In tutta franchezza, le comunicazioni del premier Conte suffragate dal voto di fiducia delle Camere non hanno granché cambiato i termini del problema. Nonostante la estensione del suo discorso e il cumulo dei buoni propositi. Propositi tanto condivisibili quanto generici. Di più: giocati su uno studiato equilibrio, quello del cosiddetto «ma anche», dell’una cosa ma pure dell’altra, senza esporsi, senza mai esagerare nelle scelte di campo: sicurezza e umanità, sviluppo e welfare, autonomia differenziata e coesione sociale e nazionale, lavoratori e imprese, nord e sud, riduzione fiscale e progressività, grandi opere e tutela ambientale, rispetto dei parametri europei e loro revisione.
Stiamo perciò alla sostanza della crisi, del passaggio dal Conte 1 al Conte 2, chiamando le cose con il loro nome. A produrla, come è noto, è stato Salvini con la sua pretesa unilaterale di portare il paese alle urne così da andare all’incasso del consenso accreditato da sondaggi e test elettorali. Da ultimo quello europeo.
Salvini, il grande architetto della crisi
Prevedibile la reazione di chi coltivava l’opposto interesse: scongiurare il voto e stoppare Salvini e la sua ambizione egemonica (i «pieni poteri» da lui stesso invocati). Diciamo la verità: questa la reale e precisa intenzione comune a chi ha dato vita alla nuova maggioranza a sostegno del Conte 2. Sia chiaro: operazione costituzionalmente legittima, durando di regola cinque anni la legislatura (lo scioglimento anticipato è solo extrema ratio) ed essendo la nostra una democrazia parlamentare, nella quale le maggioranze si formano appunto in parlamento.
Esattamente come si costituì in parlamento la precedente maggioranza tra 5 Stelle e Lega, a urne chiuse, tra forze antagoniste. E soluzione tutt’altro che priva di motivazione: porre un argine a Salvini è obiettivo da non considerare snobisticamente minore.
Arginare Salvini
Almeno da tre punti di vista: la torsione da lui evocata e, in certo modo, già impressa rispetto al modulo delle democrazie liberali europee (alla scuola dei Putin e degli Orban); il suo conseguente, oggettivo contributo all’isolamento internazionale del nostro paese, specie nei rapporti con le istituzioni UE; la cifra sovranista e nazional-populista della sua politica dell’immigrazione, tanto lucrosa sul piano del facile consenso quanto pagata a caro prezzo in termini di umanità, di civiltà, di diritti. E di discredito per l’immagine dell’Italia.
Si pensi al ricatto dei porti chiusi a imbarcazioni con disperati a bordo. Dunque, al di là dei discorsi di un premier diciamo così versatile – da notaio-mediatore tra Di Maio e Salvini ad aspirante leader di una maggioranza di tutt’altro colore – i due punti di sostanza, tra loro connessi, che vorrebbero marcare la differenza sono il ripristino dei fondamentali della nostra politica estera di marca euro-atlantica (attestati da vari segnali di sostegno al nuovo esecutivo da parte delle cancellerie occidentali) e la battuta d’arresto del populismo di governo del quale il nostro paese era assurto ad avamposto in Europa.
Non è poco. La più parte dei nuovi ministri che presidiano il fronte del rapporto con le istituzioni UE e soprattutto la nomina dell’ex premier Gentiloni quale Commissario cui è affidato il cruciale portafoglio degli affari economici rappresentano, essi sì, una positiva svolta.
Una coalizione conflittuale e leggera
Sul resto, francamente, la svolta e la discontinuità tanto invocate dal PD sono, al momento, ancora una mera suggestione. Così come non è affatto sicuro che il Conte 2 possa avere fortuna e reggere, come da impegno, per l’intera legislatura. Su di esso incombono incognite, problemi, insidie. Esemplificando: la persistenza di marcate divisioni programmatiche tra i partner di governo (si pensi solo a sicurezza, immigrazione, giustizia, infrastrutture); le loro divisioni interne (la variabile Renzi per il PD e il M5S che non si sa più a chi risponda: Grillo, Di Maio, Conte, Casaleggio?); la diffidenza reciproca alimentata da anni di pregiudizi e di insolenze; la feroce campagna della opposizione contro un’asserita manovra di palazzo propiziata da opportunismo e trasformismo.
Qui sta soprattutto la principale difficoltà. La preoccupazione che l’innegabile dose di trasformismo che ha segnato questo brusco passaggio semmai dia fiato al populismo che si vorrebbe contrastare. Perché è palese il sapore di leggerezza se non di strumentalità di un cumulo di conversioni, troppe e troppo estemporanee: di Conte, di Renzi, di Di Maio, di Zingaretti e giù giù del ceto politico-parlamentare di entrambi i gruppi in guerra sino a ieri.
Come si governa insieme?
Proprio Zingaretti ha posto da subito una questione cruciale: il «contratto di governo», nel quale semplicemente si accostano e si sommano programmi diversi e su più punti in conflitto (con oneri insostenibili per la finanza pubblica), è strumento improprio; esso pone in radice il germe della sua dissoluzione.
Si richiede una più robusta «alleanza politica» tra partiti impegnati a operare una sintesi, a elaborare una visione comune, a concepire una idea condivisa circa il futuro della società. Con eventuali, auspicate implicazioni e ricadute ai vari livelli territoriali. Ma una tale, impegnativa prospettiva non si improvvisa. Si richiedono tempi e lavoro, progettuale e programmatico.
Romano Prodi, che, tra i primi, aveva auspicato tale soluzione di governo denominandola «maggioranza Ursula» (in quanto composta da PD e 5 Stelle, con il loro decisivo voto a favore della neopresidente della Commissione UE), aveva suggerito di adottare il metodo seguito in Germania per allestire la «grande coalizione» tra cristiano democratici e socialisti.
Partiti seri di un paese serio. Essi impegnarono lunghi mesi di trattative per concordare un programma sin nei minimi dettagli. Non, come nel nostro caso, qualche giorno, dal quale è sortito un generico elenco di ventinove punti. Con, a monte, la decisione che, comunque, la cosa si doveva fare a prescindere (semmai sarebbe potuta saltare sugli equilibri negli organigrammi). Per inciso: senza che i due leader, Di Maio e Zingaretti, mai si fossero esposti pubblicamente insieme.
Ecco le due difficili scommesse: 1) che un governo nato dentro una concitata distretta, frutto di uno stato di necessità e di un matrimonio di interesse, in corso d’opera, possa maturare un respiro ideale e politico e magari mettere in moto una sana evoluzione del sistema politico verso un nuovo bipolarismo lungo l’asse destra-sinistra, che, qualsiasi cosa se ne dica, esistono eccome; 2) che alla fiducia che il parlamento ha dato al Conte «nuova versione» possa corrispondere la fiducia della maggioranza degli italiani.
Al momento non sembra che ancora sia così. Domani chissà.