In un’intervista concessa da Cláudio Hummes a padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà cattolica (n. 8, maggio 2019), ora pubblicata integralmente anche sul mensile tedesco Stimmen der Zeit (n. 8, agosto 2019), il cardinale brasiliano ha parlato della “grandezza” di questo Sinodo che si celebrerà dal 6 al 27 ottobre prossimo. Ovvio quindi che nella Chiesa universale ci sia attesa, anche se qua e là non mancano resistenze, persino ad alto livello, come nel caso dei cardinali Ludwig Müller, già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e Walter Brandmüller.
La grandezza di questo Sinodo
Nell’intervista, il card. Hummes – presidente della Rete panamazzonica ecclesiale REPAM e relatore generale del Sinodo -– ha messo bene in risalto la posta in gioco di questa assemblea sinodale, che giustifica appunto le grandi attese.
«Abbiamo un grande bisogno – ha affermato – di nuovi cammini, di non temere la novità, di non ostacolarla, di non fare resistenza. Dobbiamo evitare di portarci appresso ciò che è vecchio, come se fosse più importante di ciò che è nuovo. Vecchio e nuovo devono coniugarsi, la novità deve rafforzare e incoraggiare il cammino. L’affermazione del Pontefice è molto forte: dobbiamo camminare e andare avanti, senza opporre resistenza (…).
Tante volte, ci preoccupiamo dell’eventualità di trapiantare i modelli dei sacerdoti europei nei sacerdoti indigeni. Ma qualcuno, a ragione, ha fatto notare che si attribuisce troppa importanza e priorità al profilo del ministro ordinato, anteponendolo alla comunità che deve riceverlo. Dev’essere il contrario: la comunità non è per il suo ministro, ma è il ministro per la sua comunità. Egli dev’essere adeguato ai bisogni della comunità.
Questo bisogno della comunità, forse, dovrà spingerci a pensare a ministeri differenziati a partire dal fatto che una certa comunità, in un posto specifico, ha bisogno di una presenza adeguata.
Non mettiamoci a difendere una sorta di figura storica a cui un ministro deve attenersi senza possibili variazioni, in modo che le comunità debbano accettarlo e tenerselo perché è così che noi glielo inviamo.
Sì, i ministri sono inviati, ma dobbiamo saper inviare, in modo da rispettare quella concreta comunità che ha necessità proprie e specifiche. Anche i ministeri vanno pensati a partire dalla comunità: dalla sua cultura, dalla sua storia e dalle sue necessità. L’apertura significa questo».
Ha quindi aggiunto: «La Chiesa indigena non si fa per decreto. Il Sinodo deve aprire la strada affinché sia possibile provocare un processo che abbia la sufficiente libertà e che riconosca la dignità propria di ogni cristiano e di ogni figlio di Dio. Ecco la grandezza di questo Sinodo. Il Papa sa quanto esso possa risultare storico per tutta la Chiesa. Ma la strada da seguire ci esorta a badare che non si riproduca e non si ripeta l’esistente».
Resistenze
Il cardinale ha parlato anche di resistenze che ci sono «sia nella Chiesa sia al suo esterno, ad esempio nei governi, nelle imprese e dappertutto. Dobbiamo discernere come comportarci davanti a queste opposizioni, sapere che cosa si deve fare… Gli interessi economici e il paradigma tecnocratico avversano qualsiasi tentativo di cambiamento e sono pronti a imporsi con la forza, violando i diritti fondamentali delle popolazioni nel territorio e le norme per la sostenibilità e la tutela dell’Amazzonia. Ma noi non dobbiamo arrenderci. Sarà necessario indignarsi. Non in modo violento, ma certamente in maniera decisa e profetica».
Ha ricordato quindi le continue violazioni dei diritti umani e la distruzione dell’ambiente, affermando che ci troviamo di fronte una situazione “drammatica”. «Peggio ancora – ha sottolineato – è che questi crimini rimangono per lo più impuniti».
Per questa ragione, nel Sinodo, oltre alla teologia e alla pastorale si dovrà trattare anche degli interessi degli indigeni, dei diritti umani e della difesa dell’ambiente.
Ha aggiunto anche che i nuovi bisogni pastorali dovranno spingere a pensare a ministeri differenziati a partire dal fatto che una certa comunità, in un posto specifico, ha bisogno di una presenza adeguata.
L’autodissoluzione della Chiesa
Duramente critico su questo Sinodo e le sue finalità è il card. Gehrard Ludwig Müller. In un libro, appena pubblicato, dal titolo Römische Begegnungen (Incontri romani) egli accusa papa Francesco di lavorare per la dissoluzione (Auflösung) della Chiesa.
«La secolarizzazione della Chiesa secondo il modello del protestantesimo non è il primo passo della sua modernizzazione, ma l’ultimo della sua autocancellazione (Selbstabschaffung)». Rimprovera anche al Vaticano di essere una cricca di potere e accusa il capo della Chiesa di sensazionalismo.
Müller mette in guardia la Chiesa da un orientamento verso lo «spirito del tempo» e «la tendenza dominante» (mainstream). Una «riforma della Chiesa – scrive – c’è solo attraverso un rinnovamento in Cristo». Ci vuole «più fede e testimonianza, meno politica, intrighi e giochi di potere». Critica anche la celebrazione fatta in Germania nel 2017 del giubileo 500 anni della Riforma. Il 1517 – afferma – non costituisce alcuna «ragione per giubilare».
Il cardinale ha denunciato i contenuti dell’Instrumentum laboris del Sinodo anche in un lungo articolo pubblicato sul Die Tagespost il 19 luglio scorso. Il tono caustico dell’articolo è così sintetizzato dal giornale nell’introduzione al testo: «Il cardinal Müller ha pubblicato una forte denuncia del contenuto, ne descrive la verbosità, le ambiguità, gli aspetti “autoreferenziali” che derivano dal progressismo tedesco, la piaggeria verso papa Francesco e gli errori che contiene. Più ancora, dopo qualche espressione cortese di pura formalità, segnala gli errori fondamentali, aberranti, scandalosi persino – per usare il tono della sua critica – e non esita a mettere in risalto la dimensione inquietante di un testo che si inchina davanti ai rituali pagani attraverso “una cosmovisione” con i suoi miti e la magia rituale di Madre Natura o i suoi sacrifici alle “divinità” e agli “spiriti”».
Ben diversamente parla il cardinale Hummes nell’intervista sopra citata: «L’inculturazione della fede e anche il dialogo interreligioso sono necessari a partire dal fatto indubbio che Dio è sempre stato presente anche nei popoli indigeni originari, nelle loro specifiche forme ed espressioni e nella loro storia. Essi già posseggono una propria esperienza di Dio, così come altri antichi popoli del mondo, in particolare quelli dell’Antico Testamento. Tutti hanno avuto una storia in cui c’era Dio, una bella esperienza della divinità, della trascendenza e di una conseguente spiritualità. Noi cristiani crediamo che Gesù Cristo sia la vera salvezza e la rivelazione definitiva che deve illuminare tutti gli uomini. L’evangelizzazione dei popoli indigeni deve mirare a suscitare una Chiesa indigena per le comunità indigene: nella misura in cui accolgono Gesù Cristo, esse devono poter esprimere quella loro fede tramite la loro cultura, identità, storia e spiritualità».
Il papa non può
Duramente critico verso il Sinodo anche il cardinale Walter Brandmüller. Per dare maggior risalto al suo pensiero ha scelto il prestigioso quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung (22 luglio 2019). È convinto che nel Sinodo per l’Amazzonia non si tratterà tanto della regione latino-americana e dei suoi problemi. Nessuno che osserva attentamente l’attuale situazione della Chiesa cattolica crede seriamente che l’incontro di ottobre «riguarderà realmente il destino delle foreste amazzoniche e dei loro abitanti, ma la messa in questione del celibato e una radicale ristrutturazione (Umbau) della Chiesa voluta da papa Francesco».
A questa insinuazione ha risposto il gesuita, esperto di problemi vaticani, Bernd Hagenkord. Secondo Brandmüller – ha affermato il gesuita – sarebbe da cancellare con un tratto di penna tutto il programma stabilito per «concentrarsi sui temi eterni (quelli di sempre, ndr), in particolare sulla difesa del celibato nella sua forma attuale». Nel suo intervento Brandmüller ha scritto infatti che il celibato è un «servizio al vangelo» e non può essere abolito da un «atto legislativo del papa o di un Concilio», poiché fa parte della Tradizione fondata sulla vita di Gesù e degli Apostoli.
Ciò che scrive Brandmüller, osserva ancora Hagenkord, mostra che «per lui le altre culture, i loro problemi e le loro preoccupazioni non sono importanti»; le sue argomentazioni non costituiscono affatto una «difesa della Tradizione», ma una «distruzione del dialogo». Papa Francesco con la sua enciclica Laudato si’ ha affermato chiaramente che la difesa dell’ambiente per i cristiani non è «un fatto opzionale».
Al cardinal Brandmüller «non interessano – ha aggiunto Hagenkord – le altre culture, le loro domande e preoccupazioni, fintanto che queste non rientrano nei suoi temi». «L’Amazzonia per lui sarebbe pertanto solo l’etichetta sulla bottiglia, ma lo spirito che c’è dentro è un’altra cosa, cioè la radicale ristrutturazione della Chiesa».
Il gesuita ha poi concluso: «Se la nostra risposta fosse solo andare a discutere sul celibato, per verificare chi è favorevole e chi contrario, mi sentirei depresso».
Maturata a lungo nel cuore
Le affermazioni di Brandmüller sono contraddette anche dal card. Hummes, sempre nella sua intervista, secondo cui al cuore del Sinodo si trova il problema della creazione di una Chiesa indigena. E ha spiegato bene cosa s’intende per Chiesa indigena:
«Noi sappiamo che ora è necessario un altro passo: dobbiamo promuovere e far crescere una Chiesa indigena per le popolazioni indigene. Le comunità aborigene che ascoltano e accettano il Vangelo in questo o quel modo, che accettano cioè Gesù Cristo, devono essere messe in condizione tale che la loro fede trovi la sua espressione culturale in un processo appropriato nella loro realtà tradizionale. Quindi, nel contesto della loro cultura e identità, della loro storia e spiritualità, una Chiesa indigena in cui possano emergere i suoi pastori e ministri, sempre in unità con la Chiesa cattolica universale, ma inculturata nelle culture indigene. Nella storia delle popolazioni indigene, si trovano numerose tracce di Dio. Dio è sempre stato presente nella loro storia. Dalla loro identità e cultura, si possono cogliere chiari segni della presenza di Dio. Questi popoli millenari provengono da una radice diversa da quella dell’Europa, ma anche da quelle dell’Africa, dell’India o della Cina. In mezzo alla loro identità e spiritualità, e sulla base del loro rapporto con la trascendenza, dobbiamo creare una Chiesa con un volto indigeno».
Hummes ha infine ricordato che l’idea di un Sinodo per l’Amazzonia è frutto di un’ispirazione che è maturata un po’ alla volta nella mente e nel cuore del papa: «L’idea di un Sinodo risponde a un sogno. Già nel 2015 il Papa cominciava a dirmi: “Sto pensando di fare una riunione con tutti i vescovi dell’Amazzonia. Ancora non so che tipo di riunione o di assemblea, ma penso che potrebbe anche essere un Sinodo”. Mi ha detto: “Preghiamoci insieme”, e ha cominciato a parlare con vescovi, con le Conferenze episcopali dei Paesi amazzonici, su come fare tale assemblea, e così in lui è andata maturando l’idea del Sinodo, finché infine esso è stato convocato nel 2017. Abbiamo lavorato molto per il Sinodo, e continueremo a farlo in questo servizio così importante per il futuro della Chiesa. Il Sinodo serve per trovare e tracciare nuovi cammini per la Chiesa».
Una cosa pertanto è certa: questo Sinodo sarà diverso dagli altri.