Quando i simboli (religiosi e non) diventano Spettacolo

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In questo mese di agosto 2019, complice il caldo, la crisi di governo ha fatto perdere il senno a molti e anche per me è stato arduo trovare uno spazio critico di riflessione, per non lasciarmi sedurre dallo sconforto che conduce a insultare i nostri vicini, nei quali purtroppo cadiamo con facilità e frequenza, gridando contro uno schermo. Sfogarci contro l’avversario per il suo uso strumentale di parole e simboli – cosa che un po’ tutti abbiamo fatto – sarebbe da ipocriti. Se davvero vogliamo essere e restare umani, siamo chiamati ad andare oltre e comprendere lo scenario in cui siamo immersi spesso inconsapevolmente.

Il ritorno del religioso nell’agone partitico

Con distacco critico quindi ho seguito il rimprovero del presidente del consiglio dimissionario Giuseppe Conte verso il suo vice Matteo Salvini, accusato di «episodi di incoscienza religiosa che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e nello stesso tempo oscurare il principio di laicità che è tratto fondamentale dello Stato moderno». Parole apprezzate come “autorevoli” da molti, compresi esponenti del mondo cattolico, che attendevano da tempo questa vendetta contro l’odiato ministro Salvini, messo una buona volta alla berlina dopo che lui ha fatto altrettanto con altre persone.

A poco è valso rammentare il santino di padre Pio mostrato da Conte nell’intervista condotta da Bruno Vespa nel settembre dello scorso anno. O, due anni prima, il bacio di Di Maio – non di certo l’unico, dopo una sfilza di politici – all’ampolla del sangue liquefatto di San Gennaro che gli porgeva compiaciuto il cardinale Sepe. Ma rammento pure la comunione a Berlusconi (molto prima dell’Amoris Laetitia), la predica/comizio di Matteo Renzi dal pulpito di una chiesa, e spostandoci altrove vedo i maggiori leader mondiali che accendono ceri in chiesa, altri che portano la kippah baciando la Torah, altri ancora che passano con nonchalance dalla moschea dove si erano appena prostrati al tempio sikh con un bel turbante, per poi farsi fotografare sorridenti al gay pride sfoggiando calzini arcobaleno accanto a madonne transessuali.

Mi sovvenivano anche le immagini del Met Gala 2018, sfilata di moda che aveva per tema l’immaginario religioso, dove personaggi del mondo dello spettacolo sfoggiavano improponibili abiti tempestati di croci, madonne, rosari, ali angeliche, corone di spine, cuori trafitti, sino alla mitra tempestata di perle della cantante Rihanna nei selfie accanto ai cantori, in talare, della Cappella Musicale Pontificia Sistina. Se possiamo tirare un sospiro di sollievo perché abbiamo superato il tabù laicista dei simboli religiosi nello spazio pubblico, nondimeno preoccupa il loro ritorno nella peggiore banalizzazione; forse perché non sono più scomodi, non urtano più nessuno, non sono più simboli? Ho menzionato aspetti certamente differenti, ma non penso di fare di tutta l’erba un fascio quando pongo tutto ciò nell’orizzonte della “post-secolarizzazione”.

I simboli ridotti a oggetti da scagliare contro l’avversario

Mi spiego meglio. Ho trovato sintonia nelle riflessioni del professor Giuseppe Lorizio, uscite il 21 agosto a pagina 3 su Avvenire nell’articolo Si fa presto a dire “simboli”, in cui tentava di individuare qualcosa di più ampio rispetto all’indignazione verso un rosario esibito da un politico, che si difendeva dalla ramanzina subita citando San Giovanni Paolo II e invocando «il cuore della beata Vergine Maria», per poi essere attaccato a colpi di citazioni evangeliche da esponenti degli altri partiti.

Lorizio, anche in un’intervista radiofonica su Radio 3 nel medesimo giorno, spiegava che simboli decontestualizzati e versetti estrapolati in questo modo è di fatto una profanazione: diventano oggetti, cose, in un ambiente come il Parlamento in cui il Vangelo dovrebbe semmai ispirare le persone a usare la ragione e l’etica, anziché il linguaggio del fideismo. È un atteggiamento più che barbaro, dal momento che i barbari vivevano in un contesto simbolico autentico.

Di qui l’invito di Lorizio a riscoprire nel silenzio la capacità di esprimere opportunamente i simboli nel loro universo, a partire dal silenzio, per evitare di enfatizzare il conflitto con contrapposizioni sterili e nocive.

Lo svuotamento dei simboli nella guerra a colpi di “madonne”

Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, mi ha lasciato spazio dalle colonne del suo quotidiano per esprimere il mio apprezzamento all’articolo di Lorizio. Perché la crisi del simbolico non si risolve a colpi di immaginette e statuine. Ne abbiamo viste di ogni: Madonna di Lepanto che salva dall’invasione e Gospa di Medjugorje – che, per chi dà credito alle veggenti, nell’ultimo messaggio dello scorso 25 agosto avrebbe esortato: «Testimoniate con il rosario nella mano che siete figli miei» – contrastata dalla Madonna profuga migrante e Stella del Mare.

Quella non è fede popolare, né teologia contestuale che incarna nelle varie culture e contesti sociali il significato profondo delle verità cristiane. Sembra invece un assurdo videogioco.  A poco giovano i soli mariologi, che sanno che nessuna più di Maria fu tirata per il mantello per ogni problema sociale.

Se Maria è una sola, di madonne loquaci ne abbiamo tante quante sono le sensibilità, inquietudini e speranze. Perché Maria è una che ci capisce, è l’umanità in lotta con le sue contraddizioni, siamo noi.

Maria, da simbolo a testimonial

Quest’ultima considerazione può suscitare perplessità e merita un approfondimento articolato. L’obiezione sembra legittima: non è che forse la Madonna diventa simbolo da gettare nello scontro proprio perché l’abbiamo desacralizzata, privata della luce dei dogmi, ridotta a una “poco di buono” come noi?

Il problema è che nell’attuale contesto non esistono più neppure i simboli, cioè quelle realtà materiali o spirituali che rimandano a un’altra realtà materiale o spirituali contenuta, evocata, comunicata, come ha illustrato Elide Siviero nel suo La creatività di don Asdrubale uscito pochi giorni fa qui su Settimana News. Simbolo è ciò che “mette insieme”, come diciamo “simbolo della fede” per il nostro Credo cristiano. Maria sarebbe simbolo in tale accezione, perché «custodiva insieme (syneterei) mettendo insieme (synballousa) nel suo cuore» (Lc 2,19). Il punto è che dai simboli siamo passati ai simboletti, ai brand, ai testimonial, agli spray al peperoncino da spruzzare negli occhi dell’avversario. Qui lo scontro funziona molto meglio se usiamo virtuali super-eroi come wonderwoman e sailor moon.

Quando Maria viene idolatrata come qualcosa di sacro (cosa ben diversa dal Santo), è distaccata da noi: ne risulta un oggetto da gettare come anatema contro gli altri, proprio perché non lo sentiamo come qualcosa di nostro, non ci impegna personalmente e lo possiamo fare con leggerezza e superficialità.

La sobria immagine evangelica di Maria invece ci offre una donna del popolo della terra che viene donata al discepolo amato, il quale a sua volta viene consegnato alla madre. Una madre che ha tutti i suoi dubbi, i suoi combattimenti interiori, una madre che comprende poco alla volta l’identità del suo Figlio perché resta. Resta nel popolo, nel cenacolo dove le viene consegnato lo Spirito, e così da prima discepola è madre, sorella, compagna nostra nel pellegrinaggio della fede.

La mariologia parla di “immagine corporativa” di Israele: Eva, Sion, la donna vestita di sole, la Gerusalemme degli oppressi, ora «immagine e inizio della Chiesa». Quando l’evangelista Luca fa parlare Maria, nella sua voce risuona tutta l’attesa di Israele che attendeva il riscatto degli ultimi grazie alla visita di Dio che rovescia le sorti della storia: apre le mani ai ricchi e li rende mendicanti, mentre chi già è abituato a mendicare riceve tutto da Dio.

Sull’umanità dei dogmi mariani

Maria, nella sua accoglienza, riceve la proposta di generare Dio (Theotokos significa appunto questo) per e dentro l’umanità che lotta per la giustizia. Diventiamo così figli dello stesso Figlio della Giustizia, nel discepolato con Maria che vive la sua santa umanità nella comunità dei fratelli. Perciò, come sottolinea la mariologia, la Madre di Dio non è superiore a nessuno, ma è la primizia dell’umanità redenta da Cristo, la realtà che ci aspetta: ciò che si dice di Maria si potrà dire anche per tutti noi, perché Dio con la grazia che ci ha riempito ci consente di entrare tanto più in Lui quanto più lo accogliamo e custodiamo nella realtà che incontriamo, dove lui si spoglia facendosi piccolo, per farsi cullare a misura d’uomo.

Tutte le formulazioni dogmatiche sulla «Donna del Popolo» nella sua «eccezionale peregrinazione della fede» (Redemptoris Mater, 6 e 20)  hanno questa inscindibile relazione cristologica che glorifica la madre: ci aiutano ad entrare nella Chiesa, nel Corpo di Cristo, in Dio. Ci insegnano la verità: è possibile accogliere il Vangelo e metterlo in pratica – di qui l’insistenza sulla verginità di Maria e quindi sulla santità del nostro corpo quando accoglie e si dona per amore – per il sommo servizio di portare vita al mondo; senza che alcun peccato ci possa fermare (= immacolata concezione), perché Gesù lo ha sconfitto e noi pure, accogliendo lui come per prima ha fatto Maria, nella speranza che ci prenderà integralmente con sé (= assunzione). La quale semplicemente mostra l’efficacia dell’unica mediazione di Cristo (Lumen gentium, cap. VIII) indicandoci la strada e la meta finale di chi ha creduto, passando in mezzo alla spada delle contraddizioni.

Ecco perché Maria siamo noi: è l’umanità che con l’eloquenza del silenzio ribalta le logiche dei potenti, dei poteri forti e dei superpoteri. L’autentica fede mariana che chiede a Maria di venire in mezzo a noi, di lottare per un mondo nuovo, di soccorre i figli che cadono ma anelano a risorgere, indica questa realtà di stretta vicinanza a noi e al contempo di legame indissolubile con Gesù risorto che viene donato a noi.

Sbandierare nel tritacarne mediatico immaginette l’una contro l’altra – e lo stesso vale per tutti i potenti testimonial invocati a soccorso della nostra debole opinione individuale – non ha a che fare con nessuna di queste cose, ma soltanto col fatto che, da sempre, il rischio di trasformare la fede in superstizione è dietro l’angolo e i simboli in feticci ancora di più.

Un approccio transdisciplinare per affrontare la post-secolarità

Ecco allora che occorrono teologi politici, sociologi della religione, filosofi della storia, antropologi, psicologi sociali, studiosi di marketing, di estetica e di semiotica. In Italia ci sono centri come CRISI e ICONE dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano che si occupano di storia delle idee e teoria dell’immagine, oppure la Fondazione Bruno Kessler in cui opera Paolo Costa, autore del recente volume La città post-secolare uscito con Queriniana, che si confronta con i diversi modi di intendere lo scenario attuale.

Perché occorre una comprensione più ampia e sistematica di come ogni ex simbolo laico o religioso – dalle divise delle forze dell’ordine ai canti partigiani remixati, dall’inno nazionale ballato dalle cubiste in spiaggia, con il ministro alla consolle, al crocifisso – viene vaporizzato in testimonial  della propria autoreferenzialità dia-bolica, che divide: uno spettacolo spregevole di Ultimi Uomini descritti da Nietzsche. Non si può forse neppure più parlare di profanazione o di blasfemia, a questo punto.

Dalla guerra secolare al gioco post-secolare con gli ex simboli del passato

Si tratta dello scenario dell’età post-secolare, come premettevo. Se nel primo millennio della cristianità il crocifisso – «in hoc signo vinces» – veniva usato per propiziare la vittoria sul mondo pagano, la secolarizzazione successiva ha portato a una contrapposizione tra simboli laici e simboli e religiosi, con medesime modalità comunicative: pensiamo ai cortei sindacali e alle processioni, ai comizi politici e alle prediche, a Peppone e don Camillo. Oggi invece ci si divide tra chi propone uno status symbol piuttosto che un altro, dal momento che sono tutti svuotati, interscambiabili e atti a provocare contrapposizioni e consenso. Oggi è una parodia orwelliana del simbolico collettivo: di ciò che è proprio dell’umano.

Verrebbero quasi da rimpiangere quei tempi in cui nei simboli ci si credeva e si era disposti a morire per essi, rispetto al giocare con ciò che era prima, giovandosi dei retaggi dell’età tramontata – quando ancora Dio, le speranze e i simboli erano vivi – in cui significavano qualcosa. Il presente è un gioco nel quale si può arrivare a uccidere senza troppi scrupoli, come nel caso degli attentatori (anch’essi post-secolari) dell’ISIS, perché è tutto de-materializzato come in un celebre videogioco in cui si può sequestrare la metropolitana, far esplodere autoveicoli, mettere a ferro e fuoco la città.

Eppure la realtà odierna andrebbe ascoltata con realismo cristiano, come fa con rara avvedutezza il professor Lorizio, senza illudersi con granitiche certezze che i simboli di ieri – come un doppiopetto nella spiaggia della Prima Repubblica – possano ancora essere seriamente i simboli di domani. Quasi nessuno purtroppo ha la medesima inquieta consapevolezza se – a partire dal clero che avrebbe il ministero di aiutarci ad uscirne – in molti si prestano al gioco di “lanciarsi madonne” con vignette, frecciatine e tweet, si spera in buona fede e non con compiaciuta spregiudicatezza.

Nel silenzio, per vincere lo Spettacolo che affetti e simboli

Uno sguardo acuto lo riascoltiamo in Giorgio Gaber. L’artista-filosofo, riecheggiando Adorno, parlava di una falsità del tutto di fronte al quale «non vedo come fare ad esser contro», «per fermarlo tiro un sasso controvento ma è già qui che mi rimbalza pochi metri accanto».

Lo stesso Gaber, in Libertà obbligatoria, passava in rassegna le innumerevoli possibilità spianate dalla contemporanea società di mercato, per poi concludere: «Ma come? Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di cambiare?». E ancora: «Per ogni assillo o rovello sociale sembra che la gente goda, tutti che dicon la loro, facciamo un bel coro di opinioni fino a quando il fatto non è più di moda»; lo cantava decenni fa, quando i social ancora non esistevano.

Adesso, di fronte a tutti i mali del mondo, lo «Spettacolo Puro» esige la partecipazione della compassione esibita con l’acquisto di un’«Azalea» e dell’indignazione plateale di fronte alle tragedie e alle frustrazioni su cui si costruisce il «Potere dei più buoni», che si alimenta abusando della buona fede e dei sensi di colpa. Ci impone la spettacolarizzazione mercificata degli affetti che più ci sono cari.

Poiché Maria non ha bisogno di qualcuno che la difenda, sono con Lorizio: solamente il silenzio può accoglierci. E così rispettare anche Maria, donna del silenzio che ci salva dalla chiacchiera. Probabilmente in previsione di tutto questo Dio a Mosè ordinò di non farsi «idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» (Es 20,4). Il nuovo scenario, se affrontato con silenzio, ascolto e realismo, apre inedite possibilità tutte da generare nel profondo.

Originariamente pubblicato il 27 agosto 2019 su Termometro Politico a questo link.

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Un commento

  1. Giampaolo Centofanti 2 settembre 2019

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