Non è facile commentare la parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-8). Gesù narra quella che è, indubitabilmente, una truffa; la narrazione termina con la lode del truffatore e un invito a imitarlo. Un invito alla risolutezza, un appello ad affrettarsi per il Regno? Può essere, ma fin dalla prima generazione cristiana la parabola dovette generare un certo imbarazzo.
Già l’evangelista vi aggiunse alcune frasi sul denaro e sulla fedeltà che potevano indirizzare verso interpretazioni moralistiche, anche a rischio di risultare contraddittorie («Procuratevi amici con la disonesta ricchezza», quando nella parabola la ricchezza serve a procurare amici a colui che la amministra, non a colui che la possiede; «E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?», poche righe dopo la lode della disonestà). Il ventaglio delle interpretazioni (allegoriche, moralistiche, escatologiche) è stato ed è ampio: l’esegeta sa che anche in questo si rivela la ricchezza della Scrittura.
Mi permetto allora di aggiungere alle tante interpretazioni della parabola anche la mia. L’idea mi è nata dopo avere sentito don Stefano Zeni parlare della «parabola della misericordia» (Lc 15: pecora smarrita, dracma perduta, «figliol prodigo»). Questo, che in realtà è un unico racconto (Lc 15.3: ed egli disse loro questa parabola) precede appunto il capitolo 16, all’interno del quale vi sono i brani dell’amministratore infedele e del «ricco epulone», intervallati da frasi sulla ricchezza e la fedeltà. Zeni ha insistito sul legame tra i tre racconti di Lc 15, che sfidano i farisei e gli scribi che «mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”» (Lc 15,2) e culminano nella domanda rivolta dal padre misericordioso al figlio che è stato obbediente, sì, ma spietato.
Mi sono allora chiesto se anche la parabola dell’amministratore disonesto non possa essere legata allo stesso contesto. La frase che segue (Lc 16,1) è: «Diceva anche ai discepoli». In greco c’è la congiunzione kai: «e», «anche», «ancora». Se la scena fosse ancora la stessa, significherebbe che Gesù sta ancora spiegando perché osa frequentare i peccatori. Prima l’ha chiarito pubblicamente agli scribi e ai farisei, ora (in contesto più raccolto e confidenziale) ne parla con i discepoli, che si può supporre fossero comunque disorientati.
Gesù, per spiegarsi, racconta la storia di una truffa. Forse non è il caso di concentrarsi sui particolari: la denuncia, il dialogo interiore, la contraffazione dei documenti, la ricerca di amici per evitare la povertà… (Jeremias, pp. 215-216 sospetta perfino che si trattasse di un fatto di cronaca realmente avvenuto). Ciò che conta è che l’amministratore – al di là delle sue motivazioni – faceva lo stesso che faceva il Maestro, ossia rimetteva i debiti, anche se non era stato / come se fosse stato autorizzato a farlo (il pensiero corre subito alla scena del paralitico, Lc 5,21: «Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: “Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?”»).
Il padre della parabola precedente, l’amministratore disonesto e Gesù riavvicineranno persone, conquisteranno amici, riavranno figli altrimenti perduti. E il Maestro dice allora ai suoi discepoli: siate audaci, fate così anche voi: condonate i debiti. Il debito non è stato contratto con voi? Fatelo lo stesso (si avvicina a questa interpretazione Reinmuth, p. 1000, lì dove connette questa parabola e quella del «figliol prodigo»: «Gesù sperpera, con la sua accettazione incondizionata dei peccatori, la ricchezza [del perdono] di Dio»).
La conclusione della parabola sta nel versetto 8a: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza» (quel che segue, a cominciare da 8b «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce», apre la serie delle frasi che servono a attutire l’impatto di un finale scandaloso e incomprensibile). Chi è il padrone? In latino è dominus, in greco kyrios. È il «Signore», termine che Luca attribuisce solo a Dio e Gesù stesso. Jeremias e Bovon per questo pensano che la parabola termini con il versetto 7: la lode non sarebbe interna alla parabola ma si riferirebbe invece al giudizio di Gesù sull’amministratore. Io credo invece che il parallelismo prosegua: il padrone loda l’amministratore dal quale è stato truffato; il Padre loda il Figlio che, oltre le logiche contabili della Legge antica, agisce con astuzia per spalancare le porte della misericordia.
Testi consultati: Joachim Jeremias, Le parabole di Gesù, Paideia 1967, pp. 51-53, 215-216; Luca, introduzione, versione e note di Carlo Ghidelli, San Paolo 1986 (Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali, 35); Bruno Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, 1992, pp. 227-230; Luise Schottroff, Le parabole di Gesù, Queriniana 2007, pp. 251-262; Compendio delle parabole di Gesù, a cura di Ruben Zimmermann, Queriniana 2011, pp. 988-1005 (Eckart Reinmuth); François Bovon, Vangelo di Luca, edizione italiana a cura di Oscar Ianovitz, Paideia 2005-2013, II, pp. 644-664.
Articolo pubblicato su Vita Trentina, 28 luglio 2019.
Tra tantissimi commenti letti questo suggerisce 2 punti originali: 1. Il ‘kai’ (LC 16,1) che suggerisce un collegamento con le 3 parabole del cap. 15 e 2. ‘kurios’ (LC 16,8), normalmente usato solo per indicare il ‘Signore’, come se la parabola finisse al versetto 7. Grazie della profondità dell’analisi