La vicenda di Noa Pothoven ossia la ragazza olandese che a diciassette anni, non riuscendo più a resistere alla sofferenza psicologica causatale da ripetuti episodi di violenza sessuale, ha deciso di morire, comunicandolo su Instagram ai suoi 8mila follower, ha suscitato, nel giro di poche ore, due tipi di reazioni: in un primo momento quelle di condanna per un episodio di eutanasia che, data l’età della protagonista, ha fortemente impressionato l’opinione pubblica; successivamente, contro-reazioni, di indignazione per la falsa notizia che attribuiva alle strutture sanitarie olandesi la gestione della morte della ragazza.
È stato Marco Cappato, esponente di spicco dell’Associazione Luca Coscioni, noto per avere assistito DJ Fabo nel suo progetto di suicidio assistito, a protestare vivacemente sul proprio sito Facebook. «L’Olanda ha autorizzato #eutanasia su una 17enne? Falso!!! I media italiani non hanno verificato. L’Olanda aveva rifiutato l’eutanasia a #Noa. Lei ha smesso di bere e mangiare e si è lasciata morire a casa, coi familiari consenzienti. Si attendono smentite e scuse».
A partire da questa precisazione, su molte testate giornalistiche si è registrato un passo indietro: «Non è stata eutanasia, ma suicidio». È ciò che premeva a Cappato, promotore della campagna per l’eutanasia legale, che rischiava di essere messa in cattiva luce da una sua applicazione particolarmente discutibile. Questo per quanto riguarda le smentite.
Alla radice del problema
Mancano ancora, che io sappia, le scuse. Prima di porgerle, però, sarebbe meglio capire se davvero la falsità della notizia che Noa si è fatta assistere, per morire, da strutture pubbliche, cambi radicalmente i termini della questione.
A me sembra di no. Perché la cultura che sta dietro l’eutanasia e dietro il suicidio, quando è, come in questo caso, lucidamente programmato e socialmente condiviso, è la stessa.
Di questa cultura è espressione la legge promulgata in Olanda nel 2001, la quale prevede che, dopo i 12 anni, chiunque può decidere di sottoporsi a eutanasia, anche se, fino ai 16 anni, è necessario il consenso dei genitori. La condizione perché la richiesta sia accolta è che un medico abbia stabilito che la sofferenza del paziente sia insopportabile e senza prospettive di miglioramento e che questa diagnosi sia confermata da altro medico.
Nel giugno del 2018, il «Codice di condotta» distribuito ai medici olandesi ha interpretato in modo estensivo questi criteri. Nel documento si precisa che il paziente «non deve per forza essere affetto da una patologia terminale. L’accumulo di difficoltà tipiche della vecchiaia – come problemi di vista, problemi di udito, osteoporosi, artrite, problemi di equilibrio, declino cognitivo – possono causare sofferenze insopportabili senza prospettive di miglioramento. Se una o più condizioni insieme causano al paziente una sofferenza che lui considera insopportabile», deve essere autorizzata l’eutanasia. Nel documento si sottolinea poi che «il criterio è del tutto soggettivo perché ciò che è sopportabile per un paziente potrebbe non esserlo per un altro».
Le leggi ci plasmano
Che Noa, non si sia avvalsa di questa normativa non significa che non abbia respirato il clima che essa ha inevitabilmente contribuito a creare. Spesso si pensa che una legge serva solo a sanare situazioni preesistenti, senza chiedersi quali saranno gli effetti nel futuro. Ma alla lunga saranno questi a plasmare il volto di una società e delle persone che vivono in essa.
Perché una legge ha anche una funzione educativa. Aristotele non faceva che dar voce al buon senso quando scriveva che «i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini» (Etica Nicomachea, 1103 b).
La società in cui Noa è nata ed è cresciuta è sempre stata (la legge risale a un anno prima della sua nascita) una società dove quello di morire è un diritto riconosciuto (perfino ai bambini di dodici anni e ai vecchi stanchi dei loro acciacchi!). Se è vero, come dice MacIntyre, che «è sempre all’interno di una qualche comunità particolare con le sue specifiche forme istituzionali che impariamo o non impariamo a esercitare le virtù», lei non ha potuto imparare, dalla comunità dove è vissuta, le virtù del coraggio nell’affrontare la sofferenza e della fiducia, malgrado tutto, nelle risorse della vita.
La normalizzazione della fuga dalla vita
È stato detto giustamente che davanti a una scelta simile non si ha il diritto di giudicare. Non lo si ha mai, quando ci si trova di fronte alla disperazione di un essere umano.
Ma sulle leggi sì, si può esercitare un giudizio critico. E quella olandese, come ogni altra che consacri come un diritto quello di morire, poco importa se con l’aiuto, attivo o passivo di altri (e allora è eutanasia), o senza di esso (e allora si parla di suicidio), potrà forse servire a sanare alcune situazioni estreme di dolore, ma produce le condizioni perché l’evasione dalla vita possa apparire, a persone come Noa, una soluzione “normale” dei suoi problemi esistenziali.
E così è potuta apparire alle migliaia di persone a cui l’ha preannunciata sui social e alla sua stessa famiglia.
La libertà senza responsabilità
Dietro c’è, anche se non sempre consapevolmente, una precisa filosofia, condivisa, in realtà, anche da coloro che in questi giorni esprimono accorate condanne di ciò che accaduto a Noa.
Emblematico il caso di una intellettuale «di sinistra» intelligente e sensibile come Michela Marzano, che in un commento a caldo su Repubblica ha scritto: «Non è giusto, non è così che si fa, non si può morire a 17 anni, anche quando la vita sembra solo un peso di cui volersi liberare al più presto».
Ma la stessa Marzano, e sullo stesso giornale, alla vigilia della discussione alla Camera della legge sul testamento biologico, ha scritto: «Sono anni che il fronte del “no” invoca il concetto di “sacralità della vita”, facendo finta di non sapere che la dignità di ognuno di noi si fonda sulla nostra autonomia, e che nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare le nostre scelte e i nostri desideri» (Repubblica, 27 febbraio 2017).
È quello che Noa ha pensato, in linea con le leggi del suo Paese e della cultura che esprimono. Purché non operiamo nulla che nuoccia agli altri, possiamo fare quello che vogliamo, senza doverne rispondere a nessuno («la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro»).
E il modello di libertà, conforme alla logica del mercato, che la società borghese ha assolutizzato e di cui la legalizzazione dell’eutanasia è una perfetta espressione. Una libertà senza responsabilità, che suppone l’individuo perfettamente autonomo in se stesso e privo di legami vincolanti. Ciò che si fa nella propria sfera non riguarda nessun altro. Sarebbe una violazione della privacy! Ogni uomo è un’isola e la società un arcipelago. La libertà, così concepita, è solitudine.
Che c’entrano i medici?
In quest’ottica, nessuno, meno che mai lo Stato, deve intromettersi, magari in nome di una scala di valori che il singolo potrebbe non riconoscere. Nemmeno i medici.
Proprio Michela Marzano – quando, nel corso dell’approvazione della legge su testamento biologico, fu approvato un emendamento secondo cui «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» –, scrisse infuriata che questo vanificava la libertà dei pazienti: «Dovevo essere io a decidere. Io paziente, io che soffro e chiedo solo di andarmene via, io che ho diritto di restare fino alla fine soggetto della mia vita. E invece niente. Alla fine, l’ultima parola spetterà ancora ai medici» (Repubblica, 20 marzo 2017).
Ma in nome di che cosa, allora, recriminare sulla fine di Noa? Esemplare applicazione di questo concetto di libertà.
Il solo limite, come prevede la logica del mercato, sono gli impegni contrattuali. In questa logica, un famoso bioeticista americano, T. Engelhardt, ha potuto sostenere che non è moralmente lecito impedire a qualcuno di uccidersi, «a meno che il suicidio non venga impedito al fine di permettere l’adempimento di doveri preesistenti (ad esempio, pagare il conto della propria VISA, correggere i lavori dei propri studenti, istituire un fondo per il mantenimento dei propri figli)». Noa non aveva evidentemente debiti del genere. Altrimenti l’avrebbero fermata.
Presto toccherà a noi
Mi dispiace per Cappato, ma non credo, alla luce di questa riflessione, che gli siano dovute delle scuse.
Che una povera ragazza olandese si sia uccisa, invece di fruire della perfetta organizzazione sanitaria del suo Paese per morire, non cambia una virgola della filosofia di cui l’esponente radicale è sostenitore e di cui abbiamo analizzato la logica perversa.
Ma non si deve preoccupare. Presto la triste vicenda di Noa sarà dimenticata e toccherà all’Italia accedere finalmente agli standard di “civiltà” di cui l’Olanda è stata battistrada.
Giuseppe Savagnone è direttore dell’Ufficio per la pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo. Post pubblicato nella rubrica «I chiaroscuri» (su www.tuttavia.eu), il 7 giugno 2019.