Davvero una brutta storia quella che ha investito il Csm. Alta istituzione di garanzia di rilievo costituzionale, presieduta dal capo dello Stato, organo di autogoverno della magistratura, che si occupa delle nomine dei vertici degli uffici giudiziari, delle carriere e della disciplina dei magistrati.
Una istituzione disegnata dai costituenti con il preciso scopo di difendere l’indipendenza e l’autonomia della magistratura in omaggio a quella divisione dei poteri che è caposaldo dello Stato democratico e di diritto. Come si può comprendere, è imperdonabile la responsabilità di chi, con i propri comportamenti, contribuisce a minare la fiducia dei cittadini nel Csm e nella magistratura. Fiducia nelle istituzioni già tanto messa a dura prova.
Il PD prenda distanza!
Da una indagine della procura di Perugia che vede imputato per corruzione Luca Palamara, già membro del Csm e in passato presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si è appreso di opache manovre ordite da una cricca di magistrati attuali membri del Csm e politici del PD, che si riunivano di notte in un albergo, per influire sulle nomine dei vertici di importati uffici giudiziari in scadenza, a cominciare dal principale, quello di Roma.
Con lo scopo di favorire taluni candidati e azzopparne altri. Persino architettando iniziative tese a gettare discredito su procure e magistrati scomodi. Ad appesantire il caso la circostanza che uno dei due politici (Luca Lotti) – i quali non hanno alcun titolo per occuparsi delle nomine in capo al Csm – è soggetto a indagine (il caso Consip) da parte della procura di Roma, appunto una di quelle delle quali la cricca mirava a determinare il nuovo vertice.
Dei cinque magistrati membri del Csm coinvolti, uno si è dimesso, quattro si sono autosospesi (che significa? non esiste l’istituto della sospensione). I due politici, Lotti e Ferri, entrambi del PD, non hanno inteso dare spiegazioni pubbliche, al più asserendo che tali pastette tra magistrati e politici si sono sempre fatte. Una brutta storia, dicevo, che suggerisce di isolare tre profili.
Le opportune dimissioni
Il primo riguarda l’etica pubblica, la deontologia, la coscienza dei singoli. Sia dei politici manovrieri che, per ragioni di potere e persino di autodifesa da procedimenti giudiziari, non si fanno scrupolo di mettere le mani sui vertici di un potere terzo per definizione autonomo e distinto.
Sia dei magistrati – un tempo figure circondate quasi da un’aura sacrale, al punto da condurre una vita privata ispirata a grande riserbo, al prezzo di sacrificare la propria vita di relazione – che dovrebbero brillare per terzietà e invece brigano in combutta con i politici per fare carriera, per nominare gli amici e colpire i nemici.
Per il bene superiore della magistratura e del Csm di cui qualcuno chiede persino l’azzeramento, è lecito attendersi le dimissioni di tutti e cinque i giudici coinvolti. Dimissioni richieste all’unanimità anche dall’Anm, il sindacato delle toghe, ma alle quali sembrano ostinatamente indisponibili i membri del Csm coinvolti della corrente Magistratura indipendente (sic).
Secondo profilo: quello istituzionale e cioè l’esigenza improrogabile di una profonda riforma dei meccanismi di elezione dei membri del Csm, oggi per due terzi togati, per un terzo “laici” (cioè non magistrati) di nomina parlamentare, in concreto negoziati tra i partiti.
Al riguardo, da tempo vi sono proposte di riforma depositate alle Camere e che sarebbe d’obbligo mettere presto in agenda: si va da sistemi elettorali complessi e comunque mirati a contrastare le degenerazioni correntizie sino alla soluzione radicale del sorteggio. Soluzione, quest’ultima, di dubbia costituzionalità e che suonerebbe come un’abdicazione, ma eloquente a significare il limite cui ci si è spinti nella sfiducia negli uomini e nel sistema.
Di sicuro sarebbe utile, intanto, una legge che prescriva il divieto di rientrare in magistratura da parte di chi avesse fatto esperienza politico-parlamentare. Si pensi al caso di Ferri, magistrato, potente leader della suddetta corrente Magistratura indipendente, ieri sottosegretario alla giustizia e oggi ancora parlamentare, che, domani, potrebbe rientrare nei ranghi della magistratura. Un andirivieni che non giova né alla politica né alla giustizia.
Merito o Cencelli?
Così pure sarebbe bene che, a monte, partiti e parlamento, quando chiamati a eleggere il terzo dei membri di propria spettanza inesorabilmente frutto di accordi politici, avessero cura di scegliere tra non politici, non parlamentari in carica o da poco ex e dunque troppo segnati da un’appartenenza politica. Ancora: al vertice del Csm, cioè come vicepresidente (ripeto: presidente è, per Costituzione, il capo dello Stato), sarebbe meglio fosse eletto un non politico.
È vero che, in passato, quella carica è stata ricoperta da politici degnissimi come Galloni, Mancino, Rognoni. Ma oggi, nel quadro di una contesa politica aspra e incattivita, per marcare la terzietà dell’organo, opportuno sarebbe non designare al vertice uomini suscettibili di essere percepiti come di parte.
L’attuale vicepresidente Ermini, sino allo scorso anno deputato renziano e responsabile giustizia del PD, in questa circostanza, ha avuto parole apprezzabilmente severe (ha denunciato le ingerenze improprie delle correnti, ha parlato di una “grave ferita” per il Csm, che “sarebbe perduto” se non reagisse energicamente come si conviene, e ha discretamente sollecitato le dimissioni dei quattro membri autosospesisi).
Parole e atti chiaramente ispirati dal presidente Mattarella, che ha fatto filtrare il suo disappunto e la sua viva preoccupazione. E tuttavia – va detto – il monito di Ermini sarebbe decisamente più efficace se anche lui, non più tardi dello scorso anno, non fosse stato eletto vicepresidente sulla base di un accordo riconducibile esattamente ai medesimi soggetti (correnti e partiti) coinvolti nel caso.
Infine, sempre in attesa della riforma, sarebbe necessario che il Csm avesse somma cura di adottare procedure di nomina degli uffici giudiziari non “a pacchetto”. Con la speranza di scoraggiare nomine figlie di una malcelata lottizzazione politica tra le correnti e le sottocorrenti. Per intenderci: io avallo una nomina a te, tu avalli una nomina a me.
Una logica da vecchio “manuale Cencelli” che esalta le appartenenze politiche, le correnti, le lobbies più o meno occulte a discapito del merito, delle competenze, delle esperienze, della comprovata integrità e autonomia. Una logica che, se perversa per la politica, tanto più lo è per la magistratura.