Per tre volte nel Vangelo di Luca vengono richieste a Gesù indicazioni riguardo all’eredità. “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna” – chiedono, prima un dottore della legge (Lc 10,25), poi un notabile (Lc 18,18). Ad ambedue Gesù risponde spiegando dettagliatamente quali sono le condizioni per aver parte a quest’eredità.
In un dialogo con i discepoli egli stesso introduce il discorso sull’eredità eterna: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).
La terza richiesta è quella che viene riferita nel Vangelo di oggi. Due fratelli che non riescono a mettersi d’accordo.
Si noti il fatto curioso: l’eredità dovrebbe essere divisa, invece è lei a dividere.
Il tranello in cui il denaro trascina chi non è più che avveduto è subdolo. Ti porta dove vuole, programma al posto tuo, ti separa dagli amici, divide la tua famiglia, ti fa dimenticare anche Dio. Soprattutto ti inganna perché espelle dalla tua mente il pensiero della morte.
In passato la morte era agitata come uno spauracchio. Oggi siamo in presenza del fenomeno opposto, ma ugualmente deleterio: si cerca di far dimenticare che nel momento stesso in cui si comincia a vivere si comincia anche a morire.
L’insensatezza, l’ottundimento provocati dal denaro sono facilmente rilevabili nel fatto che, proprio in presenza della morte (la divisione di un’eredità ha luogo dopo un decesso), la cupidigia fa rimuovere il pensiero della morte.
Gesù non ha mai disprezzato i beni di questo mondo, ma ha messo in guardia dal pericolo di divenirne schiavi.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Insegnaci, Signore, a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”.
Prima Lettura (Qo 1,2; 2,21-23)
2 Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.
2,21 Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.
22 Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? 23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!
Attorno al 220 a.C. vive a Gerusalemme un uomo saggio. Viene chiamato Qoèlet, cioè colui che riunisce l’assemblea. Il suo profilo è così descritto nell’epilogo del libro: “Qoèlet, oltre a essere saggio, istruì continuamente il popolo; ascoltò attentamente e indagò, compose molti proverbi; Qoèlet cercò di usare parole gradevoli, riuscì a esprimere la verità” (Qo 12,9-10).
Vive in un tempo caratterizzato dal benessere e dal fiorire di una notevole attività economica. Ovunque si incontrano commercianti stranieri, si trafficano schiavi, bestiame, oro, perle preziose, resine profumate dell’Oriente, l’incenso amaro dell’Arabia. Molti israeliti si lasciano affascinare dalla possibilità di arricchire, si appassionano alle nuove mode, aderiscono ai nuovi costumi, non pensano che al denaro e arrivano persino a rinnegare la fede e a dimenticare la pratica religiosa.
È un delirio collettivo, una corsa sfrenata e insensata all’accumulo dei beni.
Il Qoèlet – saggio qual è – osserva con attenzione e distacco questo affaccendarsi concitato, riflette e si chiede: ne vale la pena o è tutto un “rincorrere il vento” (Qo 2,11)?
Fin dall’inizio del suo libro enuncia la risposta a questo angosciante interrogativo: “Tutto è vanità” (v.2). E ripete questa triste e amara conclusione come un ritornello per 25 volte.
Qoèlet conosce gli avvenimenti storici accaduti un centinaio di anni prima, avvenimenti che hanno sconvolto il mondo. Dario, il re di Persia, onnipotente e immensamente ricco, è stato umiliato da Alessandro. Costui a sua volta, a soli trentatrè anni, è morto a Babilonia e il corteo funebre che lo ha accompagnato in Occidente ha rifatto in senso inverso la strada che l’invincibile conquistatore aveva percorso trionfalmente solo pochi anni prima. Che è rimasto di Alessandro e del suo regno?
Gli uomini cercano i piaceri più vari e raffinati, bramano le ricchezze e aspirano alla considerazione sociale, tentano di perpetuare la loro presenza nel mondo attraverso i figli, lottano e uccidono per raggiungere il potere. La conclusione è sempre la stessa: alla fine, indistintamente, vengono spogliati di tutto.
La lettura di oggi propone la riflessione del Qoèlet sull’accumulo dei beni: “Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni ad un altro che non vi ha per nulla faticato”. Non è questo vanità e grande sventura? (v.21).
Più avanti riprenderà il tema è concluderà: “Come è uscito dal ventre della madre, nudo, così se ne andrà di nuovo, come è venuto; non si porterà via nulla del lavoro delle sue mani. Anche questo è molto doloroso: come è venuto così se ne andrà. E che vantaggio avrà chi ha lavorato per il vento?” (Qo 5,14-15).
Che fare allora? Smettere di lavorare, non impegnarsi più? Mangiare, bere, divertirsi e non pensare ad altro?
Il Qoèlet consiglia ai suoi discepoli un sano godimento di quanto la vita offre. Lascia però sospesi gli interrogativi fondamentali sul senso della vita. La risposta non si trova nel suo libro, ma nel Vangelo. Sarà Gesù a spalancare nuovi orizzonti, a insegnare a non agitarsi per le vanità, per non inseguire il vento.
Seconda Lettura (Col 3,1-5.9-11)
1 Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; 2 pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. 3 Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! 4 Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.
5 Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria.
9 Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni 10 e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. 11 Qui non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.
“Cercate le cose di lassù… pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”. Sembra un invito a disprezzare questo mondo ed a disinteressarci dei problemi materiali per rivolgerci solo al cielo.
Per capire questa esortazione bisogna tenere presente che Paolo sta parlando del battesimo. Mediante questo sacramento – dice – il cristiano è morto alla vita antica, è risuscitato con Cristo e con lui ha iniziato una vita completamente nuova (vv.1-4). “Rinunciare alle cose di quaggiù” significa farla finita non con la realtà di questo mondo, ma con quella parte di uomo che appartiene alla terra: “Fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia insaziabile che è idolatria” (v.5).
Riprende poi lo stesso pensiero con un’altra immagine: quella del vestito. Il cristiano si è spogliato dell’uomo vecchio e si è rivestito dell’uomo nuovo (v.10). Come mai allora, anche dopo il battesimo, verifichiamo ancora tante miserie e tante debolezze? Perché – continua Paolo – in noi l’uomo nuovo “si rinnova, per una piena conoscenza, a immagine del suo Creatore” (v.10). Che strana espressione: l’uomo nuovo che si rinnova! Che significa?
Nel battesimo il cristiano è stato, sì, rivestito dell’uomo nuovo, porta già impressa in sé l’immagine del Creatore, ma questa somiglianza non si è ancora manifestata pienamente. È ancora ricoperto da tante impurità da rendere poco riconoscibile in lui il volto del Padre. Solo quando si sarà lasciato ripulire dalla sua vita antica, dalle sue abitudini pagane, solo allora apparirà l’uomo nuovo.
È un invito a non scoraggiarsi. Paolo lo rivolge al cristiano consapevole di essere ancora lontano dalla somiglianza con il Padre. È nuovo, ma “sta ancora rinnovandosi”.
Vangelo (Lc 12,13-21)
13 Uno della folla disse a Gesù: “Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”. 14 Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. 15 E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni”.
16 Disse poi una parabola:
“La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto.
17 Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? 18 E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19 Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia.
20 Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? 21 Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.
Malgrado qualche bisticcio, tra fratelli, in genere, ci si vuole bene. Fino a quando? Fino al giorno in cui non si è chiamati a dividere l’eredità. Di fronte al denaro e ai beni, anche gli uomini migliori, anche i cristiani finiscono spesso per perdere la testa e per divenire ciechi e sordi: non vedono che il proprio interesse e sono disposti a passare perfino sopra ai sentimenti più sacri. A volte, con l’aiuto di qualche amico saggio, le parti riescono a mettersi d’accordo, altre volte invece l’odio si protrae per anni e i fratelli arrivano a non parlare più tra loro.
Un giorno Gesù viene scelto come mediatore per risolvere uno di questi contrasti familiari (v.13). In casi del genere, un suggerimento, un buon consiglio non viene negato a nessuno. Ecco invece la risposta sorprendente del Maestro: “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (v.14). Probabilmente non siamo d’accordo con lui. Perché si tira indietro? Vuole forse insegnare a non dare valore alle realtà di questo mondo? Invita a rifuggire dai problemi concreti della vita? Raccomanda di tollerare le sopraffazioni dei più arroganti? Non può essere. Una scelta simile sarebbe contraria a tutto il resto del Vangelo. Vediamo di capire meglio.
La situazione di fronte alla quale è posto si è creata perché uno ha tentato di commettere un’ingiustizia e l’altro sta rischiando di subirla. Che fare?
Si possono adottare varie soluzioni: inventarsi una scusa per sfuggire all’intricata questione, oppure appellarsi alle norme vigenti che, al tempo di Gesù, sono quelle stabilite in Dt 21,15-17 e in Nm 27,1-11. Non c’è che da applicarle al caso concreto, dopo averle filtrate, se necessario, attraverso un minimo di buon senso. Questa sarebbe, probabilmente, la soluzione che noi avremmo adottato. Sembra la più logica e la più saggia, ma presenta un serio inconveniente: non elimina la causa da cui nascono tutte le discordie, gli odi, le ingiustizie.
Invece di risolvere il singolo caso, Gesù sceglie di andare alla radice del problema. “Attenti, – dice a tutti – tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (v.15).
Ecco additata la causa di tutti i mali: la bramosia del denaro, la volontà di arraffare cose. I dissensi sorgono sempre quando ci si dimentica di una verità elementare: i beni di questo mondo non appartengono all’uomo, ma a Dio che li ha destinati a tutti. Chi li accumula per sé, chi se ne accaparra più del dovuto, senza pensare agli altri, stravolge il progetto del Creatore. I beni non vengono più considerati doni di Dio, ma proprietà dell’uomo, da oggetti preziosi si trasformano in idoli da adorare.
Qui si nota veramente non il disprezzo di Gesù per i beni materiali, ma il suo distacco da questo mondo e la superiorità dei suoi progetti e delle sue proposte. È ben altra l’eredità alla quale egli si interessa. Egli ha in mente il Regno che verrà “ereditato” dai poveri (Mt 5,5), ha in mente – come dirà Pietro ai neobattezzati – l’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce (1 Pt 1,4).
Per chiarire meglio il suo pensiero racconta una parabola (vv.16-20), la cui parte centrale è costituita dal lungo ragionamento che il ricco agricoltore fa con se stesso.
Quest’uomo credo che ci risulti simpatico: si impegna, è previdente, ottiene ottimi risultati, è anche fortunato e benedetto da Dio. Non si dice che si è arricchito commettendo ingiustizie e furti: c’è da supporre che sia anche onesto. Raggiunto il benessere decide di ritirarsi per un meritato riposo: non progetta bagordi e dissolutezze, desidera solo una vita tranquilla, comoda e beata. Se in questa storia qualcuno si comporta in modo incomprensibile – direi quasi crudele – questi sembra essere proprio Dio. Dove ha sbagliato l’agricoltore? Come mai viene chiamato pazzo?
I personaggi della parabola sono solo tre: Dio, l’uomo ricco e… i beni. Quest’uomo – ci chiediamo – non ha famiglia, moglie, figli? Non ha vicini di casa? Non ha operai? Certo che li ha. Vive in mezzo alla gente, ma non la vede; per le persone non ha tempo, non ha energie da impiegare, non ha pensieri, non ha parole, non ha sentimenti. È interessato solo a chi gli parla di beni e gli suggerisce come accrescerli. Pensa ai raccolti, ai magazzini, al grano. Nella sua mente non c’è posto per altro, certo non per Dio. I beni sono l’idolo che gli ha creato il vuoto attorno, che ha disumanizzato tutto. Anche l’agricoltore, in fondo, non è più un uomo, è una cosa: è una macchina che produce e fa calcoli, è un registro di conti.
Nei suoi confronti sentiamo compassione perché è un pover’uomo, uno sfortunato, un pazzo, come dice Gesù. Qualcosa in lui si è rotto perché è senza equilibrio interiore, ha perso completamente l’orientamento e il senso della vita. Consideriamo il suo monologo: usa cinquantanove parole, di esse ben quattordini sono riferite a “io” e “mio”… Tutto è suo; esistono solo lui e i suoi beni. È pazzo.
Ma ecco comparire improvvisamente il terzo personaggio: Dio che, in quella stessa notte, gli chiede conto della vita. Non mi si chieda ora perché il Signore si comporta in questo modo, come mai è tanto “cattivo” e “vendicativo”.
Si tratta di una storia.
Dio – sia chiaro! – non fa queste cose. Gesù lo introduce nella parabola per mostrare ai suoi ascoltatori quali sono i valori autentici su cui vale la pena puntare nella vita e quali sono invece quelli effimeri e ingannevoli.
Il giudizio di Dio è pesante: chi vive per accumulare beni è un folle!
La ricchezza è dunque un male? Assolutamente no. Gesù non l’ha mai condannata, non ha mai invitato nessuno a gettarla via, ma ha messo in guardia dai seri pericoli che nasconde.
L’ideale del cristiano non è una vita miserabile.
Alla fine della parabola viene indicato qual è l’errore commesso dal ricco agricoltore. Egli non è condannato perché ha prodotto molti beni, perché ha lavorato, perché si è impegnato, ma perché “ha accumulato per sé” e “non si è arricchito agli occhi di Dio” (v.21). Ecco i due guai prodotti dall’accecamento dei beni.
Il primo: arricchire da soli, accumulare beni per sé senza pensare agli altri. La ricchezza deve essere aumentata, ma per tutti, non solo per alcuni. Incompatibili con il Vangelo sono la “cupidigia”, la “bramosia insaziabile del possesso”, i sentimenti ed i pensieri folli di chi, come l’agricoltore della parabola, ripete ossessivamente quel maledetto aggettivo: “mio”. Quando le energie di tutti gli uomini verranno impegnate per accrescere non il “mio” e il “tuo”, ma il nostro, allora saranno eliminate le cause delle guerre, delle discordie, dei problemi di eredità.
Il secondo guaio: aver escluso Dio dalla propria vita, sostituendolo con un idolo. Questa scelta porta alla “pazzia” e il sintomo più evidente è la rimozione del pensiero della morte.
Chi idolatra il denaro diviene un paranoico, non vive in un mondo reale, ma in quello che si è costruito e che immagina eterno; dimentica “la misura dei suoi giorni e quanto sia breve la vita”, non tiene presente che “solo un soffio è ogni uomo che vive, passa come ombra; è solo un soffio che si agita, accumula ricchezze e non sa chi le raccolga” (Sal 39,5-7).
Chi non possiede campi e non ha un conto in banca non è toccato da questa parabola? Gesù non mette in guardia chi ha molti beni, ma chiunque accumula per sé. Si possono avere pochi soldi e avere il “cuore da ricchi”.
Tutti devono tenere presente che i tesori di questo mondo sono infidi, non accompagnano nell’altra vita.
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