Un’edizione coraggiosa, quella appena conclusa del tradizionale appuntamento di mezz’estate del Segretariato attività ecumeniche (SAE), fondato negli anni ’60 da Maria Vingiani. Non solo perché portare avanti le istanze del popolo del dialogo in un contesto sociale come quello italiano di questi mesi affannati appare tutt’altro che ovvio, ma anche per il tema scelto, assai delicato: Le Chiese di fronte alla ricchezza, alla povertà e ai beni della terra.
Era la 56ª edizione e, come sempre, è stata una cartina di tornasole preziosa per fare il punto sul movimento ecumenico nazionale.
Si è svolta in una location classica per tali appuntamenti, la Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli (Assisi), dal 22 al 27 luglio.
Oltre duecento i partecipanti da tutt’Italia, ebrei cristiani e musulmani, in un clima positivo, con tanta voglia di incontrarsi e di raccontarsi. Non sono mancati momenti esterni, alla Porziuncola e a Rivotorto.
Impossibile dar conto dei molti contributi offerti nell’occasione, provando a sintetizzarli potremmo dire: Dio ama i poveri, ma non la povertà, tanto che le Chiese sono chiamate a lottare contro di essa in ogni modo, utilizzando sia lo studio della Bibbia e della teologia sia le scienze umane, dalla sociologia all’economia. Ecco perché i lavori del SAE hanno rappresentato un antipasto per l’evento che si terrà, sempre ad Assisi, fra il 26 e il 28 marzo 2020: Economy of Francesco. Una strada complessa, quella della lotta alla povertà, ma anche necessaria; d’altra parte, come scriveva Machado, è solo camminando che si apre cammino.
Laboratorio 4
Di seguito, la traccia, da me predisposta, che ha guidato i lavori del laboratorio n.4, condotto dal sottoscritto insieme a Gianni Novelli, don Giovanni Cereti, il pastore Willy Jourdan e padre Traian Valdman (Giustizia, pace, salvaguardia del creato: bilancio di un impegno ecumenico pluridecennale).
«… più i cristiani saranno fedeli al Vangelo, più facilmente si incontreranno e troveranno unità e comunione. La troveranno nel loro Signore, guidati dallo Spirito nella pratica quotidiana del Vangelo». (Matta El Meskin)
«Nello spirito del Vangelo dobbiamo rielaborare insieme la storia delle Chiese cristiane, che è caratterizzata, oltre che da molte buone esperienze, anche da divisioni, inimicizie e addirittura da scontri bellici. La colpa umana, la mancanza di amore, e la frequente strumentalizzazione della fede e delle Chiese in vista di interessi politici hanno gravemente nuociuto alla credibilità della testimonianza cristiana.
L’ecumenismo, per le cristiane e i cristiani, inizia pertanto con il rinnovamento dei cuori e con la disponibilità alla penitenza ed alla conversione» (Charta oecumenica n. 3).
A proposito dello stato di salute dell’ecumenismo è da tempo invalso l’uso di ricorrere alle immagini meteorologiche, per cui si è a lungo parlato dell’inverno ecumenico, o almeno di un autunno quanto mai grigio, seguito alla primavera densa di speranze (anzi, alla vera e propria euforia ecumenica) che caratterizzò gli anni del concilio Vaticano II e i loro immediati dintorni. Quando diversi fattori incisero nelle coscienze di tanti cristiani, singoli o riuniti in gruppo, delle varie confessioni, fino a immaginare prossimo il momento in cui la Chiesa sarebbe tornata (meglio che diventata!) una: la pressione di base delle comunità ecclesiali, una buona elaborazione teologica in progress, ma anche il clima culturale generale degli anni Sessanta e Settanta, ben disposto, nonostante mille contraddizioni, al dialogare, alla ricerca della pace e della giustizia su scala planetaria, al superamento delle discriminazioni fra i popoli e all’interno delle singole nazioni.
Un’epoca post-ecumenica?
Non andò così. Anzi, i successivi e impetuosi processi di globalizzazione, resi obsoleti i classici strumenti di analisi sociopolitica, concorreranno a produrre un pianeta ancor più squilibrato, preda di reciproche paure e diffidenze, incapace di guardare positivamente al futuro e convinto in tante sue componenti di stare vivendo un autentico scontro di civiltà. In cui anche i nuovi protagonismi sociali e politici delle compagini religiose (La rivincita di Dio di G. Kepel), più che favorire dinamiche di vicendevole accoglienza e di incontro pacificato, hanno, al contrario, alimentato il proliferare di mille chiusure identitarie. Da più parti, così, si è cominciato a parlare di un’epoca post-ecumenica…
Un momento complesso, non c’è dubbio.
Da un versante, in effetti, si continua coraggiosamente a ripetere che, in un mondo globalizzato e in crisi su più fronti, così come gli italiani, crocianamente, non possono non dirsi cristiani, oggi non possiamo non dirci ecumenici; ma, dall’altro, si stenta a trovare, da parte degli attori coinvolti, un linguaggio comune e una traiettoria condivisa per tradurre nel concreto le spinte (in calo, ma ancora presenti) provenienti dal basso.
Il teologo evangelico Oscar Cullmann, peraltro, sosteneva che l’impazienza ecumenica – «le cose non progrediscono abbastanza celermente» – potrebbe rivelarsi persino nociva alla causa dell’unità, rischiando di sottovalutare i progressi vissuti, «sorprendenti e irreversibili dopo una separazione di molti secoli». Per questo, si potrebbe dire che tutto (o almeno molto!) dipende dal punto di riferimento che assumiamo per valutare la situazione odierna.
Una crisi… di crescita
In ogni caso, e a dispetto di ogni comprensibile lamento sulle sue innegabili battute d’arresto, non si può non tener conto del fatto che parecchio di quanto si è riusciti a conseguire con tanta fatica oggi nel convivere dei cristiani è divenuto ovvio, naturale. Ad esempio, i leader delle Chiese si esprimono non di rado insieme sulle questioni sociopolitiche ed etiche, le comunità si riuniscono per funzioni religiose ecumeniche, e coppie di sposi di confessione mista pronunciano il loro fatidico sì in una cerimonia comune e sempre meno sorprendente. Il suo successo maggiore – alla fine – sta nel fatto che l’idea ecumenica non è rimasta solo un’idea, ma ha assunto forme di vita. Anche l’ecumenismo istituzionalizzato, che pure appare affaticato e messo in discussione, è in grado, nonostante tutto, di esibire una storia di discreti successi. Nel complesso, perciò, il bilancio, senza dimenticare tante questioni ancora inevase e altrettanti problemi irrisolti, risulta senz’altro positivo.
In sintesi, mi pare che l’ecumenismo sia oggi chiamato ad affrontare la ricerca dell’unità fra i cristiani nel contesto di quattro straordinarie fratture che ci fanno sentire il secolo breve appena trascorso (E. Hobsbawm) quanto mai lungo e articolato, sul piano religioso: il contesto geopolitico radicalmente mutato, la rinnovata concezione della missione (slegata dai colonialismi, allargata a tutto il popolo di Dio, avvertita dello scandalo della divisione delle Chiese e fondata sull’appello evangelico), una diversa qualità dei fondamentalismi e una differente geografia delle religioni (con un cristianesimo sempre più globale, l’Africa ormai baricentro cristiano del presente ma ancor più del futuro e l’affermazione di un islam attore protagonista nello spazio pubblico europeo, ad esempio).
All’ecumenismo, così, si richiede di rispondere a una triplice e pressante esigenza: quella di far fronte alla responsabilità della memoria divisa delle Chiese cristiane; di trasformare le divisioni in (legittime) differenze; e di elaborare un progetto comune, praticando l’ermeneutica evangelica dell’alterità. Nell’incontro ecumenico, infatti, l’ascolto reciproco appare soprattutto condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi linguaggi, apprendimento di ciò che può ferire l’altro o essergli irricevibile.
In tal modo, potrebbero allentarsi i pregiudizi, si sconfiggerebbe la paura dell’altro e la tentazione di identificare tout court differenza e divisione: mentre si aprirebbe la possibilità di ripensare con l’altro – e non più contro l’altro! – la propria fede, la sua (faticosa) trasmissione generazionale, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio. Da questo punto di vista, più che parlare semplicemente di crisi dell’ecumenismo, potremmo leggere tale processo in chiave di riorientamento complessivo, che ha tutto da guadagnare da un rapporto virtuoso con una rinnovata teologia della missione.
La forma comune dell’essere cristiani
Si potrebbe allora dire, parafrasando la bella espressione della costituzione conciliare Gaudium et spes: Uniti nell’essenziale, liberi nelle cose dubbie, diversi nell’esprimere in molteplicità di forme lo stesso vangelo (n. 92).
Sì, per noi, cristiani immersi nella cultura della postmodernità, a oltre cent’anni dall’avvio del movimento ecumenico e a oltre cinquanta dal Vaticano II, il dialogo ecumenico non dovrebbe essere dunque un’opzione fra le tante, da perseguire o meno a seconda delle stagioni, bensì la forma comune dell’essere cristiani oggi.
La ricerca dell’unità, da parte dei cristiani, non andrebbe letta come una pura e semplice questione strategica, adottata per il conseguimento della forza ritenuta necessaria contro gli altri, i non cristiani o i (cosiddetti) non credenti. Come spiegò, definitivamente, Giovanni Paolo II nell’Ut unum sint: «L’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche appendice che si aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo» (n. 20).
Spunti per condividere pensieri
In questo scenario, naturalmente discutibile e su cui ci si potrebbe soffermare a lungo, in vista di un bilancio complessivo dell’impegno ecumenico pluridecennale collegato con il processo conciliare su Giustizia, pace e salvaguardia del creato (Basilea 1989 – Graz 1997 – Sibiu 2007), che abbrevio in GPS quasi ad alludere a una bussola postmoderna per i credenti in Cristo nel vecchio continente, propongo di muoverci lungo tre direttrici: a partire dalla constatazione che esso è stato l’evento principale sul versante ecumenico nell’orizzonte del postconcilio. E che va considerato una possibile cartina di tornasole per lo stato di salute del movimento ecumenico nel suo complesso. A ciascuna tappa abbino alcuni interrogativi, ovviamente cambiabili e aumentabili…
Memoria
Quale memoria ha creato GPS? Perché, almeno a una prima lettura, essa appare così labile? E perché soprattutto le generazioni più giovani ne hanno una percezione così scarsa?
Com’è possibile custodire la memoria di eventi simili, in un tempo che vive nell’attimo presente, non valorizza i legami sociali né la storia del passato? E come farlo senza nostalgie acritiche da buon tempo andato, e senza reducismi?
Una verifica importante: quanto la Charta oecumenica – frutto importante di GPS – è penetrata nel vissuto delle realtà ecclesiali locali, come doveva essere al momento della sua stesura? Perché? È sensato e utile un suo rilancio oggi? Se sì, in che modo?
Identità
Di quale identità ecclesiale GPS ha favorito la nascita? E ne è sorta, in ogni caso, un’identità sociale/collettiva più sensibile e impegnata riguardo ai temi della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato? Domande complesse, ma anche ineludibili per un movimento ecumenico che abbia l’ambizione di rispondere adeguatamente a quelli che Giovanni XXIII chiamava i segni dei tempi…
Progetto
Quale futuro per i cristiani e per le Chiese, a partire dall’esperienza di GPS? Se si è esaurito l’ecumenismo delle coccole (così chiamato dal card. Kasper a Sibiu 2007), può funzionare – e bastare – l’ecumenismo del camminare insieme e quello del poliedro, più volte auspicati negli ultimi anni da papa Francesco? È realmente finito l’inverno ecumenico?