Non è un caso che il cuore della manifestazione sindacale di Reggio Calabria (sabato 22 giugno) – si potrebbe anzi dire del ritorno del sindacato dopo un lungo periodo di assenza – sia da rinvenire nel tema dell’unità del paese minacciata dall’insidia della così detta autonomia differenziata, conosciuta altrimenti come quell’oggetto misterioso che ha attraversato due legislature e tre governi per approdare a un documento del quale ora il deputato Fassina in una lettera aperta chiede di conoscere il testo.
La vicenda è lunga e controversa con interpretazioni cangianti con il variare delle congiunture politiche. Ai tempi della febbre secessionista della Lega di Bossi (quella dell’indipendenza della Padania), quando si chiedeva il distacco globale delle regioni del Nord, ai referendum dell’ultima fase, quando, lavorando di cesello sui quesiti, i popoli della Lombardia e del Veneto (con il complemento dell’Emilia-Romagna) enuclearono tre piattaforme di autonomia che trovarono il placet dei governi Gentiloni e Conte e l’aggiunta politica di un Piemonte ultimamente sottratto alla sinistra.
Lega nazionale e referendum territoriali
Pochi ricordano che in un passato alquanto remoto, ai tempi di non so quale governo Berlusconi i due esponenti del Nord (Bossi) e del Sud (Fini) si erano incontrati dalle parti di Teano (come Garibaldi e Vittorio Emanuele II) per proclamare reciprocamente il rispetto dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. In effetti, durante quel periodo una sorta di tregua si era stabilita tra la tensione secessionista della Lega e la tensione unitaria del resto delle forze politiche bastando alla Lega l’appagamento di alcune esigenze simboliche come l’apertura nel parco di Monza di un pied à terre in cui Bossi e Calderoli esercitavano (o dicevano di farlo) le proprie funzioni di ministri in una posizione per così dire de-localizzata rispetto al potere centrale.
Era parso ai più che l’avvento di Salvini alla “capitaneria” della Lega con l’affermazione di una vocazione decisamente nazionale, competitiva con le spinte de la patrie lepenista e del sovranismo orbanista, avrebbe, da un lato, rafforzato le tendenze unitarie e, dall’altro, depotenziato gli impulsi centrifughi. Ma cosi non è stato. Anziché dal centro, le domande di autonomia partivano stavolta dalla periferia e attaccavano su un punto debole della coscienza leghista sotto le specie di un quesito referendario che interpellava decisamente la pancia dell’elettore: vuoi tu che gli introiti delle tasse del tuo territorio rimangano sul tuo territorio regionale anziché affluire al centro per essere ripartiti sotto forma di servizi ai cittadini? Se si comparano i risultati dei referendum con i voti raccolti dalla Lega nelle regioni interessate non ci vuole molto a concludere che la simmetria è forte quanto le motivazioni sottostanti. Né pare sufficiente la capacità di resistenza del Salvini unitario, ammesso che voglia spenderla per un’impresa di contrasto al ritornante separatismo.
Dai referendum in qua, sono intervenute, tra il governo Gentiloni e le tre regioni referendarie, alcune pre-intese che però sembrano destinate ad essere travolte da due successivi passaggi sotto l’attuale governo. Questo almeno è il timore delle forze di opposizione e dei sindacati.
Il Sud e il parlamento
Ma soprattutto si teme che si vada alla spartizione delle risorse senza prima aver stabilito i livelli essenziali di assistenza, il che comporterebbe, ad esempio, la creazione di tanti sistemi sanitari quante sono le regioni con naturalmente una differenziazione di prestazioni tra gli uni e gli altri che menomerebbe non tanto il principio dell’unità nazionale quanto il principio dell’eguaglianza tra le persone sancito dalla Costituzione.
A questi criteri si rifanno i sindacati i quali possono dire di essersi sempre battuti per affermare l’uguaglianza tra i cittadini in tutti i settori del welfare, compresa anche l’assistenza oltre il sistema pensionistico e la sanità. L’idea di un’Italia formalmente unitaria ma divisa su campi essenziali dalla gestione sociale preoccupa e si presta ad una domanda molto esigente: non siamo stati troppo indulgenti quando invece bisognava resistere di più? Con la variante: che non sia troppo tardi?
Negoziati sono in coso tra i vertici del governo e vertici delle regioni che sono, in effetti, secessioniste. Per un verso è troppo e per un verso è troppo poco. Bisogna chiamare in causa anche le regioni che non hanno fatto i referendum. In una parola, il Mezzogiorno e il Parlamento come la sede in cui l’unità nazionale è rappresentata a tutto tondo.
Ripartire dalla Calabria può essere stato il primo passo. Un passo giusto. Ma bisogna che altri ne seguano anche per superare il periodo di “stanca” che ha contraddistinto la presenza sindacale negli ultimi mesi. A Reggio si è minacciato lo sciopero generale. È un’arma scarica se non la si usa. Il sindacato deve prendere coscienza che molto del futuro del paese può tornare ad essere nelle sue mani.