Il digitale e il web sarà un nuovo “luogo” della guerra come lo sono da tempo l’acqua, la terra e l’aria? Il terrorismo, le operazioni militari senza dichiarazione di guerra, gli interventi in paesi “terzi”, considerati pericolosi, sono situazioni belliche che si sottraggono ad ogni regolamentazione giuridica? L’ingerenza umanitaria con quali ragioni si produce?
A tutto questo si aggiunge e si affianca la creazione di nuove armi, in particolare i sistemi d’arma dotati di autonomia. Sono chiamati LAWS: sistema di armi letali autonome. Ciò che li caratterizza è «la rottura, implicita o esplicita, instaurata intenzionalmente e costitutivamente con un soggetto (in senso giuridico e morale) cosciente, volontario e responsabile».
Sistemi d’arma, cioè, in grado di agire senza riferimento ad un operatore umano. È la nuova frontiera della ricerca miliare che sollecita una rinnovata riflessione teologica e pastorale.
Soldati robot e armi auto-programmanti
Se ne fa carico con alcuni saggi la Revue d’étique e de Théologie morale (RETM) nel n. 299 (settembre 2018). Sul tema della robotica applicata alle armi scrive Dominique Lambert (pp. 31-46). Sono già operativi i sistemi di armi guidate da operatori a distanza come i droni aerei e i robots armati con compiti di vedetta. Nello sforzo di non esporre il «combattente – uomo» si spinge per dei robots che possano operare senza la conduzione di un attore umano, per dei sistemi d’arma capaci di individuare e analizzare le minacce mettendo in opera strumenti adeguati per contrastarle.
Le teleoperazioni militari e l’autonomizzazione delle armi se sono in grado di affrontare le forme anomale dei conflitti come le intrusioni illegali in altri paesi stanno contestualmente modificando la percezione della natura della guerra e abbassano le barriere che ne impedivano l’avvio, come la paura di perdite dei soldati o la censura internazionale. Ciò non impedisce la registrazione delle vittime messe intenzionalmente vicine alle istallazioni “sensibili” o la risposta terroristica verso i paesi di provenienza dell’attacco.
La domanda etica ruota intorno al livello di responsabilità umana, al ruolo dell’operatore che dovrebbe intervenire nel momento in cui il robot avverte la minaccia. Anche nei casi di robot teleguidati e capaci di decisioni autonome rimane lo spazio della responsabilità. Sono i sistemi d’arma predittivi e supervisionati. Ma si può andare oltre.
«Si può immaginare delle macchine non predittive in ragione della capacità di auto-programmazione (la macchina potrebbe eventualmente darsi obiettivi nuovi e adottare comportamenti non previsti) e di apprendimento in tutto o in parte non supervisionati (la macchina apprenderebbe nuovi comportamenti senza criteri discriminanti imposti dall’operatore umano). In questo caso si avrebbe a che fare con macchine totalmente autonome in senso etimologico, cioè in grado di possedere e determinare la propria legge di funzionamento». L’uomo ne sarebbe totalmente fuori e i sistemi d’arma diventerebbero autonomi.
Non rimuovere la responsabilità
I sistemi d’arma dotati di capacità letali e che costitutivamente e intenzionalmente non hanno legami effettivi con un soggetto umano in una operazione di guerra sollecitano enormi problemi giuridici e morali. Come quello di dover riconoscere una qualche personalità giuridica al robot, dotandolo di un sistema logico in grado di rispondere anche alle questioni morali. Ma un giudizio prudenziale non si concilia con alcun algoritmo.
La macchina non può inventare nuove regole, mentre l’umano può andare al di là della regola, permettendo di salvarne lo spirito. Questi sistemi d’arma non sarebbero in grado di interiorizzare la trasgressione, come il perdono e la riconciliazione. Si potrebbe concludere «che non si possa costruire sistemi autonomi d’arma capaci di soddisfare correttamente le domande del diritto internazionale umanitario: principio di non discriminazione fra combattenti e non combattenti, principio di proporzionalità nella risposta a un attacco e principio di precauzione.
L’applicazione di questi principi richiede una fine interpretazione delle situazioni in contesti complessi e cangianti (come ad es. la guerra in città), difficile da codificare in algoritmi. Ma anche se si potesse effettuare questa codificazione, la macchina resterebbe tale, non potendo essere dotata dall’attitudine del “ripensamento” e della “trasgressione costruttiva e creatrice” di cui abbiamo parlato».
Posizione condivisa dall’Osservatore permanente della Santa Sede all’ONU, mons. Ivan Jurković, in un discorso a Ginevra il 9 aprile 2018: «Un sistema di armi autonomo non può mai essere un soggetto moralmente responsabile. La capacità unicamente umana di giudizio morale e di decisione etica è più di una complessa serie di algoritmi e tale capacità non può essere sostituita da, o programmata in una macchina. L’applicazione di regole o principi richiede una comprensione dei contesti e delle situazioni che va molto oltre le capacità degli algoritmi. Ad esempio, caratterizzare un fatto o applicare una legge generale a un caso particolare richiede, da parte di un giudice, qualcosa di più della semplice applicazione di una logica consequenziale, è qualcosa che eccede la pura manipolazione di regole formali e codificate.
A questo proposito, un sistema di armi autonomo potrebbe considerare normali in senso statistico – e quindi accettabili – comportamenti che il diritto internazionale proibisce, o che – sebbene non esplicitamente delineati – sono ancora proibiti dai dettami della moralità e della coscienza pubblica» (cf. SettimanaNews, qui). In almeno due casi, durante la crisi dei missili a Cuba (1961 – 1962) e nel 1983, l’avvio strumentale dello scontro con armi nucleari è stato impedito per la decisione di un singolo addetto militare (Vassili Askhipov e Stanislav Petrov).
Le nuove ricerche sui sistemi d’arma inducono alcune dissimulazioni serie: il fatto, ad esempio, di pensare una guerra senza morti o di immaginare eventi bellici senza gravi conseguenze. Per questo è importante richiamare la centralità della catena di responsabilità e il ruolo dell’attore umano.
Dalla guerra giusta alla guerra ingiustificata
I confini della ricerca bellica permettono di calibrare di nuovo e diversamente i classici criteri della «guerra giusta». Essi sono: giusta causa (legittima difesa o rimozione della tirannide); ultimo ricorso, dopo aver esperito tutte le possibilità di dialogo; proporzionalità del danno inflitto; decisione di una autorità legittima; speranza di successo. Durante il conflitto il diritto chiede di distinguere fra atto di guerra contro i combattenti e crimine di guerra contro i civili. Ma sia lo ius ad bellum (diritto alla guerra) che lo ius in bello (diritto durante la guerra) sono stati sollecitati dalle esperienze del ’900 a profonde modifiche.
Basti pensare ai bombardamenti a tappeto sulle città o all’uso delle armi atomiche. In positivo, la richiesta di una autorità mondiale che, ad esempio, i papi non hanno riconosciuto in occasione delle guerre del Golfo, condannandole senza incertezze. Ancora, la disapprovazione dell’uso delle armi nucleari, ma anche l’insufficienza della «dissuasione nucleare» e il crescente sospetto sulla costruzione e il possesso delle armi stesse.
Lo ius in bello è stato messo in questione dalle guerriglie prima e poi dal terrorismo che cancellano la distinzione fra combattenti e no, provocando possibili derive autoritarie che mettono in questione i principi dello stato di diritto. Anche il dovere e il diritto di ingerenza in contesti in cui popolazioni innocenti non hanno possibilità di difesa sono strettamente finalizzati al disarmo dell’aggressore e al soccorso doveroso. Crescente è la denuncia ecclesiale rispetto alla produzione e al commercio delle armi, soprattutto per il fatto che sottraggono preziose risorse allo sviluppo.
È stato il concilio Vaticano II a considerare la guerra con uno spirito totalmente nuovo (cf. L. Lorenzetti (a cura di), Dizionario di teologia della pace, EDB, Bologna 1997, pp. 303 – 326). Non per un ritorno alla non violenza della Chiesa primitiva o per una rimozione della dottrina tradizionale sulla guerra giusta. «I cattolici non sono invitati a rompere con il loro deposito dottrinale, ma a reinterpretarne i criteri in maniera così stretta che nessun ricorso alla violenza bellica possa essere considerato come un mezzo “normale” di risolvere i conflitti, senza escludere che questo possa succedere in casi davvero eccezionali» (Christian Mellon, RETM p. 24).
L’esperienza della «guerra totale» e la minaccia della distruzione nucleare hanno reso sempre meno usabile l’espressione di «guerra giusta». Non si tratta solo di umanizzare la guerra, ma propriamente di sradicarla. L’estensione della dottrina del diritto internazionale va nello stesso senso. In un intervento del card. Pietro Parolin, segretario di stato (Università gregoriana, 11 marzo 2015) si teorizza, accanto allo ius ad bellum e ius in bello, anche lo ius post-bellum (diritto dopo la guerra) e lo ius contra bellum (diritto contro la guerra).
«I fatti e le atrocità di questi giorni domandano ai diversi attori – stati e istituzioni intergovernative in primis – di operare per prevenire la guerra in ogni sua forma dando consistenza ad uno ius contra bellum e cioè a norme in grado di sviluppare, attualizzare e soprattutto imporre gli strumenti già previsti dall’ordinamento internazionale per risolvere pacificamente le controversie e scongiurare il ricorso alle armi. Mi riferisco al dialogo, al negoziato, alla trattativa, alla mediazione, alla conciliazione spesso visti come semplici palliativi privi della necessaria efficacia. Una diversa considerazione di questi strumenti non può essere imposta, ma potrà scaturire solo da un generale convincimento: la pace è un bene prezioso e insostituibile».
Ius contra bellum
Al nuovo panorama guerresco papa Francesco ha dato un nome «guerra mondiale a pezzi», fornendo più che una analisi geopolitica un riferimento pedagogico e una immagine di riconoscimento.
In occasione di un convegno sul disarmo (10 novembre 2017) ha archiviato la dottrina della dissuasione nucleare: «Non possiamo poi non provare un vivo senso di inquietudine se consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari. Pertanto, anche considerando il rischio di una detonazione accidentale di tali armi per un errore di qualsiasi genere, è da condannare con fermezza la minaccia del loro uso, nonché il loro stesso possesso, proprio perché la loro esistenza è funzionale a una logica di paura che non riguarda solo le parti in conflitto, ma l’intero genere umano».
Il possibile utilizzo di armi atoniche da parte di fondamentalisti o di malavitosi accentua il pericolo. Per la prima volta il papa ha dedicato il messaggio per la giornata della pace (2017) alla “non violenza”, non più solo come opzione possibile per il credente, ma come chiamata e vocazione per tutti.
Il kairos del congedo dalla violenza
L’approfondimento teologico ed evangelico sommariamente ricordato è percepito dai teologi e dai pastori come un provvidenziale kairos (tempo di grazia) in ordine al «legame maledetto» tra religione e violenza.
Davanti alla banalità dell’accusa di una parte dell’intelligenza laica occidentale alle religioni e in particolare al monoteismo di essere il terreno privilegiato di cultura della violenza e all’altrettanto inaccettabile rifiuto aprioristico quasi non si sia dato nella storia e nel presente una connessione tra religione e violenza «si tratta di riconoscere al kairos dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa, il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato» (CTI – Commissione teologia internazionale, Il monoteismo cristiano contro la violenza, 6 gennaio 2014, n. 64).
L’assenza di una competenza teologica nei poteri civili occidentali li rende incapaci di comprendere la relazione fra violenza e religioni, di uscire dal dilemma di negare ogni compatibilità in conformità al sentire dei fedeli o di addossare alle fedi ogni responsabilità della patologia sociale sull’onda del sentire popolare e mediale.
Il tema è imposto in modo prevalente dal fondamentalismo islamico, ma non solo. Difficile affermare che la religione in sé sia esente dalle pulsioni violente e che queste siano addebitabili solo a determinate circostanze sociali. Il terrorismo politico si percepisce come istanza etica. Uscire da dilemma con la sola pretesa dell’indipendenza e della laicità dello stato senza coinvolgere la riflessione teologica delle varie fedi significa condannarsi al fallimento. Lo si percepisce nell’ingenua contrapposizione fra monoteismo cattivo e politeismo buono; il primo fonte di ogni autoritarismo, il secondo sorgente del pluralismo tollerante.
«Il monoteismo che sembrava il vertice del pensiero filosofico immanente nelle religioni, è sotto accusa e il politeismo è riabilitato. È un tipo di ateismo che paradossalmente critica la religione servendosi di una interpretazione della religione. Mentre prima si limitava a liquidare la questione di Dio come insignificante, adesso gioca con i simboli della religione e si spinge a giudicare la qualità umana del pensiero religioso: meglio il politeismo che non l’ateismo» (P. Sequeri in Settimana 40/2014 p. 8).
Laicità accogliente e religione purificata
Non se ne esce se non con una «laicità accogliente» e un rinnovamento teologico che implica purificazione e riforma delle fedi. La CTI scrive: «Possiamo però attestare, con tutta la fermezza e l’umiltà necessaria, che il radicale ammonimento nei confronti di un uso dispotico e violento della religione appartiene in modo unico al nucleo originario della rivelazione di Gesù Cristo: e ne rappresenta uno degli aspetti più inauditi ed emozionanti, nella storia dell’attesa della manifestazione personale di Dio e dell’esperienza religiosa dell’umanità. La confessione del fatto che l’unico Dio, Padre di tutti gli uomini, si lascia storicamente e definitivamente riconoscere proprio nell’unità del supremo comandamento dell’amore, sul quale gli stessi discepoli del Signore accettano di essere giudicati, illumina l’autentica fede dell’unico Dio che noi intendiamo professare» (n. 15).
Non si tratta di cancellare le responsabilità storiche del cristianesimo, ma di prendere atto del cammino di purificazione della fede cristiana perseguito dalla Chiesa. La prassi storica non è sempre stata coerente con l’autentica ispirazione evangelica. Come teologi riteniamo «che il riconoscimento di questa contraddizione abbia compiuto, nell’epoca attuale della Chiesa, un salto irreversibile di qualità, nella dottrina e nella prassi: diventando inseparabile dal futuro del cristianesimo, come anche dall’ideale di una religione autentica.
Per tale motivo pensiamo, come teologi cristiani e cattolici, che questo approfondimento rappresenti una reale opportunità di ripensamento dell’idea di religione. Lo è per le culture secoli dell’Occidente, tentate dal ripudio del cristianesimo e della religione, a costo della rassegnazione del nichilismo. Lo sarà anche per le religioni nel mondo, di nuovo tentate dalla chiusura su se stesse, e persino attraversate da orribili presagi di guerra».
La genialità di Cristo è proprio questa: nel sacrificio cristiano non si fa male a nessuno, né agli amici né ai nemici. Gesù consegna se stesso. Non vuole vittime che, guarda caso, sono sempre gli “altri”.