Il Paese è una repubblica che si estende su una superficie di oltre 700 mila kmq, con una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti. Il 24 giugno 2018 si sono svolte le elezioni generali, che hanno sancito il passaggio al sistema di governo presidenziale, come aveva stabilito il referendum del 16 aprile 2017.
Presidente e capo del governo è Recep Tayyip Erdoğan, guida indiscussa del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), eletto il 10 ottobre, in carica dal 2014 e riconfermato nel giugno del 2018. Dal 2003 fino al 2014, Erdoğan fu primo ministro della Turchia.
Nel maggio 2013 avvenne la rivolta di Gezi Parki. Migliaia di persone protestarono contro la decisione del governo, guidato da Erdoğan, di abbattere gli alberi del parco, amato e frequentato dai giovani di Istanbul perché vi venisse edificato un centro commerciale.
Nonostante le forti critiche mossegli da ampi settori del Paese e dall’estero, Erdoğan continuò a reggere il Paese, mostrandosi alla vista di molti un autentico tiranno.
Erdoğan ha idee che non collimano certo con gli oppositori quanto alla democrazia, definita una volta come un autobus, che va fino dove deve andare e poi si scende.
Resta il fatto che Erdoğan continua a reggersi su un ampio consenso popolare e politico. Nella Grande Assemblea Nazionale, formata da AKP e MHP (Partito del movimento nazionalista) può contare oggi su 344 seggi in base alle elezioni del 2018.
Dopo il fondatore della repubblica turca, il mitico Atatürk, venerato come semidio, Erdoğan è senza dubbio il leader politico più popolare. Ciò nonostante, il 15 luglio 2016 ha rischiato di essere travolto da un golpe orchestrato male da alcuni settori dell’esercito. I morti furono 265 e i feriti 1.500. La gran parte delle forze armate non aderì al golpe, anche perché – secondo la Costituzione – l’esercito è il garante della laicità dello Stato.
L’esercito in Turchia gode di una giurisdizione propria, possiede molti beni e capitali ed è fortemente islamizzato. Gli ufficiali ostili al partito islamico continuano ad essere rimossi.
Erdoğan, in barba alle aspre critiche mossegli soprattutto dai Paesi occidentali, definì il golpe un «dono di Dio», che gli consente tuttora di licenziare o di arrestare ufficiali dell’esercito, giornalisti, professori universitari, insegnanti, giudici e altri. Un bilancio spaventoso della repressione parla di 115.074 licenziamenti, 73.363 fermi, 34.642 arresti, 2.099 istituti scolastici chiusi, 186 giornali o riviste costretti al silenzio.
Chi ha ispirato il golpe?
Ovviamente Erdoğan dà la colpa all’imam Fethullah Gülen, che gli fu amico stretto in passato e ora nemico odiato. Vive dal 1999 in Pennsylvania, fondatore dell’organizzazione islamista Himzet (servizio), che si dedica, tra l’altro, alla formazione intellettuale dei giovani, secondo un islam moderato e tollerante. È diffusa in circa 170 Paesi. In Turchia negli ultimi 20 anni ha dato vita a migliaia di scuole private di ogni ordine e grado e ha fondato diverse testate giornalistiche.
I “gulenisti” – è l’ordine perentorio di Erdoğan – vanno combattuti su tutti i fronti perché formano un’organizzazione parallela all’interno della Repubblica. Senza esito le richieste inoltrate agli Stati Uniti di estradarlo.
Va detto che, su molti punti, all’inizio Erdoğan e Gülen andavano d’accordo: combattere l’islamizzazione dello Stato e abbattere l’ideologia laica di Atatürk. Per tanto tempo i piani di Erdoğan e di Gülen andarono di pari passo. Erdoğan comunque mirava alla creazione di un partito politico di governo, Gülen alla formazione delle élites culturali del Paese.
Tutto saltò quando i quadri gulenisti si scontrarono con le ambizioni del Presidente. A partire dal 2012 presero la strada dell’opposizione più aperta. Il Presidente venne attaccato su tutti i fronti e fu messa in discussione la sua moralità. Diminuirono il prestigio e il consenso e il 15 luglio 2016 Erdoğan rischiò di essere travolto.
Sventato il golpe, Erdoğan si fece vedere nella sua Istanbul, simbolo degli ottomani e dei sultani, che lo ammirava come sindaco. Ankara invece fu teatro di scontri. La città/capitale, costruita da Atatürk, pragmatica, moderna e soprattutto laica, non si entusiasmò.
Erdoğan poté dire che il reddito medio era triplicato; che le classi meno agiate e protette potevano beneficiare di una distribuzione più equa delle ricchezze del Paese; che il tasso di mortalità, soprattutto nell’Anatolia, si era di molto abbassato e che il numero di lavoratori/bambini era calato, tanto da dire che il suo modello democratico era da imitare e da esportare in tutti i Paesi di fede musulmana. Nei giorni succeduti al golpe crebbe la sua popolarità.
La spina nel fianco: i curdi
All’indomani del colpo di stato del 15 luglio, furono arrestati sette deputati del Partito democratico del popolo (HDP), compresi i loro due presidenti. Il partito venne accusato di essere la «facciata politica» del Partito curdo dei lavoratori (PKK), fuorilegge in Turchia, i cui membri vengono tuttora ritenuti terroristi come i jihadisti radicali.
L’HDP è il terzo partito politico del Paese con 67 seggi e rappresenta cinque milioni di elettori. Appare chiaro che Erdoğan voglia al più presto sbarazzarsene. Naturalmente Erdoğan si oppone alla prospettiva della nascita di uno Stato curdo ai confini della Turchia.
A partire dal 2010, tra Erdoğan e Abdhullah Öcalan, capo del PKK, condannato all’ergastolo e rinchiuso in un carcere nell’isola di Irmalì, ci furono contatti nell’intento di arrivare ad un accordo. Öcalan chiedeva ai curdi di appoggiare la riforma presidenzialista del Partito giustizia e sviluppo di Erdoğan, il quale, in contraccambio, prometteva ai curdi una non ben precisata forma di autonomia democratica da attuare gradualmente. Chiara la manovra di Öcalan: tornare in libertà ed essere riconosciuto capo del movimento, il quale avrebbe rinunciato alla pretesa separatista e si sarebbe impegnato in un coinvolgimento di integrazione democratica nello Stato turco.
Il progetto Erdoğan-Öcalan mirava a trasformare la Turchia in una confederazione turco-curda, sotto la guida di un governo presidenzialista di tipo “imperiale-sultaniale”, sulla scia del modello storico, tanto caro ad Erdoğan, dell’impero ottomano, di cui aspirava ad essere il rifondatore.
Durante il golpe, Öcalan era arrivato a persuadere i ribelli curdi a deporre le armi e a proporre un negoziato di pace con il governo di Erdoğan. Ma era più una trattativa privata tra Erdoğan e Öcalan che un negoziato tra lo Stato turco e il PKK.
Il partito filocurdo di Selahattin Demirtas vi si oppose e i negoziati tra Erdoğan e Öcalan si interruppero dopo le elezioni politiche del giugno 2015. Il partito di Erdoğan perse più di due milioni di voti e svanì il sogno di una modifica parlamentare alla Costituzione in senso presidenzialista. Il partito filo curdo di Demirtas aumentò i suoi suffragi e così pure il partito nazionalista (MHP).
Religione e nazionalismo
Il partito di estrema destra (MHP) fu fondato nel 1969. È fortemente nazionalista e populista e fa parte dell’Alleanza popolare insieme con il partito di Erdoğan (AKP). Entrambi i partiti, sia pure con modalità diverse, fanno leva sul “populismo”, di cui la religione costituisce un elemento fondamentale, intesa come cemento sociale e collettivo.
Lo mette in evidenza uno studio di Dilek Sarmis apparso sul n. 2 di Concilium (2019): «Indubbiamente, il successo dell’AKP sta nella sua capacità di realizzare l’obiettivo del partito di estrema destra turco, l’MHP. Ciò che quest’ultimo non è mai riuscito a fare veramente: la fusione di nazionalismo e religione. Questi due elementi dell’equazione storica, risultato del periodo di instabilità istituzionale e della guerriglia degli anni Novanta, sono stati associati dall’AKP – in un modo particolarmente abile e trasparente – agli interessi degli strati sociali spesso assenti dai discorsi politici, se non sotto forma di classica litania della rappresentanza del popolo da parte delle élite. Se quest’ultima è stata – e continua a essere – brutale per alcune frange sociali solitamente valorizzate almeno simbolicamente (élite culturali, accademici e militari), l’amministrazione dell’AKP ha saputo onorare l’importanza, perlomeno nei suoi propositi se non nelle azioni politiche, di ambienti fino ad allora poco rappresentati (corporazioni professionali conservatrici, settore del commercio, donne con il velo ecc.)».
Non v’è dubbio che la religione sia stata nel passato, come avviene ora nel presente, associata al nazionalismo populista per consentire la realizzazione dell’obiettivo di uniformare il Paese e i cittadini, tanto da divenire uno strumento di controllo sociale nell’odierna politica turca. L’islam è divenuto un valore guida dell’identità nazionale.
L’AKP può talvolta essere visto come un movimento politico populista che sfrutta la religione per rafforzare il proprio potere, e talaltra, anche come uno strumento dell’islamismo ideologico. Vi è quindi una dinamica utilitaristica e una ideologica.
Vi è qui lo strappo con il passato kemalista. Se il movimento di secolarizzazione e di laicizzazione della Turchia kemalista viene a volte interpretato come un abbandono della religione, ora l’islamizzazione condotta dal partito di governo AKP, è mossa dalla convinzione che i turchi non sono musulmani secondariamente, come poteva sembrare nel nazionalismo kemalista, ma integralmente. Tant’è vero che, dal 1980, i dipartimenti di teologia nelle università private turche sono aumentati in modo significativo. Hanno preso vigore le attività delle confraternite religiose islamiche che Atatürk aveva chiuso nel 1925.
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