Merita isolare un passaggio delle attese comunicazioni al parlamento con le quali il premer Conte ha formalizzato la crisi del governo giallo-verde. Una vera e propria requisitoria – forse, va detto, contrassegnata da una sproporzione tra la inusuale vis polemica e il suo carattere francamente tardivo – contro il leader della Lega nonché vicepremier Salvini. Laddove Conte ha rivelato di avergli mosso riservatamente un appunto critico circa il suo uso politico-propagandistico delle icone e dei simboli religiosi. Un’ostensione che, così si è espresso il premier, mal si addice ad un uomo di stato, che contraddice il principio della libertà religiosa e della laicità delle istituzioni.
Non è disputa nuova e tuttavia è significativo che si sia riproposta in un passaggio critico solenne e in una sede alta quale il Senato. In sede di replica, Salvini ha tuttavia reiterato il suo richiamo alla Madonna e la sua venerazione per san Giovanni Paolo II. L’episodio può sembrare un dettaglio; quello di Conte un rilievo eccentrico in quel contesto. A ben riflettere così non è se si considera che, al netto della polemica sulla crisi, il cuore dell’intervento del premier dimissionario è stato una sorta di lezione (ripeto: ancorché tardiva) sull’etica e sulla cultura delle istituzioni intese come casa comune.
Il sacro e il consenso
Già avevamo assistito allo spettacolo francamente imbarazzante offerto da Salvini in piazza Duomo a Milano con l’ostentazione di rosari e crocifissi. Un’esibizione riproposta dopo il suo successo elettorale del 26 maggio. Ma, sia chiaro, un successo che non cambia di una virgola il giudizio circa la sgradevolezza di tale ostentazione.
Nella sua storia, la Lega ha oscillato tra il neopaganesimo del dio Po e dei riti celtici e una liaison con il più gretto tradizionalismo cattolico. Difficile tacere l’impressione di una greve strumentalizzazione politica della religione e segnatamente di sacri simboli cristiani. Una forma di blasfemia.
Già allora, a stigmatizzarlo con parole forti e inequivocabili, provvidero autorevolmente i vertici della Chiesa, dal segretario di Stato ai vescovi, al direttore di Civiltà Cattolica. Con argomenti attinti dal Vangelo e dai comandamenti: dare a Dio quel che è di Dio, non nominare il nome di Dio invano.
E tuttavia merita chiedersi perché Salvini non si faccia scrupolo di spingersi sino a varcare il limite della decenza. Perché, manifestamente, a monte, sta un preciso calcolo. Le ragioni sono almeno tre.
La prima: sono gesti, i suoi, che fanno tutt’uno con la sua campagna contro la supposta invasione dei migranti che tanto gli ha fruttato in termini politico-elettorali. Cavalcando le paure e sposando la teoria della «grande sostituzione» degli italiani cristiani occidentali con le masse islamiche di origine nord-africana. Una fake news: l’Italia ha una percentuale di immigrati in linea con quella di altri paesi europei, i flussi dal Mediterraneo si sono drasticamente ridotti, la più parte viene (da terra, non dal mare) dal centro e dall’est dell’Europa e trattasi soprattutto di donne di religione cristiano-ortodossa.
Bannon e la critica a Francesco
Seconda ragione: la retorica delle radici giudaico-cristiane fa parte dell’ideologia di cui si nutrono i partiti dell’estrema destra occidentale ed europea, una destra illiberale non immune da tratti xenofobi. Tra gli ideologi, quel Bannon allontanato da Trump per il suo estremismo (!) e che ha avviato qui una sua scuola di politica.
Si equivoca il cristianesimo come religione civile, come ingrediente del populismo identitario di natura etnico-religiosa. Un suo palese snaturamento, la negazione del suo intimo carattere universalistico. Per sua natura, il cristianesimo e la Chiesa non si fanno catturare e sequestrare da nessuna specifica civiltà, neppure da quella occidentale, con la quale, certo, hanno intessuto storicamente un rapporto intenso. Esso, il cristianesimo, aspira infatti a fermentare dall’interno tutte le culture e le civiltà umane.
La terza ragione, per quanto spiacevole, non va taciuta. Salvini è consapevole che la Chiesa cattolica oggi conosce tensioni interne. Che monta in essa un fronte, teologico e politico, ostile a papa Francesco e al suo programma di apertura e di riforma della Chiesa, all’accento da lui posto sul volto evangelico e sulla dimensione profetica della Chiesa. E lui, Salvini, fa il gioco sporco di provare a infilarsi in quei conflitti. Sino a opporre – non lo fa solo lui, ma appunto altre forze dentro la Chiesa – papa Francesco ai suoi predecessori.
Ma noi e i buoni cristiani dovremmo essere maturi abbastanza per riconoscere che vi possono essere e vi sono differenze di carismi e di sensibilità dentro la Chiesa e persino tra i papi, senza che questo ne mini l’unità e il comune ancoraggio a rivelazione e tradizione. Siamo però allo sprezzo del ridicolo quando Salvini accredita la tesi dell’opposizione tra Francesco e i suoi predecessori con riguardo all’accoglienza e alla sollecitudine per la povera gente, che sono il cuore stesso del Vangelo. Prendere parte per loro per la Chiesa non è una facoltà ma un dovere e – come notava La Pira – non è marxismo ma Vangelo.
Del resto, lo stesso papa Francesco, indirizzandosi alla diocesi di Roma, ha osservato che «il Vangelo è una dottrina “squilibrata”». Rispetto agli equilibri mondani, al potere dei forti, al successo dei vincenti. Come suggerisce la croce quando non è fraintesa come un amuleto.
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