Il maestro Federico Mantovani (1968) nasce a San Giovanni in Croce (Cremona), da cui si muove per studiare, prima a Mantova, con il maestro Sabbadini, che lo avvia allo studio della composizione, poi a Parma, in Università, dove si laurea in Lettere moderne, e al Conservatorio, dove consegue i diplomi di Composizione e di Direzione d’orchestra. Ha insegnato come supplente in Conservatorio, poi passa a insegnare materie letterarie nella scuola secondaria; finché non decide di rientrare in Conservatorio, dove insegna teoria musicale. Sposato con Enrica, hanno un figlio – Martino.
Federico potresti fare una presentazione della tua figura per i lettori di SettimanaNews?
La mia formazione è stata segnata da un costante, anche se in alcune fasi più inquieto, rapporto con i valori e i riferimenti cristiani cattolici. Vengo da una famiglia praticante, testimone fedele nelle opere, prima che a parole, di quei valori e di quella cultura.
In casa dei miei si trovano tanti libri di teologia, di esegesi biblica (la passione di mio padre) e testi di spiritualità. Sono nato e ho vissuto in un piccolo paese della provincia di Cremona, San Giovanni in Croce, e lì ho iniziato a praticare la musica, prima studiando il pianoforte nella canonica del paese, poi accompagnando le funzioni in chiesa e dirigendo il coro, mentre iniziavo a studiare composizione.
Con lo studio al liceo classico prima e poi all’Università e al Conservatorio la mia formazione culturale si è aperta a tante influenze che venivano dal mondo laico. Anche grazie al confronto con queste posizioni, sempre utile a maturare una più personale visione culturale ed esistenziale, ho approfondito i valori fondanti della mia educazione. Il servizio civile in Caritas, l’incarico di direttore del Coro Polifonico Cremonese, che da sempre esegue esclusivamente musica sacra nella Cattedrale di Cremona, il rapporto con l’Associazione Italiana Santa Cecilia e la collaborazione con intellettuali legati alla cultura cattolica hanno ulteriormente segnato in senso cristiano il mio percorso artistico.
La parte più importante della mia attività, soprattutto negli ultimi anni, si è concentrata sulla musica sacra, sia come direttore del Coro Polifonico Cremonese, con l’esecuzione di molte opere del repertorio, da Bach a Mendelssohn, da Schubert a Beethoven, da Rossini a Perosi, che come compositore.
Ho scritto diverse opere, Cantate o Oratori che li si voglia chiamare, per grandi organici, con solisti, coro, orchestra e voce recitante: Pater pauperum, dedicata alla figura del Santo patrono di Cremona Omobono, primo santo laico; Vergine Madre, con testi di Turoldo e di don Tonino Bello; La più bella avventura, dedicata al pensiero e alla testimonianza profetica di don Primo Mazzolari; Accendere, attendere, Oratorio moderno su testo del poeta contemporaneo Davide Rondoni; Con Te, Cantata commissionata dal Vescovo di Cremona Lafranconi a chiusura dell’Anno della Fede nel 2013; Canto di Misericordia, commissionato per il Giubileo della Misericordia; e, ultima, lo scorso anno, Letizia d’amore, stelle e precipizio, su testo poetico di Davide Rondoni, commissionata dal Vescovo Napolioni e ispirata all’Esortazione apostolica Amoris laetitia di Papa Francesco. Due anni fa ho scritto anche l’Oratorio Mia libertà è servir Cristo, sul martirio di Santa Giulia, che non è ancora stato eseguito.
Musica sacra e pastorale oggi
Cosa intendi per musica sacra e per Cantata sacra?
Le forme musicali dei miei lavori sacri appartengono alla tradizione, certo. Per cui li definisco Cantate quando i solisti e il coro non interpretano ruoli di personaggi ma semplicemente intonano testi su temi particolari, e li chiamo Oratori quando i solisti e il coro danno voce a dei personaggi. Lascio poi ai critici il compito di indagare e meglio definire la forma musicale di appartenenza dei miei lavori.
Cantata sacra oggi per me significa dunque una composizione religiosa di grande respiro su testi tratti da passi della Scrittura e da scritti spirituali di santi, di poeti, di pensatori o di profeti moderni, per una riflessione profonda intorno a quei temi fondamentali che s’intrecciano nelle mie opere: misericordia e giustizia, amore e dolore familiare, fede e speranza, carità e pace, profezia e testimonianza.
Cantate in questo senso laiche e religiose insieme, come ha detto don Bruno Bignami, presidente della «Fondazione Mazzolari» di Bozzolo, a proposito de La più bella avventura. Lavori che intercettano le domande di senso di tanti, cristiani e non cristiani, e arrivano a comunicare in modo diretto e forte attraverso il linguaggio non banale della musica d’arte.
Sono convinto quindi che ci sia un bisogno urgente di nuovi lavori musicali sacri e che debbano trovare più spazio all’interno dei progetti culturali della Chiesa, anche per garantire una seria alternativa a proposte culturali troppo liquide, effimere, fondate davvero sulla sabbia.
La nuova musica sacra di oggi – e così cerco di fare nei miei lavori – deve essere concepita con intelligenza e trasporto emotivo, realizzata con solido artigianato e ariosa freschezza, mossa da una visione alta e popolare allo stesso tempo, lontana tanto dallo spiritualismo dolciastro quanto dalla retorica ammuffita. Deve essere comprensibile ma non banale, comunicativa e non autoreferenziale.
Non si deve avere paura di essere moderni, ma nello stesso tempo bisogna confrontarsi con le forme della tradizione rinnovandone la portata comunicativa. Se io ascolto una composizione sacra di Mozart, provo sentimenti profondi di pietas, piuttosto che di gioia o di incanto e meraviglia. Altrettanto devono essere in grado di fare le composizioni di oggi.
Se al contrario suscitano fastidio e non coinvolgono l’ascoltatore in modo profondo e non effimero, allora non credo possano veicolare quel «mistero» che è in ogni esperienza del sacro. Insomma, la musica sacra deve nascere dal desiderio di interrogarsi sul rapporto tra l’uomo e Dio, e sulle questioni che muovono l’anima, la ragione e il cuore.
Speriamo che la Chiesa sostenga la nuova musica sacra e si faccia ancora coraggiosa committente, com’è sempre stata nella sua storia e com’è stata con me in questi anni.
La musica sacra può avere ancora un ruolo e uno sviluppo nella pastorale della Chiesa?
Credo proprio di sì, come si verificava, in ambito luterano, con le Cantate di Bach, che nascevano proprio con questo compito teologico pastorale. Oggi c’è una diffusa ignoranza, anche nel popolo cristiano, e bisogna porvi rimedio.
Parole e temi che fanno parte della tradizione cristiana non sono più conosciuti, sommersi da una globalizzazione culturale che si afferma in modo totalitario. Penso però alla “resistenza” rappresentata ancora da cori sparsi nel mondo, a chi anima le liturgie, a chi fa concerti di musica sacra, protagonisti in concreto di un’opera culturale e pastorale, di evangelizzazione. La musica infatti arriva là dove non arrivano le parole o le prediche o le conferenze e i convegni.
La musica va diritta al cuore e all’intelligenza, all’anima e al corpo. Qualcuno diceva che saranno proprio i nostri canti a salvarci dalla secolarizzazione imperante. Bisogna però educare i più piccoli e i più giovani, che sono sommersi da musica di plastica, finta, banale quando non dannosa, che inquina davvero le menti e i cuori dei più fragili, e che di artistico, di bello dentro, non ha nulla. Un inquinamento di suoni che non lascia spazio per il silenzio e la riflessione interiore, per la preghiera o per la contemplazione della solenne magnificenza del creato.
Io credo nella musica d’arte, e in quella sacra, che proprio dal silenzio deve partire. Per quella musica, come per tutta la musica d’arte della nostra tradizione occidentale, c’è però bisogno di un tempo adeguato e di luoghi idonei per un ascolto attento; e anche di qualche divulgatore appassionato che faccia conoscere ed apprezzare. La musica può davvero muovere in alto i cuori. Anche i miei lavori credo siano di aiuto ad un’opera di evangelizzazione, e rappresentano occasioni importanti per me, anzitutto, ma anche per gli esecutori e gli spettatori, di crescita spirituale, per fare un percorso contemplativo profondo, tra la terra e il cielo. E l’aspetto più bello è che questo percorso è davvero condiviso con gli altri nel momento del concerto finale.
La Parola e la musica
La musica sacra cristiana prende origine dal rapporto con la Parola ispirata, ove la musica potenzia gli effetti del verbo o persino cerca di raggiungere l’indicibile. Mi pare che nelle tue composizioni ci sia una particolare cura della coniugazione del linguaggio verbale col musicale. Mi pare che tu voglia che la Parola (e quindi le parole) giungano chiare e ben comprensibili agli ascoltatori. Mentre affidi alla musica il compito di accompagnare, veicolare, amplificare… la Parola. È così? Spiegami meglio come tu cerchi di legare i due linguaggi, specie nelle tue composizioni di musica sacra?
Sono d’accordo con la tua analisi attenta. È vero, le parole hanno un ruolo decisivo nella creazione della mia musica, sacra e non solo. Spesso infatti anche nella musica senza parole sono stati testi poetici ad ispirare un movimento creativo e a definire le coordinate formali di una composizione.
Tutta la Cantata dedicata a don Primo Mazzolari per esempio è stata concepita come intarsio tra le sue parole e la Parola a cui si ispirava quotidianamente, tra il Vangelo e la sua riflessione sulla carità, sulla giustizia, sulla pace. E il lavoro di costruzione del libretto, che ho articolato in sezioni e che procede parallelo alla scrittura musicale, è stato un lavoro importante tanto quello della composizione musicale.
Esamino sempre i testi, li leggo, li scompongo, isolo delle frasi e delle singole parole, proprio per dare una struttura già musicale. Quindi costruisco una tela di parole, alcune isolate e nette che dovranno essere intonate, altre più discorsive da affidare alla voce recitante che entra nel tessuto strumentale sostenuta dall’orchestra o ispiratrice essa stessa di armonie, di colori, di scarti dinamici, di accensioni, di contemplazioni.
Da questo punto di vista la lezione di autori come Stravinsky, Honegger, Schönberg o altri, che hanno usato la voce recitante immergendola nella partitura, è ancora attualissima.
Costruisco una specie di sceneggiatura, di drammaturgia. Così ci sono le parole di «pietra» e quelle piene di dolcezza, scolpite in armonie dense o allentate in un linea melodica sinuosa. Scelgo determinate parole perché quelle parole, oltre a sintetizzare senza orpelli un pensiero, indicano già una traiettoria musicale.
Le faccio sentire con chiarezza, certo, e spesso ripetere: cerco una sorta di “masticazione” perché s’imprimano nella memoria e nei cuori. Ma altre volte le frantumo anche nei loro fonemi, perché siano quei suoni poi a fare i colori musicali. Cantate da voci virili o femminili, aspre e tese oppure tenere e dolci, ribattute, sospese, incendiate dalla musica o alleggerite in un tessuto orchestrale trasparente, le parole determinano le scelte musicali, l’uso di un andamento a corale o più contrappuntistico, le scelte dei percorsi armonici e dei colori orchestrali; e la musica, a sua volta, sottolinea le parole, dà loro vita e profondità.
Le tue Cantate sacre si lasciano facilmente ascoltare con riscontro e commozione immediata da parte del pubblico – ne sono testimone – forse perché sono fatte con musica tonale, in qualche modo tradizionale, melodica, sia pure con qualche punta di discontinuità che guarda alla contemporaneità musicale. Questa è una tua scelta per facilitare l’ascolto e la ricezione ovvero pensi che la musica, specie sacra, abbia in qualche modo trovato e debba conservare quelle forme espressive che sappiamo sicuramente in grado, quando c’è la qualità, di toccare l’animo umano?
Un compositore tedesco contemporaneo molto eseguito, Wolfgang Rihm, che pure scrive musica di non immediata ricezione, sostiene che tutta la musica è «patetica».
Può sembrare un’affermazione troppo banale, soprattutto perché la musica contemporanea si è sempre identificata con la musica astratta, intellettuale, strutturalista, fatta di calcolo matematico e di “anestetizzazione dei sentimenti”. Ma in realtà Rihm ha ragione: la musica incide sempre nel sentimento dell’ascoltatore e dell’interprete.
La mia musica si fonda su questo elemento profondo di «commozione», il che non significa abdicare al sapiente artigianato, alla costruzione, alle ragioni dell’intelligenza. Il sentimentalismo è dannoso tanto quanto il cerebralismo. Dalla musica scritta oggi deve uscire ancora l’uomo nella sua integralità, con creazioni ispirate e in grado di muovere gli «affetti», come si diceva nel Barocco. Toccare l’animo umano non dev’essere un tabù anche per l’artista di oggi. È vero che da sempre la creazione artistica è frutto di applicazione più che di ispirazione, ma questa parola, che ha a che fare con lo Spirito e con la vita, con il soffio vitale, non dev’essere considerata reazionaria.
E la musica di tradizione tonale, per me, pur con tutte le direzioni divergenti e moderniste, è il terreno da cui partire per potere comunicare. Questo non significa che bisogna essere impantanati lì. Nei miei lavori mescolo le carte, e anche attraverso la scelta dell’andamento dei tempi e dell’orchestrazione cerco di ricreare dei paesaggi sonori, dei colori, più che di attenermi a degli accademismi fini a sé stessi.
Molti compositori della mia generazione si stanno riavvicinando alla «melodia» e ad un’armonia di tradizione tonale o modale, senza per questo costruire musiche vecchie. La facilità di scrittura melodica poi è il prodotto non già di una semplificazione linguistica, ma di una lenta e faticosa conquista. E una melodia acquista il suo vero senso solo con l’armonia che la sostiene, con il colore orchestrale che la riveste e con il contrappunto continuo tra le parti.
Insomma, è un lavoro complesso che non vuole fare sfoggio della tecnica, ma usarla per aprirsi e comunicare. Se poi il pubblico si sente colpito ed emozionato dai miei lavori, beh… questo è un «mistero» che non sono in grado di spiegare io.
Per me la musica è autentica o inautentica. A ognuno il suo stile. Ma ad ogni interprete e ad ogni ascoltatore il diritto di sentirsi coinvolto o di dichiararsi estraneo.
Liturgia e celebrazione
Come ti poni rispetto alle vecchie e non risolte (e, per la verità, poco discusse) questioni dell’uso del canto e della musica nella liturgia cattolica? A quali condizioni, secondo te, canto e musica possono risultare con adeguatezza nella liturgia?
Questo è un argomento molto articolato, che richiederebbe una lunga trattazione. L’ho affrontato spesso, anche in consessi pubblici. La questione è ancora aperta, dopo la riforma liturgica del Vaticano II, anche se non sembra essere la più urgente nella discussione all’interno del mondo cattolico, come sottolineavi tu.
Penso sempre a Paul Claudel che si convertì al cattolicesimo ascoltando durante i Vespri di Natale il canto del Magnificat a Notre-Dame e sentì da allora «l’eterna infanzia di Dio», come scrisse. La musica liturgica quindi aiuta, quando risponde davvero ai criteri della santità, della bontà delle forme e dell’universalità, ad «aumentare» la fede e a convertire i cuori, proprio perché la liturgia è culmen e fons di tutta la vita della Chiesa, come ricorda la costituzione liturgica Sacrosanctum concilium.
Il canto gregoriano, anzitutto, poi la polifonia antica e nuova, e insieme una musica liturgica popolare – quelle melodie così ricche di pregnanza e di vita che ancora si cantano, ad una voce, in chiesa scritte da compositori formati liturgicamente e musicalmente – decisamente aiutano. Le musiche dei movimenti, che poi sono entrate nelle chiese, non sono sempre così rappresentative di tutto il popolo cristiano.
Le «messe dei giovani» sono poi diventate messe di tutti, e la musica che oggi passa, laddove non ci sono validi ministri della musica e sacerdoti sensibili e attenti, è quella e solo quella. L’altro problema è poi quello la «partecipazione attiva» dell’assemblea. Dopo anni di riflessioni, penso si possa dire che se l’assemblea dei fedeli deve partecipare attivamente in alcuni momenti, cantando, in altri può partecipare attivamente pure solo ascoltando un mottetto polifonico eseguito con cura dalla schola cantorum. La musica nella liturgia deve essere davvero una sinfonia dove si attua il pieno movimento dell’Incarnazione della Parola, ove la Parola, nell’accezione biblica, è parola creatrice, è Spirito che comunica ed esprime, ed ove le voci educate della schola si uniscono alle voci del popolo dei fedeli.
Io critico, di tante musiche che si sentono nelle chiese oggi, l’appiattimento espressivo, la non aderenza al rito, le forme banali nella musica e nel testo, non consone alla grandezza del mistero di salvezza che si celebra. La musica della liturgia deve servire umilmente il rito ma con vera e grande arte. La chiesa non è uno spazio dove si può fare e ascoltare di tutto.
Una musica liturgica veramente «sacra» deve dare calore, vita e pregnanza ai testi intonati. Sembrano lontane e dimenticate le parole di Paolo VI che diceva che non indistintamente tutto ciò che sta fuori dal tempio (profanum) è atto a superarne la soglia. La musica e il canto che non possiedono il senso della preghiera, della dignità e della bellezza non sono né sacri né religiosi, e men che meno liturgici. Non è un problema solo di strumenti musicali impiegati, ma dell’uso che si fa di quegli strumenti.
È chiaro che un organo accompagna meglio il canto assembleare, con maggiore ricchezza di colori, presenza e solennità, di una chitarra, che invece può essere impiegata in un consesso più raccolto e giovanile.
Anche il latino non dev’essere disperso. Si pensi per esempio quando la famiglia cristiana vuole celebrare la sua cattolicità, la sua universalità, e si canta in latino. Il fatto reale è che non si conosce più il latino della Chiesa, che nei seminari si insegna poco il gregoriano e la musica liturgica. Ma non deve mai venire meno la speranza. Sono importanti le scuole diocesane e la formazione musicale e liturgica dei più giovani, di giovani che amino la liturgia, oltre alla musica.
Sei in grado di confrontare questi aspetti con le prassi e i canoni (e gli investimenti) delle Chiese cristiane protestanti ed ortodosse?
Non sono in grado di stabilire in modo puntuale un confronto, ma certo so che nei paesi tedeschi si mettono in campo competenze e professionalità qualificate e riconosciute, mentre si continua a portare avanti anche il canto popolare. E così in Inghilterra, dove si unisce la tradizione alle nuove composizioni, con cori educatissimi anche nei piccoli centri.
In Austria, in ambito cattolico, quella del maestro di cappella è una vera professione, con tanto di riconoscimento economico e di organizzazione per fare davvero musica d’arte. Nel mondo protestante il popolo ha sempre cantato, e così nel mondo ortodosso, dove pure la liturgia ha tempi molto dilatati ed è sempre accompagnata dal canto della tradizione.
La situazione in Italia è invece molto confusa: accanto a chi si dedica alla musica e al canto con cognizione di causa e umiltà, ci sono altri che servono più il proprio ego che la liturgia. E il parroco di turno, piuttosto di non avere nessuno che accompagna il canto durante la messa, si accontenta delle chitarre, quando non è lui per primo a seguire le mode del momento.
Bisogna formare ministri della liturgia, organisti e direttori di coro. Qui si tratta davvero di servire le anime e, come si trovano sempre i soldi per sistemare i pluviali delle chiese o per costruire un campo di calcetto all’oratorio, bisogna sforzarsi di trovare anche le risorse per formare e seguire giovani che si dedicano alla musica liturgica.
La tradizione del popolo cristiano, la sua arte e la sua cultura, non vanno dismessi. È un tesoro inestimabile che rischia di disperdersi nell’indifferenza generale. Serve una formazione permanente e un corso permanente di «cultura cattolica», che vada dall’arte alla letteratura, dalla liturgia alla musica sacra, dalla conoscenza delle orazioni in latino all’approfondimento della Parola. Solo così saremo in grado di far fronte in modo serio, competente e appassionato al dialogo culturale, interconfessionale e interreligioso globalizzato.
Fare arte nella Chiesa: servizio di carità
La composizione e soprattutto l’esecuzione delle tue opere richiedono condizioni (orchestra, coro, solisti, voce recitante… spazi, ecc.) spesso complesse e inevitabilmente costose. È possibile promuovere tali condizioni di possibilità, soprattutto economiche? La Chiesa potrebbe e dovrebbe secondo te investire di più in tal senso?
Fare arte nella Chiesa, oggi, è anche un servizio di carità. Si aiuta il popolo tutto ad elevarsi. Anche la cultura è una forma di carità. Per cui penso di sì, che si debbano trovare delle soluzioni per dare occasioni concrete per promuovere queste iniziative. E poi non pensiamo che costino chissà quanto. Si spende molto di più per altri progetti che forse non portano a nulla.
Io sono stato fortunato, perché a Cremona ho trovato molta attenzione a questo aspetto del mio lavoro. Negli anni, con intraprendenza, passione e fatica ho portato avanti le ragioni di questo impegno, trovando un pubblico attento che partecipa sempre più numeroso.
Certo, anche per distinguermi dalla miriade di canti religiosi, ho fatto la scelta di lavorare con grandi organici, con cori, orchestre e solisti, organici più difficili poi da spostare per le repliche.
Sarebbe necessario, a mio avviso, fare progetti culturali coraggiosi, dove la musica d’arte composta trova spazio, coinvolgendo, come ho fatto, anche scrittori e poeti contemporanei.
C’è poi la necessità di affidarsi a chi è in grado di organizzare la distribuzione di questi grandi lavori, perché il rischio è quello di eseguirli una volta e basta.
In questo senso una collaborazione, ad esempio, tra la CEI, che individua e sostiene i progetti più interessanti, e i Conservatori sparsi sul territorio nazionale, penso possa rappresentare un modo concreto per potere replicare questi lavori in luoghi diversi. Faccio un esempio pratico. Se devo portare una mia Cantata lontano da Cremona, non posso pensare di organizzare un viaggio per coro e orchestra, sostenendo le spese di vitto e alloggio per tutti. Ma potrò cercare una collaborazione sul posto, con cori e orchestre di lì, e con forze che provengono dai Conservatori di lì.
Laico intellettuale cattolico: accetti questa definizione? Contano e servono ancora gli intellettuali cattolici?
Non mi arrabbio, anzi ne sono onorato. Penso di avere trovato, nella forma dei lavori sacri che compongo, il modo più forte per unire le diverse componenti: letterarie, teologiche, esegetiche e musicali. Questo fa parte della mia formazione, del mio essere e della mia arte.
Ho trovato una mia via, che unisce una grande passione per la cultura cristiana con la testimonianza, penso, per poter condividere con gli altri attraverso l’arte musicale. Fare arte implica coraggio, e fare arte cattolica ancora di più. Il rischio è che si venga emarginati da certi ambienti culturali, sempre alla ricerca del nuovo o della provocazione a tutti i costi.
Io credo invece che la modernità stia proprio qui, in questo continuare a seminare occasioni di riflessione condivisa. Il popolo, cristiano e non, ha desiderio di un’arte comprensibile che muova l’intelligenza e il cuore. Ma che sia arte, anzitutto. Ed è stufo dell’omologazione culturale, ha bisogno di intercettare voci diverse e autentiche.
Per cui ben vengano intellettuali cattolici preparati e coraggiosi, sempre più indispensabili in un momento storico in cui il pensiero è messo da parte.
Per ascoltare i lavori sacri del maestro Mantovani ci si può rivolgere personalmente a lui (federicomantovani@libero.it) o contattare l’Ufficio comunicazioni della diocesi di Cremona.