Dopo una breve panoramica di definizioni psicologiche odierne della “tenerezza” (cc. I-II, pp. 11-30), l’esperto dei Vangeli Sinottici, mons. Ermenegildo Manicardi, attualmente Rettore del Collegio Capranica di Roma e docente alla Gregoriana, indaga più da vicino sui testi marciani, normalmente ritenuti una narrazione sobria e dura, che menzionano il sostantivo o il verbo riferito alla “tenerezza” (splagchna/splagchnizomai), attinente originariamente all’ambito intimo delle viscere materne.
La tenerezza di Gesù. Il Vangelo di Marco riporta varie ricorrenze della tenerezza nei gesti e nelle parole di Gesù (c. III, pp. 31-51): Mc1,41; 6,36; 8,21; 9,22. Gesù si lascia commuovere a tenerezza verso le situazioni delle folle e dei malati, ammonendo per contrapposizione sul grande pericolo dell’indurimento del cuore, da superare (tre passi sull’indurimento di cuore: 3,5; 6,52; 8,17).
Nel c. V (“Marco e al tenerezza”, pp. 85-102) Manicardi riassume i risultati della sua ricerca. Marco condensa tre campi semantici del tema.
La tenerezza può essere vista come emozione, come capacità personale di apertura, accoglienza e ritrazione (zimzum). Si tratta della sensibilità per una situazione difficile vissuta dell’interlocutore e la propensione a lasciarsene coinvolgere.
La tenerezza deve però diventare un sentimento stabile, una “virtù”, superando l’indurimento del cuore.
La parabola del ramo di fico che si fa tenero con l’avvicinarsi dell’estate, fa vedere infine il terzo tratto della tenerezza: è rappresentato dalla stagionatura di una persona che sa crescere, maturare, invecchiare. La persona cresce nella tenerezza avvalendosi della luce e del calore esterni offerti dai segni dei tempi, e non solo per il proprio movimento personale. Situazioni, persone, eventi più o meno felici ecc. fanno maturare e cambiare le persone, mettendole a contatto con le proprie energie interiori personali.
Manicardi sostiene con forza che la tenerezza non è “buonismo”, tenerume, smancerie. Essa coniuga la forza tranquilla dell’apertura di cuore verso le persone con la denuncia serena e partecipe della verità della loro situazione. Gesù farà questo con Giuda e Pietro nell’ultima cena, rivolgendosi ad essi non con giudizio di collera ma con un’esclamazione di commozione profetica che si rammarica della loro situazione negativa, esprimendo partecipazione, vicinanza, compassione per il loro stato.
La tenerezza nell’ultima cena. Il c. IV (“La tenerezza di Gesù nell’ultima cena secondo Marco”, pp. 51-84) emerge come capitolo più tecnico, dal tono leggermente più elevato dal resto del libro. Si sente la mano del docente, dopo quella del pastore. Un capitolo molto interessante.
Con i gesti e le parole sul pane e sul vino Gesù mostra tenerezza, partecipazione, interesse per la sorte dei discepoli, ai quali trasmette un nutrimento valido per le pecore che saranno disperse quando il pastore sarà percosso.
Solo Marco separa le parole sul pane da quelle sul vino, inserendo parole sul calice. Gesù dona tutto se stesso (“corpo”, che non equivale a “carne” che farebbe merismo con “sangue”). Con le parole sul calice Gesù inserisce il suo dono nel dramma che si sta svolgendo: una salvezza che passa attraverso un giudizio. Gesù assume tutta la negatività del male, per donare solo amore. Egli “transustanzia” tutta la situazione, non solo il pane e il vino (cf. Vanhoye). Con le parole finali sul vino Gesù si collega a Geremia, annunciando una nuova alleanza, prendendosi cioè ancora cura tenera dei suoi discepoli.
L’ultima cena, che Gesù celebra con una cena solenne di addio che lui considera cena pasquale, è l’apice dei pasti di condivisione (ad es. le moltiplicazioni dei pani) e dei pasti di inclusione – celebrati cioè con gente poco raccomandabile – vissuti durante la vita pubblica.
Mc 14,17-21 è una scena di inclusione (preannuncio del tradimento di Giuda) che è ripresa dall’altra scena di inclusione (14,26-31) (preannuncio dell’abbandono dei discepoli e di Pietro). Le due scene incorniciano una scena di condivisione (14,22-25) in cui ricorre il dono del pane/corpo e del vino dell’alleanza.
Gesù inserisce le realtà negative rappresentate da Giuda e da Pietro, oltre all’abbandono del “gregge”, all’interno del disegno di Dio riportato nelle Scritture (cf. Zc 13,7), non “scusando” totalmente le persone, ma immettendo i loro gesti, anche tragici, in un disegno più grande che li supera. Non ci sono sbavature etiche nella tenerezza di Gesù: egli è responsabilizzante verso le persone, che vanno fatte crescere nella responsabilità, ma sentendosi accolte e seguite. Il frutto maturo della passione sarà il raduno rinnovato nella Galilea degli inizi, dove i discepoli lo potranno “vedere”.
L’ultimo capitolo (c. VI, pp. 103) riporta “Sguardi oltre Marco”, con accenni a parabole di Matteo e Luca assenti in Marco.
A p. 64 non concordo con la traduzione di Rm 12,2 con l’espressione “adorazione logica” (?!), anche se il concetto è ben spiegato nel testo (adorazione collegata col logos delle persone). A p. 65 r -10 leggasi 6,53-56; a p. 66 r -3 “prendendo”; a p. 71 si può scrivere che la citazione è di Zc 13,7; a p. 72 r 11 “è stato risorto” va modificato in “è stato risuscitato”; a p. 77 r -2 “inclusivi” va in corsivo; a p. 104 r 19 leggasi splagchnìzesthai.
Bel volume, su un tema solitamente pensato assente in Marco. Molto stimolante in particolare il capitolo sull’ultima cena.
Ermenegildo Manicardi, “Quando il ramo si fa tenero”. La tenerezza nel Vangelo di Marco, (Collana BIBLICA s.n.), EDB, Bologna 2019, pp. 112, € 10,00, ISBN 978-88-10-22185-3