Ho incontrato Frediano Sessi per la prima volta circa trenta anni fa, in occasione di una assemblea scolastica, quando parlò agli studenti dello sterminio degli ebrei (Shoah): dalle leggi razziali ai campi di concentramento. Ricordo che aveva saputo trasmettere ai giovani il senso di un progressivo e inaudito baratro di disumanità senza che ciò fosse esattamente percepito, nella gran parte dei casi, da chi lo stava vivendo, sia gli aguzzini e sia, forse, le stesse vittime (Giordano Cavallari, curatore dell’intervista).
Caro Frediano in questi anni sei tornato molto a parlarne e a scriverne, sino al tuo ultimo libro L’angelo di Auschwitz: Mala Zimetbaum l’ebrea che sfidò i nazisti, Marsilio, 2019. Vuoi dire perché hai tanto studiato, scritto, parlato di ciò? Cosa c’è di fondamentale, per te?
Innanzitutto, sono arrivato alla constatazione che lo sterminio degli ebrei d’Europa e l’uccisione sistematica degli oppositori al regime nazista (e di tutti coloro che secondo i valori nazisti non appartenevano alla razza ariana: malati di mente, disabili, sinti e rom ecc.), fu opera di uomini e donne che oggi definiremmo «normali», tutt’altro che mostri violenti e sadici, che avevano aderito a un’utopia secondo loro salvifica, ai fini della costruzione di una «nuova Europa millenaria».
Tra loro c’erano in senso stretto gli esecutori dello sterminio e anche coloro, ed erano assai più numerosi, che lo condividevano, formando una rete di sostegno al progetto generale.
In secondo luogo, quelle che lo storico Raul Hilberg chiama «le procedure dello sterminio e della violenza nazista», vale a dire gli atti legislativi e amministrativi che portarono alla guerra di aggressione, all’apertura dei campi di concentramento e a tutti quei provvedimenti che riguardarono gli ebrei e tutti gli altri esclusi dalla cittadinanza ariana tedesca, furono il frutto di uno Stato dittatoriale ma pur sempre governato da leggi e modalità di approccio alla realtà che si possono definire «razionali» frutto di procedure previste dalle leggi; non demoniache come ancora oggi molti sostengono.
Questi due elementi: la razionalità e la responsabilità di una intera comunità di popolo, pur all’interno di un sistema politico come quello nazista, rendono quel periodo storico molto vicino a noi. Se l’uomo civilizzato e colto ha accettato di sterminare degli innocenti per realizzare un progetto «millenario» razionale come era la costruzione di un «nuovo ordine europeo», allora quella storia può anche riproporsi. Intendo dire che è sempre possibile pensare a una nuova Europa degli europei!
«A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente», scrive Primo Levi nell’introduzione a Se questo è un uomo, ricordando al lettore che quel pensiero, quando diventa pratica sociale assunta dai governi, alimenta la paura dell’altro e genera forme nuove di segregazione.
«La storia dei campi di distruzione – prosegue Levi – dovrebbe venire intesa da tutti come sinistro segnale di pericolo», perché dalla xenofobia si può passare, quasi senza rendersene conto, al razzismo e alle forme più sottili e spesso condivise di violenza ed esclusione.
Le pratiche di odio, violenza, esclusione verso l’altro diverso da me, pericoloso per la mia comunità, non escludono che chi le sostiene sia poi capace di amore e solidarietà nei confronti dei propri famigliari e simili. Basterà leggere le lettere di Himmler, il capo supremo delle SS, alla moglie e ai figli per rendersene conto.
Puoi tratteggiare, necessariamente in estrema sintesi, la vicenda di Mala che tu minuziosamente, attraverso tutte le fonti disponibili, hai ricostruito per i lettori italiani?
È la storia di una giovane ebrea, poco più che ventenne, di nome Mala Zimetbaum. Deportata da Anversa nel Lager di Auschwitz, fin da subito viene segnalata dalle SS alla sorvegliante capo del campo delle donne, per la sua conoscenza delle lingue: parlava il tedesco, il francese, il polacco, il fiammingo e l’yiddish.
Così dopo le prime settimane terribili in quarantena, dove già più del 30 per cento delle donne ebree internate perdevano la vita, Mala viene scelta come interprete e portaordini. In quella posizione che le consente una certa libertà di movimento, la giovane decide di prestare soccorso alle donne ebree internate che incontra nel Lager; dapprima decine poi centinaia.
Mala era una ragazza intelligente e coraggiosa e, dopo il trauma dei primi giorni in Lager, decide di resistere e di contrastare la forza omicida dei nazisti.
Vuoi spendere due parole sul metodo, da te peraltro utilizzato per altre pubblicazioni a carattere approfondito: come si costruisce un libro così? Come lo definisci: un libro di storia, un saggio o quasi un romanzo tragico eppure profondo nello scavo dell’animo umano?
Ho visitato luoghi e archivi del Belgio, paese dal quale venne deportata, e del campo di Auschwitz; ho ricostruito il suo itinerario di vita, dal momento dell’arresto al momento del suo tentativo di fuga dal Lager, inseguendo tutte le tracce (documenti e testimonianze credibili).
Ho inoltre potuto disporre di una serie di lettere che, come detenuta interprete, Mala poté spedire dal campo ai suoi famigliari, cercando di avvertirli, senza allarmare la censura dei tedeschi, che Auschwitz era un campo di sterminio; ho visto le fotografie conservate nell’archivio di Mechelen. Inoltre ho fatto una ricerca accurata di tutte le memorie scritte di ex deportate che hanno parlato di lei: più di trecento, tra testi in italiano, tedesco, francese, polacco e neerlandese. Senza dimenticare la visita dei luoghi, delle case, delle strade e dei settori dei Lager dove visse (a forte Breendonk, nella caserma di Mechelen e a Birkenau).
Proprio a Birkenau ho potuto censire le ultime tracce della sua vita: una ciocca di capelli, scritte incise sui muri della prigione del Blocco 11 ecc. Anche alcuni film dei primi anni dopo la liberazione parlano un po’ di lei. E’ una ricerca durata 5, 6 anni.
Importante è stata anche la ricostruzione dei contesti storici dell’Europa e delle città e località in cui Mala ha vissuto. Occorreva ricostruire la vita quotidiana che aveva vissuto, fare vedere al lettore quel che lei aveva visto e anche soffermarsi sugli uomini e le donne, prigionieri o carnefici che aveva incontrato.
Il problema però era come utilizzare questo materiale: scrivere un saggio classico mi è sembrato inutile, troppo elitario; per cui pur mantenendo il registro del saggio storico, con note e rimandi ai documenti e ad altri studi, ho cercato di scrivere il testo come se fosse un racconto storico.
Tu dici una storia/romanzo tragico che scava nell’animo umano? Direi di sì, ma non solo nell’animo di Mala e dei suoi carnefici. Vorrei che la vita di Mala ci parlasse oggi dei valori e delle scelte che ha fatto per salvare le vite degli altri, fino a rinunciare alla sua.
La vicenda di Mala Zimetbaum e di Edek Galinski è forse stata rivestita, come scrivi, di una certa aura di mito, ma è certamente originale e toccante. Io vi ho ritrovato le domande che percorrono i grandi libri sull’universo concentrazionario, a partire da Primo Levi. Te ne pongo alcune perché tu ne possa fare qui un breve cenno. Cos’è la bontà in situazioni estreme? Come è possibile restare umani in un mondo disumano? Perché Mala, con poche altre persone, forse, è riuscita a conservare umanità e bontà e tante altre no? L’universo concentrazionario ha visto aguzzini perfetti e pure, se così si può dire, vittime perfette; eppure si sono date queste eccezioni (da una parte e dall’altra): è possibile darne una ragione ultima?
No, è difficile spiegare perché in quell’universo di violenza, solitudine e orrore, alcuni uomini, donne e anche alcuni ragazzi siano stati capaci di reagire e di pensare più che a sé stessi agli altri.
Certo, il desiderio di non perdere la propria «umanità» spinse alcuni detenuti (uomini e donne) a percorrere la strada della resistenza; una strada che si concretizzò anche in azioni di difficile e rischiosa solidarietà. Le vite dei prigionieri dei Lager che ho potuto studiare (più di un migliaio) mi dicono che chi entra in Lager con una fede (politica o religiosa) che si trasforma in pratica sociale, in altruismo, nella vita quotidiana prima dell’arresto, poi non cambia le sue scelte in condizioni estreme. Ma ci furono atti di coraggio e di opposizione ai nazisti in Lager che erano il prodotto di un “orgoglio” nazionalista. Non mi pare che ci sia una regola. Certo, lo ricorda anche Primo Levi, chi si trovava in una condizione di privilegio, chi non faceva parte della maggioranza dei detenuti, aveva più possibilità di fare emergere tratti e scelte di umanità.
Non dimentichiamo che lo scopo dei tedeschi era quello di annientare prima di tutto l’umanità delle persone e che ogni minimo atto di solidarietà, per esempio tra una madre e una figlia, era punito severamente con torture e anche con la morte immediata. «Distruggere l’uomo è difficile – scrive Primo Levi, in Se questo è un uomo – quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice».
La storia di Mala ed Edek è stata romanticamente interpretata, specie dal cinema, mi pare, pure come una bella storia d’amore tra donna e uomo. Tu mi sembri piuttosto dubbioso al riguardo. Giustamente ritieni che la categoria di “amore”, come tutte le categorie “morali”, debbano essere riviste “in un mondo fuori dal mondo”. Eppure non trovi che sia proprio questo amore in situazioni estreme a costituire quella essenza dell’amore in grado di affascinare ed alimentare le nostre vite in situazioni molto più ordinarie?
Sì, certo, ma nel caso di Mala, come in molti dei casi simili, poco studiati perché la questione della sessualità e dell’amore nei Lager rimane ancora un argomento tabù, come la questione della differenza di «genere», circa il trattamento diverso e il destino differente dei deportati uomini e delle deportate donne. Con Edek, Mala non dà vita a una storia d’amore nel senso in cui la intendiamo oggi.
Nella loro relazione, i due giovani cercano di ritrovare il senso di una loro umanità a rischio di essere perduta per sempre; e per questo cercano la libertà nella fuga, per denunciare i crimini in corso ad Auschwitz e per ritrovare così la loro dignità di esseri umani. Non c’è amore nella disperazione, ma certo il sorriso, l’affetto e il ritrovarsi per riconoscersi importanti l’uno per l’altra costituiscono insieme ad altre forme di esperienze amorose, atti di resistenza. Per chi stava perdendo tutto, anche la vita e non ritrovava più nemmeno nel suo volto la propria identità, avere qualcuno o qualcuna che mostrava affetto e simpatia o desiderio era un’importante ancora di salvezza, per risalire dal fondo.
Un’ultima domanda. Tu conosci molto bene la questione della Giornata della Memoria: ricordare, dimenticare, serve o non serve al fine che quanto è accaduto non accada più?
Non smettere di parlarne e, soprattutto, di approfondire è utile. Una commemorazione retorica e che si fermi alla superficie, rende banale questa storia. Spesso il 27 gennaio per taluni rappresenta solo un obbligo istituzionale. Occorre superare ogni forma di semplificazione, nel racconto di queste vicende, e collegare il passato al presente: quel che è accaduto sta dentro la modernità e la razionalità che ancora oggi ci governa e guida.
Per arrivare a costruire una società inclusiva, che sappia accogliere e dialogare occorre anche conoscere il passato e ricordare le vittime. Ma non basta. Il lavoro per la comprensione della storia e per la costruzione di reti sociali in grado di favorire pace e solidarietà è tanto e complesso: nelle scuole, nelle sedi politiche e religiose, nelle famiglie.