Anche Pinocchio può cambiare

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conte

Devo dirlo: non sono mai stato un estimatore del prof. Giuseppe Conte. Non avevo mai sentito parlare di lui come studioso e docente (e non credo di essere l’unico), ma l’ho visto in azione da quando è apparso sulla scena politica del nostro Paese.

Ho appreso con stupore – ma ormai ci sono abituato – dell’entusiasmo collettivo suscitato prima dalla sua lettera a Salvini e poi dal suo discorso in Senato, quando – non per sua scelta – ha dovuto dare le dimissioni.

L’ho ritrovato al centro dell’attenzione, come una star, quando è uscito dallo studio del presidente della Repubblica. Ma anche allora, mentre ascoltavo la sua dichiarazione, non ho potuto fare a meno di ripercorre col pensiero la storia di silenzi, di compromessi, di solidarietà che hanno scandito la sua rapida carriera di uomo pubblico, tanto più breve e trionfale quanto, a mio avviso, ingiustificata.

Silenzio assordante

Fin dall’inizio, quando, nello scontro frontale sulla nomina dal ministro Savona, lasciò decidere – lui, già presidente incaricato – ai due capi-partito che lo avevano coinvolto, senza dire una parola. Già allora si mostrò per quello che era e sarebbe stato: una semplice comparsa al cospetto dei due veri padroni della scena politica. Se il paragone non suona offensivo, una specie di Pinocchio preso in mezzo tra il Gatto e la Volpe.

Al termine di questa parabola stanno le parole del suo vice premier Salvini quando, in una dichiarazione pubblica rilasciata poco prima della crisi del governo, ha detto che l’opinione del suo premier (appunto, Conte) gli interessava meno di zero.

Così, mentre al Viminale si faceva il bello e il cattivo tempo come se il ministero dell’Interno fosse la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conte si è limitato quasi sempre a firmare quello che Salvini aveva deciso: condono fiscale, decreto sicurezza, decreto sicurezza bis…

Sposando senza riserve la politica dei “porti chiusi”, al punto di autodenunciarsi per esprimere la sua solidarietà a Salvini sul caso «Diciotti», che aveva visto la magistratura procedere per sequestro di persona davanti al caso paradossale di 177 persone, salvate dall’annegamento, bloccate nel porto di Catania per giorni – si badi bene! – non su una nave delle contestate Ong, ma su una nave della marina militare italiana!

Fin quando il leader leghista non ha ritenuto perfino questa umiliante accondiscendenza un fastidioso ostacolo, e ha deciso di rimuoverlo con una brusca rottura, in barba ai ripetuti giuramenti di fedeltà ribaditi per mesi, sfiduciando il premier.

In Sicilia si dice, del marito tradito: «Curnutu e vastuniatu». Solo allora – quando ormai «la frittata era fatta» – Conte si è ricordato di tutto quello che aveva subito e lo ha rinfacciato puntigliosamente al suo aguzzino.

Il prezzo

Come spiegare questo comportamento avvilente? Masochismo? Vocazione al martirio? Timidezza? Attaccamento al posto? O, nella migliore delle ipotesi, maldestro tentativo di compensare, con la propria discrezione, la litigiosità dei due partiti al governo?

Non ho una risposta. Di certo, il prezzo che Conte ha pagato – rinunziando a far valere la dignità di una funzione, quella di presidente del Consiglio, che, secondo la nostra Costituzione, è fondamentale per le sorti del Paese – è stato pagato in realtà non da lui, ma da tutti gli italiani.

Il merito di Conte

È vero, un merito – e non piccolo – l’ha avuto: quello di fare da mediatore sia tra i due rissosi vice-premier quasi sempre in disaccordo, sia tra loro e i vertici dell’Unione Europea.

Compito, soprattutto il secondo, reso molto difficile dalle continue gaffe di Di Maio e di Salvini, impegnati a mostrare i muscoli ai propri rispettivi elettori, per dimostrare che col “governo del cambiamento” l’Italia stava finalmente «rialzando la testa», ma di fatto incapaci di valutare gli enormi danni che proprio al prestigio e agli interessi dell’Italia derivavano da questi baldanzosi quanto fatui proclami.

Conte ha avuto il compito di andare ogni volta a Bruxelles a chiedere scusa e a negoziare su basi più realistiche, pur non riuscendo a evitare un declassamento che ha visto l’Italia ormai priva dei ruoli di prestigio a cui era stata finora abituata.

Da qui, in ogni caso, gli è venuto quell’apprezzamento a livello internazionale che molto sta giocando nella sua riconferma a premier (incaricato) e di cui anche a livello finanziario (calo dello spread, rialzo della borsa) stiamo misurando gli effetti positivi.

Il male minore

Il bello è che anche in Italia, al di là del grande successo sui social, anche tra i critici più estremi c’è chi spera nella riuscita del suo tentativo di formare un governo, perché vede in questa soluzione il male minore.

È il caso di tutti coloro – me compreso – che, a torto o ragione, sono convinti che, se si arrivasse alle elezioni e Salvini diventasse premier, le sue tendenze autoritarie e prevaricatrici, già ampiamente emerse durante la sua esperienza di semplice ministro, raggiungerebbero un acme senza limiti e senza ritorno.

Finora chi è stato veramente aggrappato in modo viscerale alla “poltrona” come simbolo di potere è stato proprio lui, che passa il tempo ad accusare di questo tutti gli altri.

E l’aveva abbandonata per un istante solo allo scopo di averne una più importante, con «pieni poteri». Sì, meglio Pinocchio che la Volpe arrogante e con delirio di onnipotenza…

Meglio un programma decente…

E poi, secondo il romanzo di Collodi, Pinocchio alla fine, dopo un sacco di errori e di vicissitudini poco onorevoli, anzi proprio attraverso di esse, diventa un uomo, un “bambino vero”.

Pensavo a questo, mentre ascoltavo l’ambizioso discorso programmatico del presidente incaricato all’uscita dallo studio di Mattarella.

Quello che si delineava era

«•un Paese in cui l’istruzione sia di qualità e aperta a tutti,

•un Paese all’avanguardia nella ricerca e nelle più sofisticate tecnologie,

•che primeggi, a livello internazionale, nella tutela dell’ambiente, della protezione delle bio-diversità e dei mari,

•che abbia infrastrutture sicure e reti efficienti, che si alimenti prevalentemente con le energie rinnovabili,

•che valorizzi i beni comuni e il patrimonio artistico e culturale,

•che integri stabilmente nella propria agenda politica il Benessere equo e sostenibile,

•un Paese che rimuova le diseguaglianze di ogni tipo: sociali, territoriali, di genere;

•che sia un modello di riferimento, a livello internazionale, nella protezione delle persone con disabilità;

•che non lasci che le proprie energie giovanili si disperdano fuori dei confini nazionali, ma un Paese che sia anzi fortemente attraente per i giovani che risiedono all’estero;

•che veda un Mezzogiorno finalmente rigoglioso di tutte le sue ricchezze umane, naturali, culturali;

•un Paese nel quale la Pubblica Amministrazione non sia permeabile alla corruzione e sia amica dei cittadini e delle imprese; con una giustizia più equa ed efficiente;

•dove le tasse le paghino tutti, ma proprio tutti, ma le paghino meno».

Troppo? Sì, troppo, per essere realizzato. Ma sempre meglio del rozzo «Prima gli italiani» a cui ci eravamo abituati e che temevamo dovesse essere il filo conduttore di questa legislatura. Se c’è una dimensione di utopia (ma quale programma non ce l’ha?), almeno di questa non dobbiamo vergognarci. Anzi, dopo tanto buio, in questi punti possiamo finalmente riconoscerci.

Anche Pinocchio ha avuto un’altra occasione

Nel suo discorso Conte si è perfino spinto a proporre una prospettiva culturale di fondo: «Molto spesso negli interventi pubblici pronunciati ho evocato la forma di un nuovo umanesimo: non ho mai pensato fosse lo slogan di un governo, ma un orizzonte ideale per il Paese».

No, non credo proprio che sarà questo governo a inaugurare un nuovo umanesimo. Ma apprezzo la consapevolezza che qui si tratta non solo di fare questa o quella “cosa”, ma di cambiare una cultura.

Nell’insistenza del presidente incaricato sulla «novità», rispetto al passato, colgo l’implicita ammissione che in questo momento trionfa – e non solo in Italia – un dis-umanesimo che non è solo vizio della politica, ma è diventato modo di pensare e di vivere diffuso.

Peccato che proprio Conte abbia avallato per più di un anno questa deriva… Ora comunque sembra aver preso coscienza di aver sbagliato. E anche Pinocchio, nel romanzo, ha avuto un’altra occasione per cambiare.

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