Solo qualche tempo fa era in Giappone e a giugno parte il suo nuovo tour statunitense, ma per il mese del suo compleanno non è previsto alcun concerto. Non che stia festeggiando, infatti è molto più probabile che si sia ritirato da qualche parte con la sua band per registrare un nuovo album. Nell’ultimo passaggio in Europa, con il Never Ending Tour, Dylan ha disegnato come una parabola tra la Germania e la Svizzera. È comunque oramai da tempo che i tour sono diventati il suo modo di vivere. Cercare qualcosa di particolare nei singoli tour non ha molto senso, ed è possibile che anche il concerto come evento sia stato oramai risucchiato nel gorgo dell’essere sempre in giro – almeno per lui e la sua band. Ha lasciato qualche traccia dietro di sé? Certo, ci sono state delle date aggiuntive; ma la cosa che più colpisce è il vedere, insieme a quello invecchiato con lui, un pubblico di giovani. Nipoti sequestrati dai grannies e costretti ad accompagnarli ai concerti? Non direi. L’attenzione di questa fetta giovane del suo pubblico si muove su registri che sono tipici delle ultime generazioni, distanti anni luce da quella dei nonnetti. Ma cosa sentono e vedono quando vanno a un concerto di Dylan?
Settant’anni e solo canzoni d’amore…
Sono oramai passati gli show azzardati degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Ve li ricordate? Quelli che Dylan, con i suoi grandi occhiali da sole, passava nelle zone d’ombra del palco oppure quasi nascosto dietro le percussioni. Anni da brividi per la sua band, che non sapeva mai se Dylan avrebbe cantato il pezzo appena intonato insieme oppure qualcosa d’altro che non c’entrava niente. E poi quello che fa incavolare di più i suoi fan di vecchia data: è ormai da tempo che la setlist dei concerti rimane invariata. Che Dylan si sia tranquillamente accoccolato nella noia di una routine in dissolvenza? Niente affatto! La rischiosità, dalla performance, è tornata a essere là dove essa aveva sempre preso le mosse: nel cuore delle canzoni. E nella momentanea stabilità della setlist si incastona il cristallo di un nuovo canone. Sul palco un uomo di 74 anni – e canta praticamente solo canzoni d’amore. Il tema sembra essere inesauribile, non lo lascia neanche un momento, anzi è ciò che lo fa andare avanti. E lui acconsente, lascia che esso vada per il suo corso. Ogni routine, ogni scontatezza, si trova interdetta già con la prima canzone: Things Have Changed. Un canto del cigno, parole di conversione come prezzo da pagare per ciò che valeva prima. E il ritornello discreto, quasi modesto: I used to care / but things have changed. Ma verso dove vada questa conversione e che cosa valga adesso la canzone non ce lo dice. Essa è solo una soglia verso un territorio intessuto sulla trama delle canzoni che verranno poi cantate. La regione non di una nuova certezza di fede, ma del cuore avventuroso immerso in un chiaroscuro di religiosa melancolia.
Nell’ombra di Sinatra
Il suo album di brani di Sinatra del gennaio 2015 si intitola Shadows in the Night. Per favore non riduciamola a una banale tautologia. E soprattutto non si dovrebbe sopravvalutare il ruolo del tratto retorico. Non è un fine in sé, ma un mezzo per aprire nuove possibilità di espressione. Ombre nella notte – è questione di percezione. Ombre che vagabondano, accarezzandola, in un’immaginaria notte d’amore. Non si piangono o rievocano storie oramai sfumate, anche se il linguaggio dell’amore segue il modulo dell’io e tu, del lei e me. Ma il cantante non è oramai da troppo tempo per via per attaccarsi a storie di vita? Dylan sembra vagabondare provenendo dalle sue personali figure d’amore, e continua a errare verso l’amore. Le ombre notturne… sono il possibile e l’impossibile, le riuscite e le scomparse, le euforie e le maledizioni dell’amore stesso. L’amore muove senza ragioni, è sufficiente, e innalza una vita (due vite, il mondo) fino all’altezza del cielo: Beyond Here Lies Nothing – oltre questo amore il nulla. Questo amore qui, è lui l’al di là stesso: nella sua sublimità, nella sua cosmica perdutezza. Senza alcun sostegno, come sospeso nel vuoto, si muove l’unico passaggio che conta veramente, dal quale si sviluppa tutto il resto – l’intera canzone: I Love You Pretty Baby. La band, con un ritmo audace, lo consegna alla canzone e lo accompagna con lo spazio di un’eco verso l’interno infinitamente aperto, cosmico.
Nel chiaroscuro di questo spazio ombroso, reso visibile attraverso i giochi di luce e l’allestimento del palco, che attira dentro di sé il pubblico, Dylan esegue tutto il canone di Sinatra come se fosse cosa sua, le sue stesse canzoni. Egli stesso reclama che non si tratta di una reinterpretazione, ma di un ritrovamento – di una scoperta che lui e la sua band porta a una nuova vita. Singoli pezzi li possiamo trovare nel repertorio degli show di Dylan già in tempi precedenti. Ad esempio suona Lucy Old Sun con Tom Petty e gli Heartbreackers già nel 1986 in occasione del tour fatto insieme.
Rubare dal passato per amore
Il suo approccio alla storia della musica pop Dylan lo ha già fissato da tempo in maniera programmatica: Love and Theft è il titolo dell’album del 2001. Prende quello che ama, e ogni furto è fatto per amore. Che anche il canone di Sinatra sia caratterizzato da questo paradigma del love and theft, Dylan lo mostra da un po’ di tempo in maniera chiara avendo fatto di un’altra canzone, non contenuta nell’album, un pezzo fisso dei suoi concerti. Qualcosa di simile a quello che fece Sinatra con Billy Holiday, quando lo riprese nel 1956/57. Dylan lascia spazio a un gioco di associazioni, così che ogni differenza di razza (e magari anche di gender) viene messa fuori campo: ne va solo dell’amore, e con esso del mondo e di tutto: All or Nothing at All. Che questa canzone venga posta da Dylan sia dentro sia fuori il canone, rimanda l’assolutezza in essa reclamata a un luogo indeterminabile. Questa è l’utopia della musica pop, che Dylan qui mette evidentemente in gioco. Caricata in tal modo di significato, All or Nothing at All è diventata un pezzo chiave del secondo album appena uscito (Fallen Angels) intrisa di standard tipici degli anni ’40 e ’50.
A questa utopia del pop ha dato un’espressione scenica il poeta scozzese John Burnside con I Put a Spell on You (2014): un gruppo di giovani, siamo nella metà degli anni ’60, passa una noiosa domenica pomeriggio nel bar desolato di una città industriale inglese appena sorta e già in decadenza. All’improvviso una ragazza seduta a un tavolo vicino intona a squarciagola proprio il pezzo classico della musica soul I Put a Spell on You, con le sue sfumature oscure – rivolgendosi al narratore (la sua persona ai tempi dell’età giovanile) come se la canzone fosse proprio per lui. Egli è affascinato e costernato in uno, si conoscono appena, non li unisce nemmeno la parvenza dell’inizio di una storia, eppure rimane catturato. Perché, di questo l’autore decenni dopo è certo, guardandosi reciprocamente, entrambi univano alla musica pop, alla sua scintillante superficialità, la stessa speranza. Una speranza, così scrive Burnside, che le canzoni pop pretendono di conoscere e che doveva essere salvaguardata contro ogni realtà: Love is real. L’insanabile distanza che si apre tra l’amore realmente vero e il mezzo musicale di espressione, così splendente ma che si consuma velocemente, è al temo stesso il nocciolo incandescente del pop. Nella sua impurezza, nella poeticità abissale accompagnata da trivialità maneggiate con trascuratezza, dove vecchie tradizioni musicali vengono passate attraverso il filtro estraniante delle nuove tecniche di espressione, la musica pop tiene presente il valore incondizionato dell’amore nella sua verità e realtà. Ma come qualcosa di estraneo: come l’assolutamente necessario già sempre perso, mancato, rovinato – oppure mai realmente raggiungibile.
Ironia: proteggere l’amore, proteggersi dall’amore
Per questo cerca di proteggere questo amore attraverso giochi di specchi o mistificazioni, immergendolo in una nebbia che lo ironizza. L’amore è per Dylan cosa amaramente seria, ma egli si presenta disinvolto, ironico, disinteressato: All I really want to do, / is, baby, be freinds with you si sente risuonare in maniera pungente, al limite del cinismo, nella versione del 1964. Velo di un desiderio senza briglia alcuna. Le canzoni dell’album Tempest (2012), che sono entrate nel canone attuale dei suoi concerti, sono più tetre, eppure l’amore non è scomparso in esse. Esso appare però sorprendentemente messo ai margini, quasi distorto. Nel mondo contrassegnato dalla violenza di Early Roman Kings anche il linguaggio dell’amore diventa violento e grossolano. Nel mondo stregato di Scarlet Town l’amore si fa peccato e la bellezza diventa reato. E in Long and Wasted Years vi è una visione notturna attraverso una vita fallita che guarda a un amore che fu una volta realmente possibile. Una vita nel presente di un amore non realizzato è melancolica. Ma una vita che nemmeno una volta fa memoria di questa irrealizzata possibilità è senza consolazione alcuna.
L’amore di queste canzoni non è un mezzo di salvezza, esso non promette alcuna redenzione. In questo senso non è religioso. Esso ammalia, ma non ha alcun potere. Viene distrutto dove regna la violenza, estraniazione e cosificazione. L’amore rende semplicemente la vita assoluta, trasformandola in se stesso: She’s an artist… / She can take the dark out of the nighttime / And paint the daytime black. Nella misura della fascinazione provata attraverso un’altra persona, l’amore carica la semplice realtà con un significato assoluto, con il significato dell’assoluto. Burnside chiama tutto ciò con un’antica parola scozzese: Glamourie. Solo nella sua luce che non abbaglia accecando, ma è ardentemente oscura, diventa pienamente visibile la posta in gioco. Per questo le canzoni d’amore di Dylan sono spesso delle apocalissi, e tutte le sue apocalissi sono canzoni d’amore. L’amore non può essere messo da parte, non ci si può sottrarre a esso: dall’amore non ci si libera mai.
Le apocalissi di Dylan
E così il canone dei concerti chiude con Love Sick (1997). Una canzone che ha tutta una sua storia. Infatti, Dylan l’ha resa disponibile per la campagna pubblicitaria di Victoria’s Secret (2004), apparendo lui stesso nel video clip girato nel piano nobile completamente vuoto di un palazzo veneziano e nelle ombre di un freddo cielo della Venezia invernale. Girandosi mentre cammina, Dylan concede alla modella di bellezza angelica uno sguardo che dire scettico è poco. Nei concerti, la versione dell’album intessuta sulla retro-acustica di Daniel Lanois, viene modificata e sviluppata seguendo il filo di una tempesta rock attraverso un assolo di chitarra ripreso da Crazy Horse di Neil Young. Questo grazie al lavoro di spalla da parte della band di Dylan, ma come suo scintillante spazio interno. Quello che ne viene fuori è il peso massimo dell’amore. Fa sprofondare, incanta, non lascia via di scampo. Il nocciolo duro della nostalgia d’amore risuona nello spazio costretto del ritornello: sick of love – love sick – in the thik of it. Chi ama è preso nel profondo, nella vita. Amare è essere vivi in maniera insalvabile.
Potrebbe essere il messaggio, la notizia, secondo i canoni del Rock’n’Roll di un vecchio. Vacilla, si muove lemme lemme e si dimena come ha sempre fatto. Così alla fin fine si presenta al suo pubblico: statuario e inafferrabile – come lo sono tutti gli uomini, come lo è il mondo. Forse a partire da questo uso del linguaggio dell’amore potrebbe riuscire a Dylan ancora una volta una ripresa delle sue canzoni esplicitamente religiose. Alcune di esse avrebbero meritato una riscoperta, e potrebbero apportare riflessi di un timbro inedito e fresco alle canzoni di questo nuovo canone di un amore assoluto – di amore dell’assoluto.