Corpus Domini: amico, cibo, riscatto e premio

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In una strofa dell’inno di Lodi composto per la solennità del “Corpus Domini” possiamo trovare concentrati i momenti cardine di un’intera cristologia.

Se nascens dedit socium,

convescens in edulium,

se moriens in pretium,

se regnans dat in premium.

Nacque, e si fece amico,

si diede a mensa in cibo,

morì, e pagò il riscatto,

regna, e si dona in premio.

Quattro versi per condensare in alcuni passaggi essenziali i momenti cardine di un’intera cristologia: è un altro esempio di quella ricchissima capacità di concisione che fa lo splendore degli antichi inni latini.

Continuo a credere che la frequentazione di questi testi abbia, tra gli altri effetti, quello di aiutarci a ricuperare, in una cultura dello sproloquio e dello scialo verbale, la densità di senso che è messa in risalto, tra l’altro, dalla parsimonia nell’uso delle parole.

Una sintesi della vita di Cristo

Per dire tutto subito, abbiamo in questa strofa, tratta dall’Inno di Lodi della festa (Verbum supernum prodiens), una sintesi della vita di Cristo, che dà il significato di ciò che essa fu per lui e, insieme, marca gli straordinari effetti che essa ha avuto e ha per noi.

Su tutto, e come cuore di tutto, sta l’intuizione dell’innografo che riallaccia le quattro tappe del cammino a un solo verbo, se dedit, traduzione letterale della parola che riassume il senso del gesto di Gesù nell’ultima cena: «Questo è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22,19; 1Cor 11,24)! Questa è la storia.

Con la stessa genialità, ma con un mutamento temporale significativo, ci viene detto però, alla fine, che questa è storia non solo di ieri, ma anche di oggi e di domani, perché il se dedit, si diede, diventa nell’ultimo verso se dat, si dà, si dona.

Il linguaggio classico della teologia esprime le verità riassunte nella strofa con i termini ben noti di incarnazione, redenzione, salvezza, e simili, che formano la trama di corposi volumi, e che sono entrati anche nei catechismi. Resta la sensazione, sempre più crescente, che questo linguaggio, perfetto in rapporto al dogma, lasci una certa impressione di astrattezza e di lontananza da ciò che costituisce l’ordinario della vita.

Le parole dell’inno trasmettono, invece, una musica fatta tutta di concretezza, resa con immagini del tutto ordinarie, quasi a dire che incarnazione e redenzione calano nella logica paradossale del Verbo che si fa carne. L’inno parla di nascita e di morte, di un mangiare insieme, di un regnare che consiste nel distribuire premi! Ed è un trionfo di “relazioni” che si stabiliscono attraverso queste esperienze di vita.

Non è descritto qui un Gesù che sta, alto e immenso, nel centro dell’universo e della storia, quello che si materializzava nella figura del Pantocrator che dominava le absidi del primo millennio.

La festa del Corpus Domini nacque a metà del Duecento, un tempo in cui raggiunge il suo culmine quella che si chiama tradizionalmente “pietà affettiva”, dove al centro si pone l’umanità di Gesù, e che ha in sant’Anselmo d’Aosta, san Bernardo e i cistercensi, san Francesco e san Bonaventura, le figure di maggior spicco.

Se è vero che i testi per l’ufficio del Corpus Domini li ha composti Tommaso d’Aquino, l’inno dimostra che anche il più grande speculativo del medioevo viveva dentro l’atmosfera spirituale del suo tempo. Semmai, la leggendaria lucidità intellettuale di Tommaso risplende nella mirabile precisione e concisione del linguaggio da lui usato, peraltro in continuità con i capolavori dei secoli V-VI, l’età d’oro della creazione liturgica.

Le figure di una cristologia pregata

Amico. L’inizio della storia è naturalmente la nascita, ma da subito si sottolinea qual è il senso profondo di questo ingresso del Figlio di Dio nella povertà della carne: diventare “amico” (socius) dell’umanità.

Anche se l’inno più avanti, parlando della morte di Gesù come “prezzo”, offre un’eco precisa della teologia classica della “redenzione” (termine che significa “ricomprare”, o riscattare da una condizione di schiavitù creata dal peccato), pare di ritrovare nel linguaggio dell’inno qualcosa che rimanda alla teologia di Duns Scoto e della scuola francescana, secondo la quale, anche se Adamo non avesse peccato, Dio si sarebbe incarnato lo stesso semplicemente per amore dell’umanità, quel Dio che Caterina da Siena chiamerà nel Dialogo philocaptus, catturato da un bisogno di amicizia, quasi a dilatare all’infinito la relazione che circola nella vita trinitaria.

E allora ci si ritrova perfettamente, anche solo a partire da una sola parola, socius, in quella che si chiama “teologia della solidarietà” che sembra esprimere meglio e in modo più completo il significato dell’incarnazione di quanto non faccia il termine “redenzione”, che non è escluso, ma “incluso” entro un orizzonte più ampio, quello di Cristo “primo, saldo, ultimo amico” (G.M. Hopkins).

Cibo. Con perfetta coerenza la cosa risalta nel secondo verso, in cui tutta la vita pubblica di Gesù è raccolta nel verbo convescens, che significa “mangiare insieme”, e che evoca la comunità della mensa, quella dell’Ultima Cena, certo, ma – non lo si dimentichi – rimanda a tutte le altre volte, e sono tante, in cui Gesù è descritto seduto a tavola, e per di più, e non di rado, anche con gente poco raccomandabile.

Corpus DominiRicordo di aver letto tanti anni fa un bel libro di Hamman che descriveva il senso “sociale” (da socius, si ricordi) dell’eucaristia analizzando tutti i racconti evangelici che mostrano Gesù a mensa. Non a caso, e non per niente, fu accusato di essere “mangione e beone” (Mt 11,19, Lc 7,34). Peraltro, e non a caso, proprio tale accusa, insieme a quella di “accogliere i peccatori e di mangiare con loro” (Lc 15,2), ha fruttato due passi mirabili: la teologia della convivialità, come luogo di accoglienza ed esperienza di misericordia (Mt 9,10-13), che si visualizza e si arricchisce emotivamente nelle tre splendide parabole di Luca 15: il ricupero della pecora, della dramma, e del figlio che erano stati perduti e che sono ritrovati: questa è la “salvezza”. Tutto sta nel paradosso di un commensale che diventa, nello stesso tempo, il cibo!

È la logica di Gesù. La compagnia di un Dio amico si esprime primariamente nel dono di sé. Il “consegnarsi”, il darsi, ostinatamente rimarcato nei quattro versi dell’inno, è, alla fine, il mezzo più vero, più profondo, più efficace, di creare una comunità di fratelli, in cui, condividendo il cibo, si diventa “cibo” gli uni per gli altri, nel senso che ci si fa, gli uni per gli altri, nutrimento, fonte di gioia, compagni contro la solitudine, sostegno nelle difficoltà. Così la compagnia di Dio ci educa a fare compagnia tra di noi.

Riscatto. Che poi il consegnarsi significhi un po’ “morire” è solo nella logica delle cose. Non è il caso di ripercorrere un tema che sta nel cuore stesso del vangelo, quello che si esprime nei ben noti paradossi secondo cui chi perde la vita in realtà la trova (cf. Mc 8,35), chi dona in realtà riceve e, alla fine, vive davvero chi è capace di morire, a se stesso, alla legge dell’egoismo e del proprio esclusivo interesse. Che è poi quanto ha detto lo stesso Gesù: «Non c’è amore più grande di chi dona la vita per i propri amici» (Gv 15,13), e tutto dunque si collega perfettamente. Ma l’inno precisa che questa morte è un prezzo di sangue, un prezzo grande (cf. 1Pt 1,18.19) che scioglie un debito contratto con la colpa dell’umanità. E questo è fuori discussione.

Il punto, semmai, è di agganciare a noi il gesto di Gesù, e farne non tanto, o non soltanto, un gesto compiuto solo da lui, e una volta per tutte. Noi siamo chiamati a entrare nella stessa logica, a “darci” in riscatto anche per colpe che non sono nostre. È la spiritualità della riparazione, che rimette in sesto il mondo, profondamente collegata alla devozione al Sacro Cuore.

Premio. Questa storia in quattro tappe sfocia, e non a caso, in un premio. Dopo aver condiviso con Gesù la nascita, la mensa e la morte, siamo chiamati a condividere con lui il regno. Si è già notato che nella lingua dell’inno questo premio non è solo da attendere in pienezza per il futuro, ma è guadagno che si ottiene già adesso: “si in premio”! Quale? La bellezza e la gioia del dono di sé.

Credo, in proposito, che la formula della consacrazione nella traduzione italiana andrebbe rivista. Il dire “questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi” è una parafrasi che, se specifica, riduce di fatto il senso dell’espressione usata da Gesù. Il termine sacrificio, assente nel testo evangelico, rischia di concentrare l’attenzione sulla croce e sulla sofferenza, che è solo la metà del senso contenuto nel verbo “darsi”, peraltro tradotto alla lettera in altre liturgie. Tale scelta è forse l’eco di polemiche sorte al tempo della Riforma, che continuano nel binomio “croce/mensa” percepito come contrasto che affligge dall’inizio la riforma liturgica.

Il linguaggio del sacrificio come fine a se stesso è monco, e risulta di difficile comprensione. Per il vero, opporre mensa e croce è alla fine solo fuorviante! L’inno ha già risposto al problema: Gesù, dandosi, “a mensa si fa cibo”! Si tratta, alla fine, di ricuperare tutta la ricchezza di un solo verbo, darsi, nelle sue quattro varianti.

 

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