Dall’esito delle elezioni presidenziali l’Europa più che un sospiro di sollievo dovrebbe trarre una lezione su cui riflettere attentamente. Questo non solo perché i 31.000 voti che distanziano il neo eletto Alexander Van der Bellen, candidato dei Verdi, da Norbert Hofer dell’FPÖ sono sostanzialmente un’inezia. La scollatura interna del Paese si riversa ora anche sul piano delle istituzioni politiche più alte, dato che nessuno dei due tradizionali partiti popolari austriaci, attualmente al governo nella forma di una grande coalizione, è stato in grado di produrre un candidato alla presidenza credibile rispetto al futuro dell’Austria. Il compito, nel vuoto di visione sociale e di distanza dalla realtà che caratterizza sia i social-democratici sia i cristiano-democratici, forse l’unica cosa che li accomuna davvero nel loro essere insieme al governo, è stato affidato dall’elettorato, fin dal primo turno, alle opposizioni. Il malessere della popolazione austriaca riguarda prevalentemente la tenuta delle istituzioni statali di base davanti alla proporzione dei flussi migratori degli ultimi anni, portata quasi all’eccesso da quella che oramai si può solo impropriamente chiamare l’emergenza dei profughi. Nella gestione di quest’ultima il governo austriaco ha dato l’impressione di essere «impreparato rispetto al compito di controllare il territorio statale» (K. Appel). Non colta nella sua misura agli inizi, lasciata senza alcuna strategia nel suo divenire, non poteva essere gestita nei suoi esiti che con misure di chiusura quale ultima possibilità per cercare di venirne a capo.
Non da ultimo anche a causa delle politiche di accoglienza selettiva messe in campo dalla Germania, che continua sì a far entrare profughi «provenienti dalla Siria ma rimanda indietro sistematicamente verso l’Austria quelli che giungono dall’Afghanistan, dal Pakistan e dalle regioni nord-africane» (K. Appel). Il controllo tedesco del confine con l’Austria non è solo rigoroso, ma anche indice di una cinica mancanza di solidarietà – con un sostanziale avallo della Commissione Europea. Su questo, Van der Bellen è non meno di Hofer un monito al modo in cui l’Europa si sta gestendo nei confronti delle nazioni che ne fanno parte. Ma, forse, è anche l’ultima chiamata a decidere su cosa essa voglia fare di se stessa – perché il paradosso della sua stasi sta intaccando il principio stesso della sua legittimazione. Se la progressiva invenzione della figura giuridica della statualità (Staatlichkeit), come principio che va oltre un’idea di nazione in senso strettamente etnico, linguistico e culturale, è ciò che ha permesso una parziale traslazione dei poteri verso l’Unione Europea, le istanze statali effettivamente prossime ai vissuti dei cittadini europei sono rimaste, per il momento, a livello nazionale. Quando queste ultime entrano in fibrillazione, come avvenuto in Austria, senza una concertazione davvero comune a livello europeo di questa condizione, allora la richiusura del cerchio su un piano esclusivamente nazionale appare essere l’unica via praticabile. Ed è su questo punto che si innestano e si accrescono le forze delle destre nazionaliste che stanno trovando terreno fertile nei territori dell’Europa – un po’ ovunque.
Il gioco diventa ancora più facile quando ciò che innesca la crisi delle istituzioni statali a livello locale ha in qualche modo a che fare con la religione – come nel caso dell’ondata dei profughi in gran parte musulmani. Si paga oggi il prezzo di non essere riusciti a immaginarsi una politica europea in materia di religione, lasciandola essere (non senza concorso delle Chiese cristiane) questione propria delle singole nazioni. A questo si deve aggiungere una sorta di analfabetismo religioso ampiamente diffuso a livello di istituzioni europee, da un lato, e una miopia rispetto al fenomeno religioso da parte delle élites liberali all’interno delle nazioni europee, dall’altro, che non sembrano essere attrezzate «per prendere sul serio la religione in quanto tale» (K. Appel). Pensare che l’islam, in breve tempo, finirà col secolarizzarsi come avvenuto con il cristianesimo, non vuol dire solo non percepire la sua capacità di intercettare una dimensione spirituale dell’umano più resistente di quanto non si potesse pensare, ma anche non accorgersi che «la stessa società europea ha bisogno di un profondo rinnovamento spirituale, rispetto al quale anche l’islam può rappresentare un attore di fondo» (K. Appel).
Questo intreccio di fattori fa delle ultime presidenziali austriache, al di là del loro esito finale, il caso serio dell’Europa. Senza una visione di quello che vuole essere concretamente l’Europa, il fragile bilanciamento fra una statualità europea sovra-nazionale e le istanze statali delle varie nazioni è destinato a sbriciolarsi, consegnandoci all’avventura incerta di un neo-nazionalismo per il quale siamo molto probabilmente impreparati. Pensare di poter costruire questa visione a prescindere dalla dimensione spirituale dell’umano, e quindi da quelle religioni che oggi mostrano di essere capaci di intercettarla e darle forma, è l’illusione di una laicità tenuta in vita artificialmente dai suoi ultimi epigoni – oltre che una discontinuità sostanziale con l’idealità dei padri fondatori della casa comune europea. Ma questo diventa anche un banco di prova per il cristianesimo europeo, rispetto al quale si mostrerà la tenuta ideativa della stessa Chiesa cattolica. Essa è giunta oramai davanti a un bivio senza alternativa: continuare ad avocare il privilegio di una rappresentazione di sé, oramai estenuata dal suo confronto con la modernità, o assumersi il compito di un’inedita rappresentanza della religione tout court dentro i territori dell’Europa. All’interno della quale anche l’islam possa trovare delle coordinate, in un qualche modo famigliari, intorno alle quali articolare il proprio modo di essere nell’Occidente europeo.
La situazione è senza dubbio grave: forse le persone potrebbero mobilitarsi un po’ di più anche da noi che abbiamo già avuto le destre al governo fino a poco fa.
Tuttavia mi sembra un’analisi un po’ troppo pessimista se non disfattista. Forse occorrerebbe tener conto di almeno 2 elementi: la partecipazione al voto elevata (superiore al 72%) e la “rimonta” del vincitore che da poco più del 20% al primo turno ha superato il 50.
E in aggiunta occorrerebbe andare ad analizzare la mobilitazione delle persone che si è verificata in Austria fra il primo e il secondo turno, dove l’azione delle comunità cristiane, parrocchie, movimenti, fino ai vescovi ha fatto forse la differenza.
Del resto è quanto sta avvenendo in Germania per arginare il movimento Pegida e lo stesso vale per Danimarca e Scandinavia, tenuto conto che in questo caso si parla di azione delle chiese cristiane, insieme. Le stesse chiese che, insieme ai leader delle altre religioni, Islam compreso, stanno lavorando ai tavoli europei.
E non dimentichiamo che proprio le popolazioni di qua e di là dal Brennero hanno respinto la destra alla grande: sia nel Tirolo austriaco che nelle elezioni comunali di Bolzano, Sudtirolo italiano, i voti sono andati al centro sinistra, che del resto governa da sempre – anche in epoca di berlusconiamo imperante tra le poche isole che non han virato a destra – la terra appena più a sud il Trentino.
Forse una maggiore diffusione delle informazioni, unito ad un maggiore impegno dei cattolici italiani, potrebbe aiutare anche nel nostro Paese ad arginare il populismo, prima che sia troppo tardi.