La crisi delle vocazioni al ministero ordinato dipende maggiormente dalla crisi di fede delle ultime generazioni o dalla struttura ministeriale/gerarchica stessa che svilisce l’umanità del presbitero, come diceva quell’anonimo giovane teologo nell’articolo “Un ministero ordinato dal volto umano” ospitato su Settimana News il 7 luglio 2018?
Oppure piuttosto deriva dall’incertezza sociale che disincentiva scelte definitive e di lungo periodo (contratti anche di governo, matrimoni, costruzione della casetta dei sogni, stabilitas loci, l’agognato posto fisso seppur noioso, ideale tradizionale dell’ostrica anziché inseguire i propri desideri), imponendo precarietà, liquidità e flessibilità?
È vero, i preti sarebbero più incarnati nella vita umana se lavorassero senza godere di quello che l’anonimo definisce il «privilegio sociale» del sostentamento del clero; ma ciò dovrebbe essere forse un incentivo o non sarebbe piuttosto l’ennesimo disincentivo al servizio presbiterale?
Vocazione: la gioia del Vangelo
Realisticamente, sarebbe pensabile invece una forma di “flexsecurity” – innanzitutto di fiducia, di incoraggiamento e di accompagnamento spirituale adulto – estesa a tutti gli operatori pastorali, laici inclusi, che non li costringa in un unico contesto per sempre, ma che permetta di vivere un ventaglio di opzioni meno stereotipato rispetto a quello parrocchiale totalizzante del Curato d’Ars. Penso allo studio, a esperienze in altre diocesi del mondo, alla vita in famiglia, a periodi di silenzio e ricerca spirituale, alla predicazione itinerante/digitale, e ovviamente anche a quel «lavoro per la sussistenza, per il bene altrui e per la vita pastorale» che l’anonimo invoca. Ciò che importa è ricucire la scollatura con la vita delle persone ordinarie, sempre più ampia: non tanto quella tra clero e laicato, quanto quella tra la minoranza cristiana e la maggioranza post-secolare della popolazione europea.
Forse anche per tale motivo soffrono relativamente meno la crisi movimenti e congregazioni religiose che si isolano dall’esposizione sociale con un’idilliaca promessa di sicurezza da tutti e da tutto, ma pure quelli che offrono una maggiore varietà e dinamicità, favorendo la fioritura dei molteplici carismi di ciascuno nel mondo contemporaneo. Cioè la vera vocazione (che non è una dis-grazia che può capitare a chi soffre di qualche allucinazione o visione soprannaturale, ma di certo non a noi): gioia piena per quello che si è, per quello che si ha, per come si vive, perché si è consapevoli di amare al massimo delle nostre capacità, messe tutte pienamente a frutto.
Ma la pastorale vocazionale quando c’è, soprattutto quella nelle strutture (spesso) manicomiali superstiti dette “seminari diocesani”, favorisce davvero le vocazioni? Oppure attrae, conferma e sforna (pochi e sempre meno, grazie a Dio!?): repressi impiegati di curia; disoccupati decennali improvvisamente conversi a Medjugorje; bizzarri nostalgici di fasti monsignorili barocchi, sognati e inscenati, ma mai vissuti; ingenui esaltati dalle idee strabilianti, subito frustrate nell’unica certezza di funerali incessanti, che intervallano una vita forzatamente solitaria in canonica senza neppure più perpetue con cui parlare, per poi cercare un diversivo negli escort o, nei migliori dei casi, in un affezionato partner fisso?
Va da sé che occorre ripensare sia lo stile pastorale non sempre in grado di presentare la gioia del Vangelo (di sovente confusa per un infantile entusiasmo verso il baby sitting o l’animazione di centri estivi per chi non si può permettere una vera vacanza), sia il ruolo del presbitero (sempre più incomprensibile anche per gli eterogenei preti, diaconi e seminaristi), sia il contesto economico, sociale e spirituale, che muterà ancora, forse anche con la testimonianza vissuta di chi sa dimostrare che è assai più conveniente un bene condiviso duraturo rispetto a un egoismo transitorio.
La vita riserva comunque incertezze e possiamo con papa Francesco considerare benedetta l’inquietudine; sempre però se possiamo fidarci di qualche volto che si fida davvero di noi, che ci incoraggia, che non ci svilisce approfittando della nostra disponibilità, della nostra fede sincera e della nostra vocazione.
Otto consigli agli amici presbiteri (e non solo)
Pensati nel giorno di san Giovanni Maria Vianney con la sfacciataggine laicale di san Paolo.
1) Ascolta il popolo: innanzitutto sei un laico, un battezzato. Per poter essere pastore, devi prima riconoscerti ontologicamente come tutti pecora del gregge nel quale sei incardinato. Scegli pure come vestirti, basta che nel contesto in cui sei il modo in cui ti presenti riesca ad avvicinare le persone lontane, anziché allontanarle ulteriormente. Prendi il popolo così com’è, lasciati migliorare da esso e lo lascerai migliore.
2) Vivi l’intimità con Gesù: la messa è solo una parte della tua vita spirituale, che rischia di diventare routine. Il breviario ti aiuta a ravvivare la giornata, a pregare con i salmi che sanno esprimere ogni affetto e a ricordarti sempre della presenza viva di Dio in ogni tempo e in ogni luogo. Non vergognarti di pregarlo davanti ai fedeli, e coinvolgili nella preghiera della Chiesa. Cura con decorosità la liturgia, evitando sia la teatralità, sia la sciatteria.
3) Vivi la fraternità del presbiterio e l’unità con il vescovo: non sei uno stilita, e anche se non appartenessi a una comunità religiosa sei comunque un membro del collegio presbiterale. Crea ponti di unità tra i tuoi confratelli a partire da quelli più antipatici, non sparlare di loro e non usarli come tappabuchi per le messe, ma gareggia nello stimare gli esempi più virtuosi. Domanda con insistenza di convivere con altri preti, con i quali condividere affetti, gioie e difficoltà della vita pastorale. Consultati con il vescovo quando hai una preoccupazione o una proposta: non tenertela per te e non fare di testa tua.
4) Continua a studiare: la tua formazione non si è esaurita negli anni del seminario. Riprendi in mano quei libri di teologia che hai sfogliato solo per superare l’esame, ma partecipa a convegni; leggi riviste, saggi, testi spirituali, e anche narrativa e poesia. È tuo dovere offrire a te e a chi ti incontra una formazione di qualità, perché Dio ci ha fatto dono di ragione, sapienza e intelletto.
5) Rafforza il laicato: nutrilo con la Parola con omelie preparate e accorate, formalo nella maturità con lectio e con incontri di studio, offri ruoli di responsabilità ma soprattutto coinvolgilo attivamente nelle decisioni. Non renderlo dipendente dalla tua persona ma solo da Dio; non sei il padrone di nessuno, sei solo un ministro. Comunicagli quella forza per raggiungere le periferie che tu non riesci a raggiungere, nell’ordinarietà della vita sociale, civile e professionale.
6) Non nascondere la tua tenerezza, la tua debolezza e la tua fragilità: non aver paura di una ferita, di una lacrima, di un battito di cuore. Mostrati come uomo, abbi il coraggio dei tuoi sentimenti e offri il frutto delle tue battaglie deponendo la corazza che ti sei costruito. Chiedi scusa, spiega i tuoi ripensamenti, riprendi il tuo cammino. Bacia, abbraccia, accarezza i corpi con il tuo corpo e soprattutto con quello di Cristo, che non ha avuto paura di contaminarsi con le donne e gli uomini.
7) Offri al mondo quel che il mondo non può offrire: innanzitutto la Parola, la preghiera e la comunione, a partire da quella che testimoni con la tua vita. Non scimmiottare il mondo con brutte copie patetiche di quel che già si trova altrove in modo molto più attraente, perché la concorrenza ti batterà sempre. Sii coraggioso e profetico: osa gesti che nessuno aveva ancora osato, fatti guidare dalla forza dello Spirito che soffia quando sei unito al popolo di Dio, scardina ogni resistenza alla carità.
8) Rallegrati con Maria: accogli tutto nel tuo cuore come dono inaspettato, ripensa ai momenti in cui il tuo cuore si è incendiato d’amore e, nella gratitudine, pronuncia convintamente il tuo “fiat” alla bellezza che contribuirai a partorire, fiducioso nel farsi della sua libertà, che è la tua di amare.