla Chiesa di essere forte promotrici di qualità/abilità oggi molto richieste nella società e nel mondo del lavoro. Il vero problema, a questo riguardo, è che manca un ente che possa certificare la padronanza di tali abilità. Nessuno rilascia un patentino in “team building”, o in “capacità di empatia”, due delle caratteristiche più richieste dalle aziende oggi. La Chiesa, con la capillarità dei suoi gruppi parrocchiali e diocesani, gode di una grande tradizione a questo riguardo: la collaborazione tra Università e Chiesa può essere funzionale agli studenti e al mondo del lavoro stesso.
Solo un rischio, che cioè, andando verso una definizione sempre più chiara del contributo nelle cosiddette “competenze informali” si vada anche verso una sua più precisa monetizzazione. Questo contribuirebbe a una strisciante strumentalizzazione delle strutture e dinamiche ecclesiali, che non farebbe che impoverire una delle due parti del documento e, in definitiva, a ridurne la portata e l’importanza. In conclusione, credo sia un processo, quello del riconoscimento delle metacompetenze, da gestire insieme, attraverso piccoli passi, in un discernimento “bilingue”, ma comunque sinodale.