La trasfigurazione del Tabor è una “visita di Dio”, benefica e insieme transitoria, una tappa che sorregge il cammino faticoso verso il Golgota.
Quando cor nostrum visitas,
tunc lucet ei veritas, mundi vilescit vanitas, et intus fervet caritas. |
Gesù, quando ci visiti,
risplende al cuor la verità, sfuma mondana vanità, e ferve in noi la carità. |
L’ufficio della festa della Trasfigurazione adotta alcune strofe di un inno tra i più belli e caratteristici creati nel XII secolo, lo Iesu dulcis memoria, che pare provenga da ambienti cistercensi, e che il p. Charles Dumont ritiene di poter attribuire con buoni argomenti ad Aelredo di Rievaulx.
Verità, vanità, carità
La strofa che si è scelto di commentare ha una struttura trasparente, centrata su un verbo – visitare –, la cui azione produce tre effetti interconnessi che riguardano realtà basilari: la verità, la vanità, la carità. Tutte e quattro le parole chiave sono legate da una rima ricca, -itas, che enfatizza la forte connessione che le rende interdipendenti, anche se non allo stesso modo. Verità e vanità sono due realtà che si oppongono nettamente, tanto che dove c’è l’una non ci può essere l’altra, come scrive Isacco della Stella: «L’uomo non potrà in alcun modo accedere alla luce della verità se non si allontanerà dalle tenebre della vanità» (sermone 28,18).
La carità poi nasce dal crescere nella verità e dal ridurre la vanità. La posizione della vanità tra la verità e la carità, inoltre, in qualche modo mostra che, ove scompaia la vanità, inghiottita per così dire dalle altre due, da una parte, si illumina la verità e, dall’altra, può meglio ardere la fiamma della carità.
Resta da segnalare quanto siano appropriati i verbi che specificano i diversi effetti della “visita” di Gesù: la verità splende, la vanità svilisce, la carità si accende. Diventa inevitabile, ancora una volta, ammirare la straordinaria capacità di una lingua, il latino, e di un’epoca, il medioevo, nel rendere concetti vastissimi con un’essenzialità stupefacente.
Penso che la scelta di parti di questo inno per la festa della Trasfigurazione sia dovuta, almeno se si considera questa strofa, alla percezione dell’evento del Tabor come di una “visita” di Dio, termine ricorrente che così qualifica le tante teofanie che percorrono la Scrittura.
L’idea stessa di visita traduce non un semplice e rapido transitare ma, più spesso, implica un desiderio di passare del tempo assieme, e questo ha a che fare con la “relazione” come una comunione che ha bisogno di momenti di vera e propria convivenza, anche se lo stesso concetto di visita suggerisce che si tratta pur sempre di tempi brevi, quasi delle parentesi, ma che per la loro intensità hanno una forza di “presenza” che va ben oltre il tempo trascorso nel farsi visita.
Lo spiego con due riferimenti biblici. La nascita di Giovanni il Battista è salutata dal padre Zaccaria come un evento mediante il quale «Dio ha visitato il suo popolo», un segno che ne anticipa e suggerisce un altro ancora più grande, quando, nella nascita di Gesù, verrà a visitarci «dall’alto un sole che sorge»: due visite che manifestano nel concreto la misericordiosa tenerezza di Dio.
All’altro capo del discorso, due delle opere sulle quali verremo giudicati sono indicate come “visitare i malati, visitare i carcerati” (Mt 25,36): sono diventate la quinta e la sesta delle “opere di misericordia corporale”, e non è difficile vedervi il modo di trasferire nel nostro quotidiano i gesti di Dio, rendendo agli altri quello che noi per primi riceviamo.
Il primo riferimento dice che la visita di Dio produce un effetto benefico; il secondo aggiunge che, ad aver bisogno di tali visite, siano quelle di Dio o le nostre, le quali riflettono e prolungano quelle di Dio, hanno per destinatari persone in situazioni di debolezza, fisica (malati) o morale (i carcerati), essendo peraltro vero che corpo e anima vanno sempre insieme.
Rimanendo nel contesto della festa, la strofa dell’inno, tutto incentrato sulla “memoria dolce di Gesù” e sui suoi effetti, si rivela una scelta molto appropriata.
La trasfigurazione del Tabor è, in senso pieno, una visita di Dio, benefica e insieme transitoria, una tappa che sorregge il cammino faticoso verso un altro monte, il Golgota, e lo fa lanciando un messaggio che proietta la figura di Gesù oltre la morte e il sepolcro, la cui pietra verrà alla fine ribaltata, e per sempre.
Non ho marcato per niente il fatto che la visita, ogni visita, sia qualcosa di “transitorio”: non possiamo ottenerla su ordinazione, dobbiamo semmai impetrarla nella preghiera, e accoglierla con gratitudine, farne tesoro per gli effetti buoni che produce.
Tre effetti
L’inno ne segnala tre, che sono della massima importanza. Essi riguardano il discernimento e insieme il comportamento, e non a caso, perché il luogo dove avvengono le visite di Gesù è il cuore, nel senso biblico del termine, che vi vede il centro della persona, dove convergono giudizi e idee, sentimenti ed emozioni, luogo dove la libertà sceglie e decide.
Potremmo dire che il primo effetto della visita riguarda principalmente il soccorso che da essa ci viene in ordine a distinguere il vero dal falso, il consistente dall’inconsistente, la sostanza dalla futilità.
Si ricordi che il termine “verità” non andrebbe letto primariamente, meno ancora esclusivamente, come riferito alla correttezza di idee e concetti, ma piuttosto come espressione della consistenza dei valori. Il Gesù che ha detto «Io sono la verità» ha pure aggiunto «Io sono la vita», e le due espressioni sono alla fine sinonime, e proprio perché combaciano esse finiscono per incontrarsi nella terza affermazione: «Io sono la via» (Gv 14,6). In effetti, quando affermiamo che “una persona è vera!” vogliamo dire – credo – che una persona è valida, onesta, sincera, affidabile, tutte qualità che si riferiscono al suo modo di fare più che alle idee che ha in testa, che pure contano, beninteso, ma non sono l’aspetto decisivo.
Cosa significa allora che le visite di Gesù mettono in luce ciò che è vero, e denunciano la futilità di ciò che è vano? Nella perenne confusione che segna le nostre esperienze, le quali si muovono tra successi e fallimenti, scelte indovinate ed errori magari scoperti solo dopo, l’incontro con Gesù ci aiuta a far chiaro su ciò che vale davvero, e a difenderci dal fascino del nulla cui pure andiamo soggetti (Sap 4,12).
La saggezza emerge dal confronto costante tra quanto ci dice Gesù nelle Scritture, e quanto ci raccomanda l’esperienza con i sentimenti che l’accompagnano. La regola è antica: ciò che è vero può anche causare fatica e dolore ma, alla fine, produce gioia; ciò che è vano spesso offre un piacere immediato ma, alla fine, lascia un resto di scontento e di amaro. Gesù si trasfigura nel bel mezzo di un cammino di sofferenze che finirà in tragedia, ma quella sua visita è un accendersi di luce proprio dentro il buio, e tanto basta ai discepoli, che vi hanno visto «una lampada che splende in un luogo oscuro fino a che spunti la stella del mattino» (2Pt 1,19). Non ho ancora parlato della carità, ma me la cavo in fretta: senza la consolazione che viene dalle visite di Gesù è difficile sostenere a lungo la forza di amare!
Tre modi
Messi in chiaro i tre effetti, rimane da dire qualcosa sui modi con cui avvengono questa visite di Gesù, che passano di necessità da ciò che sperimentiamo, sia nelle avversità sia nelle prosperità. Aelredo di Rievaulx, in una lunga sezione dello Specchio della carità, offre tre immagini molto plastiche che dipingono la triplice funzione di queste visite: il pungolo, che sveglia chi dorme nell’accidia, nella superficialità o nello scoramento; il bastone, per sostenere il passo di chi è stanco di faticare per il bene ed è tentato di fermarsi; il letto, che offre riposo e ristoro a chi – e lo siamo tutti – ha bisogno di qualche gratificazione e consolazione per fare riserva di gratuità necessaria, da spendere quando la situazione lo richieda.
Se leggiamo tutto quanto ci accade come una visita di Gesù, abbiamo molti elementi per crescere in saggezza, cercando la verità, vincendo il fascino della futilità, e vivendo in carità.
Il verso vilescit mundi vanitas mi ha dato qualche problema. Il contesto medievale dell’inno potrebbe far pensare che il mondo in quanto tale sia tutto vanità: c’è in effetti una letteratura abbondante sul tema. E però non dimentichiamo che Dio ama il mondo e lo vuole salvo, che noi siamo “nel” mondo, e che nel mondo, e dunque in ciascuno di noi, coesistono verità e vanità, luce e tenebre.
Questo rende solo più necessario un costante lavoro di discernimento, per il quale sono di grande aiuto le visite di Gesù, che ci raggiunge, oltre che per diretta ispirazione, per molte altre strade: persone, incontri, avvenimenti, letture e quant’altro che la provvidenza mette sul nostro percorso.
Non si tratta dunque di avere uno sguardo negativo sul mondo, giudicandolo realtà scadente, buona solo per nutrire la vanità. C’è questo pericolo, certo, ma nel mondo è venuta ad abitare la verità per rendere possibile l’accendersi della carità.
Le visite di Gesù devono stimolarci a “trasfigurare” il mondo, usando anche ciò che è fragile ed effimero, non per morirci dentro, ma per riscattarne la verità che pure contiene.
Un possibile aspetto di una tendenza a vedere Gesù più come Dio che anche come uomo risiede in una talora minore attenzione nel cercare di comprendere se e come lui stesso ha ricevuto i sacramenti.
Già circa il battesimo amministrato a lui da Giovanni Battista non pochi commentatori, almeno in passato, hanno affermato che Cristo stava in fila con i peccatori per riceverlo solo per dare il buon esempio.
Ma Gesù non faceva niente meramente per far vedere, come circa vari episodi evangelici viene talora intepretato. Egli nel caso in questione aveva come uomo bisogno del battesimo. Non certo come remissione dei peccati ma come dono dello Spirito. Grazia già presente nel battesimo conferito dal precursore e portata a pienezza da Cristo, e in lui dalla Trinità, proprio nel riceverlo.
La trasfigurazione è stata vista da non pochi come la cresima di Gesù. Ed in effetti può molto aiutare a comprendere il senso di tale sacramento. Vi sono tre momenti in cui alcuni apostoli talora con altre persone odono il Padre che comunica dal cielo. Sono momenti decisivi nei quali quella voce si fa carne, Parola, sacramento, nel Figlio.
Nel battesimo Gesù è chiamato l’amato, nel quale il Padre si è compiaciuto. Vi è un rivolgersi direttamente al Figlio, nello Spirito. Anche se pure altri ascoltano. È un momento dunque di amore profondamente intimo. Nella trasfigurazione il Padre si rivolge invece direttamente ai tre apostoli presenti indicando Cristo come il Figlio, l’eletto, da ascoltare. E nella cresima vi è proprio il sigillo della personalissima vocazione di ciascuno. Quella di Gesù è di portare a pieno compimento le Scritture, di essere la Parola, di spalancare con l’obbedienza più piena, fino a dare la vita, le porte dell’esodo verso il Padre. Come per Cristo, anche ad ogni cresimato nella propria specifica vocazione viene infuso un mandato missionario, il dono di venire in vario modo ascoltato. Forse in specie da qualcuno. Piccola parola nella Parola.
Il terzo episodio in cui si ode la voce del Padre è quando egli proclama che ha glorificato il suo Nome, il Figlio, e lo glorificherà ancora. È il momento che prelude al donarsi fino in fondo di Gesù nell’oblazione della croce. Un momento profondamente eucaristico. E qui si può osservare che nell’ultima cena Gesù stesso afferma di assumere le specie eucaristiche, dicendo che è anche l’ultima volta prima di morire. Egli rivela di aver tanto desiderato di mangiare questa Pasqua con gli apostoli. Anche su questo si è riflettuto talora poco. È un cibarsi che di fatto si traduce esclusivamente in una donazione? Anche in altri brani evangelici vediamo per esempio che Gesù ha sete di acqua e sete al tempo stesso del cuore di qualcuno.
Gesù riceve anche una unzione con nardo prezioso ad opera di una donna. Può in tale episodio vedersi il sacramento per gli infermi? Cristo afferma che la donatrice ha fatto ciò che era in suo potere in vista della futura sepoltura del Signore. Sembra magari fare riferimento ad un vero e proprio dono di grazia. E nei vangeli forse appunto emerge un bisogno dei sacramenti da parte di Gesù stesso. Può apparire che la donna sia particolarmente adatta ad esprimere la tenerezza, la consolazione, con cui Dio può far pervenire tale dono. Ci si può forse chiedere se, per certi aspetti come per il battesimo del precursore, anche qui Gesù accoglie un dono che lui porta alla pienezza del sacramento. Anche perché materia di esso sarà proprio l’olio. Forse più che parlare di ordinazione sacerdotale delle donne si può riflettere proprio in base ai vangeli su aspetti definiti. Come per casi specifici circa l’amministrazione del battesimo o come per i ministri, laici, della comunione, ci si può forse domandare se i laici possano non consacrare gli oli sacri ma conferire quello degli infermi (e magari quello dei catecumeni?). Magari anche così agevolando una rinnovata, integrale, attenzione al malato: spirituale, umana, sociale. E dunque non spiritualistica, tecnicistica, burocratica. Preciso che sono in cerca del cuore divino e umano di Gesù e non certo di uno squadrato falso progressismo razionalistico.
Resta poi che la grazia è sempre ad personam. Proprio come la donna sopra citata ha ricevuto e trasmesso in un modo tutto suo anche a Gesù stesso i doni da lui ricevuti. Come che si intenda il significato, per esempio di sacramento o meno, di quel gesto.
Gesù sembra forse tracciare con la sua stessa vita per ciascun cristiano un cammino in lui, anche nei sacramenti, che conduce verso la pienezza di vita nel seno del Padre. E in lui ogni uomo giunto in cielo nel cuore di Dio potrà effondere pienamente la sua personalissima Pentecoste.
In questo intervento pongo solo domande.