Nel mondo religioso cattolico si è iniziato a parlare, già da molti anni, di secolarizzazione. La riflessione era dettata da constatazioni oggettive: allontanamento dalla fede, mancanza di frequenza religiosa, non ricezione dei sacramenti, scarsezza delle vocazioni. La stessa esperienza di periferia (nelle parrocchie) suggerisce il cambiamento radicale che appare irreversibile.
Aggravandosi la situazione, la domanda logica è stata chiedersi: che cosa è successo? perché l’indifferenza e il rifiuto della religiosità? E soprattutto come reagire?
Gli studi e le riflessioni sono stati molti: di tipo sociologico, filosofico, etico, pastorale, basate anche su ricerche statistiche. Naturalmente nessuna ricerca statistica può determinare la qualità della “fede”; si misurano le condotte esterne, che presumono, anche se non determinano, la religiosità delle persone.
È rimasta celebre e diffusa la lettura del sociologo polacco Z. Bauman, recentemente scomparso, che ha scritto di «modernità liquida», alla quale ha fatto seguito una «vita liquida».
Secondo il sociologo, nella cultura di liquidità tutto è praticamente possibile. Se tutto è possibile, ne consegue che nulla è certo, da cui la paura diffusa. Le persone oggi vanno alla ricerca di punti fermi, che purtroppo non trovano. Non trovando una via d’uscita non sanno immaginarsi il futuro per sé e per l’umanità.
Filosoficamente, è stato fatto notare che l’allontanamento dalla religiosità è iniziato già da vari secoli. L’inizio è stato individuato in Cartesio, con la celebre formula cogito, ergo sum: penso, quindi sono: la soggettività è l’unico bene al quale nessuno può accedere. Dio diventa un momento dell’attuazione di sé.
Nel corso dei secoli il soggettivismo è diventato il criterio della lettura e dell’interpretazione del mondo. Da cui l’autonomia politica, morale, religiosa. La religiosità viene relegata nella sfera privata, con sintesi personalizzate.
Anche l’approccio morale è stato individualizzato. Lo schema classico dei vizi capitali è ormai insufficiente. Sono stati enumerati, come esempi, nuovi vizi capitali: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego, vuoto.
Come si è reagito
Alle vicende del degrado religioso, una prima risposta cattolica è stata ridefinire la dottrina. A partire dagli anni ’80 una serie di Catechismi sono stati formulati da diverse Chiese d’occidente. Ricordiamo il Catechismo della Conferenza episcopale tedesca (1985); il Catechismo degli adulti della Conferenza episcopale francese (1982); il Catechismo della Chiesa italiana (1995). Nel 1992 era stato pubblicato il Catechismo della Chiesa cattolica voluto da Giovanni Paolo II (1992 – stesura definitiva 1997).
Per la verità, in anteprima assoluta fu pubblicato il Catechismo della Chiesa olandese (1966), sottoposto all’esame di una Commissione cardinalizia costituita da Paolo VI, con la richiesta di revisione su quattordici punti controversi.
Con stili e approcci diversi si pensò di riaffermare la dottrina per combattere la “deriva” che la società occidentale stava vivendo.
In periferia si è assistito allo svuotamento delle Chiese, all’allontanamento dai sacramenti, alle convivenze, alle nozze civili, ai divorzi. La stessa organizzazione delle parrocchie ha subìto profonde revisioni: soppressione e accorpamento delle parrocchie, abbandono di luoghi di culto. Vocazioni religiose scarse, abbandoni significativi.
Il sorgere dei movimenti ha in parte reagito a tale condizione, riservando spazi di riflessione e di nutrimento della fede, anche se non hanno invertito la tendenza della cultura dominante, estranea alla fede.
Resistono tradizioni popolari, purché accompagnate da eventi che rendono le azioni liturgiche “appetibili”: processioni-passeggiate; messe in spiaggia all’alba, rievocazioni storiche; intercessioni che nascono da interessi profani (venerazione dei santi e della Madonna, venerdì di passione, giochi e benedizioni).
Gli studi teologici, biblici, morali, liturgici non hanno contribuito né alla lettura, né a visioni pastorali utili alla crisi religiosa: blindati nella dottrina, gli studiosi hanno continuato la ricerca, diventata sempre più appannaggio di pochi eletti. Lo stesso linguaggio, in alcuni passaggi di arrotamento, esige preparazione superspecializzata, né sempre comprensibile.
L’appello alle coscienze
Eppure la strada maestra rimane l’appello alla coscienza delle persone che, se imbrigliata nel quotidiano spesso insulso, problematico, a volte drammatico, conserva le domande della vita. La risposta è l’attenzione alla dimensione spirituale. Anche in contesti laici, indifferenti o semplicemente insignificanti.
La vita dell’anima è presente in tutti: a intermittenza, confusa, a volte forte a volte flebile.
Senza scomodare il cristianesimo, ogni persona vive la duplice componente di corpo e di spirito, di sensi e di anima. Le persone, al di là dei propri orientamenti, sentono questa duplicità che ha dei punti attrattivi e distruttivi. Non si vive solo di corpo, né di solo spirito.
Per una vita dignitosa occorre gestire sia il corpo che lo spirito. Il problema della cultura moderna, pur valorizzando la soggettività, ha squilibrato l’attenzione alla corporeità. Eppure la vita dei sensi è debole, perché soggetta al tempo e al logoramento.
È nella dimensione dell’anima che esiste il recupero della spiritualità. Non siamo ancora a livello della santità che presuppone fede, conoscenza e adesione. Ma nello sforzo di non farsi fagocitare dal “banale”: il giorno dopo giorno, inseguendo consumi e sogni più che valori.
La cultura dominante, oltre che liquida, è diventata bulimica: ossessione per alcuni interessi marginali, capaci di assorbire le migliori energie, senza tregua e senza fine: il lavoro, il divertimento, la ricchezza, il consumo, il potere, la visibilità, la notorietà. Obiettivi che, per definizione, non hanno termine, perché dipendenti dalle attese che si rinnovano all’infinito.
È una cultura globale, in termini spaziali e temporali: ovunque le stesse manie, anche in paesi non ricchi; nell’infanzia, nella giovinezza, nell’età matura.
La strategia utilizzata è preparare l’adulto ad avere una propria soggettività basata sul caduco, che, in termini pratici, parte dalla ricchezza e arriva al consumo. Un materialismo onnipresente e invasivo. Persino la ricerca scientifica e l’arte ne dipendono.
Una linea di speranza
Nonostante questo il futuro non è buio. Una linea generale di speranza è stata suggerita dall’esortazione di papa Bergoglio Gaudete et exsultate del 19 marzo 2018.
Un documento che non ha avuto grande risalto né presso l’informazione generalista, né preso il mondo cattolico, probabilmente perché il tema della santità è “incomprensibile e inarrivabile” per i più.
Invece, è un testo che valorizza la dimensione dello spirito, nel quotidiano, presso il popolo, nella linea teologica che il papa segue.
La santità diventa il parametro di chi sta accanto e segue la vita fatta di equilibrio e di buone pratiche che non escludono lo spirito, né le incombenze della vita ordinaria.
Volendo indicare le vie pratiche di risposta alla secolarizzazione, si potrebbe pensare a due grandi filoni: l’ascesi e le azioni di carità. Ciascuno seguendo la propria indole, ma anche mischiandole nella vita concreta.
L’ascesi è lo sguardo a Dio, confortati dallo spirito; le azioni di carità impegnano a non sentirsi soli nel mondo e nella Chiesa, attenti ad usare misericordia e cura di sé e di chi si incontra.
In fondo, la santità – di cui noi tutti abbiamo paura – è l’avvicinarsi alla dimensione dell’anima, favorendo tutti i buoni sentimenti che sorgono quotidianamente, approfondendone i significati, collegandoli al senso profondo della vita. Nella vita di ascesi vanno a confluire tutte quelle virtù – le beatitudini – di cui parla il Vangelo che sembrano difficili, ma che in realtà, invochiamo costantemente da chi incontriamo. Così si scopre la grandezza di Dio, la sua misericordia e il suo perdono. In un percorso che accompagna le varie età della vita, senza ansie della perfezione e del martirio.
La vita quotidiana con l’occhio all’anima è vissuta attenuando pretese, rancori, sciocchezze, superfluo. Diventa una vita più libera, perché rende più vera l’esistenza, accettandone i limiti e le prove.
Le opere di carità di cui parla il capitolo 25 di Matteo contribuiscono a sentirsi utili, a non chiudersi in se stessi, a non proclamarsi imperatori o imperatrici. Anzi, facendo del bene si è più felici e… più soddisfatti. L’altro non è un nemico ma un amico, anche se non sempre facile e riconoscente. Anche lui ha un’anima. Aiutandolo a scoprirla, vivrà meglio.
Il comandamento centrale del cristianesimo, ama Dio e il prossimo, si può concretizzare alla portata della propria vita, senza paura di sconfitte e di inadempienze.
Viene in mente la discussione tra Marta e Maria alla visita di Gesù, raccontata da Luca. Erano sorelle, ambedue discepole di Gesù, insieme al fratello Lazzaro. Ognuno rivendicava una parte della propria devozione al Maestro. Marta accudendo alle cose pratiche; Maria ascoltando le parole di Gesù.
Sarebbe molto bello che nella vita riuscissimo a fare sintesi: ascoltare il Signore, accudendo chi ci è accanto.