Dunque la crisi si è aperta. Economia, società, politica, istituzioni sono sotto stress. Chi ha senso di responsabilità non può che nutrire viva preoccupazione per le sorti del paese.
Un crisi troppo attesa
Tuttavia, era nelle cose e, in un certo senso, è bene così. Anzi si è tirata troppo in lungo una situazione francamente insostenibile, che ci ha regalato – si fa per dire – lunghi mesi di estenuanti contese (e persino indecenti baruffe) interne al governo e la sostanziale paralisi della sua azione.
Si immaginava che quella conflittualità interna si potesse chiudere con le elezioni europee, ma non è stato così.
Mettiamo in fila le ragioni per le quali l’epilogo, cioè la rottura della litigiosa maggioranza, era scritto: a cominciare dalla bizzarria del “contratto” (di governo), istituto privatistico per definizione inadatto a sostenere un esecutivo, che presuppone una visione comune o almeno visioni compatibili; due partner di governo dichiaratamente alternativi, con programmi non componibili se non in termini di mera giustapposizione e di sommatoria incrementale di promesse elettorali esorbitanti finanziariamente insostenibili e palesemente in collisione con i vincoli di bilancio e i parametri europei.
Due forze politiche asimmetriche per natura, cultura, organizzazione, qualità della classe dirigente, base di consenso sociale e territoriale; l’opposto comportamento nel voto cruciale circa il nuovo presidente della Commissione Ue, la tedesca Ursula von der Leyen.
Rovesciamento dei rapporti di forza
Da ultimo e decisivo il rovesciamento dei rapporti di forza tra 5 Stelle e Lega sancito dal voto europeo rispetto alle elezioni politiche dello scorso anno e alla base dell’originario accordo di governo.
Non giriamoci intorno: è questa ultima la vera ragione del colpo di grazia all’esecutivo Conte deciso a freddo da Salvini. Palesemente pretestuosa la causa prossima: il voto sul Tav.
Battaglia storica e simbolica dei 5 Stelle sulla quale essi già avevano capitolato (la mozione parlamentare votata alla sconfitta era solo un pietoso escamotage grillino per salvare la faccia presso i propri frustrati sostenitori), e la Lega aveva già incassato la vittoria con il sì formale del premier Conte alla Torino-Lione. Anch’egli costretto a una giravolta.
Salvini si è risolto a fare il passo decisivo al chiaro scopo di capitalizzare il consenso accreditato dai sondaggi e da molteplici test elettorali, come del resto da gran tempo gli chiedevano i suoi e soprattutto la storica base elettorale dei ceti produttivi e delle regioni del nord.
Questa la verità, al netto dell’ipocrisia.
Bontà di una crisi di governo
Ciò detto, come si diceva, è bene che una situazione oggettivamente insostenibile, che aveva assunto profili grotteschi, abbia avuto un suo epilogo e, a seguire, un limpido svolgimento istituzionale: che la crisi sia parlamentarizzata (bene ha fatto Conte a pretenderlo, non cedendo ai diktat di Salvini, questi sì inaccettabili, perché il premier si dimettesse subito, con la classica crisi extraparlamentare che è stata la regola patologica della nostra storia repubblicana, cui solo Prodi nel 2008 fece eccezione, esigendo che in parlamento e dunque pubblicamente e solennemente ciascuno, singolo o partito, si assumesse la responsabilità della sfiducia).
Bene che sia il presidente della Repubblica a gestire la crisi; bene che si vada sollecitamente a elezioni se Mattarella accertasse che non vi sono in parlamento altre maggioranze possibili. In modo che, al dunque, a dirimere una matassa già troppo e troppo a lungo aggrovigliata sia il popolo sovrano.
Finalmente, dopo tante forzature e stravaganze, il ripristino di una sana normalità istituzionale.
È tuttavia legittima la domanda: perché Salvini lo ha fatto? Già si è detto: per capitalizzare il suo consenso e puntare dritto a palazzo Chigi. Ma vi sono altre due concause a valle: la consapevolezza che fosse alle viste una legge di bilancio che manifestamente non avrebbe potuto recepire le sue esorbitanti promesse specie in tema di fisco; l’imminente varo, fissato ai primi di settembre, del taglio di 345 parlamentari, che avrebbe inibito il ricorso alle urne per sei mesi se non per un anno (in sede applicativa di tale riforma costituzionale con la conseguente, necessaria riforma elettorale).
Troppo per chi appunto non vuole attendere, a rischio che sfumi il momento magico.
Verso le elezioni
Ora si profila un percorso accidentato e insidioso per il paese e segnatamente per la sua stabilità finanziaria. Ma quantomeno un percorso disciplinato da regole e procedure costituzionali garantite da un arbitro affidabile come il capo dello Stato.
Molto probabilmente, a valle, si profilano elezioni al calor bianco nelle quali Salvini è il grande favorito. Anche perché egli ha a disposizione varie opzioni: correre da solo, con Fratelli d’Italia in un fronte sovranista, con una FI debilitata e ancillare, facendo alleanze prima oppure dopo il voto a parlamento insediato.
Egli è il solo che dispone di tutte tali opzioni. Sarà interessante vedere chi sarà l’effettivo antagonista: un PD rinvigorito alla guida di un più largo fronte democratico (in realtà ancora tutto da costruire) ovvero i 5 Stelle, certo in cattiva salute, plausibilmente guidati da un’altra leadership, magari quella del premier uscente Conte, che, in qualche passaggio, compreso l’ultimo, ha trasmesso l’impressione di ambire a un protagonismo politico.
Così come si imporrà, a dispetto delle smentite di rito, il tema di una eventuale interlocuzione tra PD e 5 Stelle prima o più facilmente dopo il voto, con l’obiettivo di non consegnarsi a sicura minorità a fronte di un Salvini largamente favorito, quasi senza competitor.
Ostilità verso l’Unione Europea
Certo è che la posta in gioco è alta: in Italia e per la stessa Europa, che considera il nostro paese (tra i fondatori della UE) l’avamposto del sovranismo.
Con all’orizzonte un governo apertamente ostile all’euro e alla UE, non esattamente in linea con le storiche alleanze internazionali del nostro paese.
Se vi siano stati corruzione internazionale e passaggio di tangenti da Mosca alla Lega lo stabilirà la magistratura, ma persino più importante è sostare sulle parole registrate con le quali esordisce l’uomo vicino a Salvini al centro Russiagate in quella conversazione: la Lega quale primo attore della battaglia per una Europa che guarda più a Mosca che non a Bruxelles e a Washington.
Questo sì un “cambiamento”, una storica rottura. Se buona o cattiva lo decideranno gli elettori. Non opache collusioni. Con un corollario politico interno: uno scostamento dell’Italia dai canoni della democrazia liberale occidentale ed europea.
Non si sottovaluti la circostanza che il prossimo parlamento eletto, in concreto la sua maggioranza politica, sarà chiamato a eleggere il successore di Mattarella al Quirinale.
Temo una crisi di governo che mantenga le attuali cariche fino ad elezioni. Trovo pericoloso che il Viminale resti in mano a Salvini. Per questo è auspicabile un nuovo governo che sia in grado di condurre il paese in modo sostenibile e civile.
Le guide devono crescere in mezzo alla gente, con la gente. Solo così ciascuno può trovare il giusto senso del proprio ruolo, delle proprie competenze.
Il vero punto
Si cercano soluzioni tecniche o troppo spiritualistiche allo svuotamento che dilaga senza più nemmeno riuscire ad avvedersi che fin dalla scuola i giovani sono immersi in questo nulla scientista, omologante.
Senza la bellezza, la vivezza, di una libera ricerca, formazione, nella vissuta identità ricercata e nello scambio con le altre.
Viviamo in una dittatura soft che decide in cosa devi credere, cosa devi pensare, che ti divide da una ricerca insieme agli altri perché non ti dà la possibilità di partecipare. Devi sempre sentirti ripetere il ritornello del sistema. Il vero potere è la formazione e l’informazione. La gente deve essere libera di scegliere e di partecipare.
http://gpcentofanti.altervista.org/quanto-manca-per-il-crollo/