Quasi diciotto anni dopo la sua apertura, avvenuta a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, il centro di detenzione statunitense di Guantánamo Bay (Cuba) è ancora in funzione. Vi si trovano, al momento, solo 40 detenuti – tutti sospettati di essere terroristi – rispetto al massimo di circa 700 raggiunto al picco della guerra al terrorismo nel 2003.
Ma i costi per mantenere operativa la prigione non sono scesi. Un’inchiesta pubblicata dal New York Times il 16 settembre è giunta alla conclusione che i costi per tenere aperta Guantánamo sono nell’ordine di oltre 540 milioni di dollari – circa 13 milioni a prigioniero.
Il personale militare che lavora nella prigione è composto da 1800 persone, ossia circa 45 militari per prigioniero. Facendo un paragone, il Centro Nazionale di Statistica per l’Educazione ha stimato che il costo annuale per tenere questi 40 prigionieri a Guantánamo equivale a quello che serve per mandare 9000 giovani a studiare in un college o un’università privata.
Guantánamo è molto più costosa di ogni prigione con caratteristiche simili presente sul territorio statunitense. Il Federal Register, per il 2018, ha stimato che il costo medio annuale per incarcerato in prigioni federali ammonta a poco più di 36.000 dollari. Il gruppo Human Rights First ha stimato che il costo pro capite annuale nella prigione federale più cara (US Penitentiary, Administrative Maximum Facility a Florence in Ohio) è di circa 80.000 dollari.
Ma questi sono i costi misurati in dollari e centesimi. Dalla sua apertura nel 2002, il centro di detenzione di Guantánamo Bay è stato segnato anche da accuse di violazioni dei diritti umani, compresa la pratica del cosiddetto waterbording nei confronti dei prigionieri.
Quest’anno un ex prigioniero di Guantánamo, Mohamedou Slhai, ha affermato che la tortura era fatto comune almeno fino verso la fine del 2016. La prigione di Guantánamo Bay, fin dagli inizi, ha dato adito a serie questioni di carattere costituzionale e a riguardo dei diritti umani.
Come la redazione di America ha scritto nel 2008: «le uccisioni di massa che rappresentano una minaccia dopo l’11 settembre richiedono delle misure preventive, ma non delle misure che privano i sospettati dei loro fondamentali diritti a obiettare le ragioni del loro arresto e della loro detenzione», e di avere diritto a un processo ragionevolmente rapido. Prevenire gli attacchi terroristici «non dovrebbe porre i sospettati in una condizione che va oltre i limiti dei rimedi legali».
Più di un decennio fa, il presidente Barack Obama aveva emesso un ordine esecutivo per chiudere, nel giro di un anno, il centro di detenzione di Guantánamo Bay. Come candidato presidenziale Obama nel 2008 aveva promesso che avrebbe agito in questo senso. Il suo maggiore rivale democratico nella corso alla presidenza in quell’anno, il senatore Hillary Clinton, aveva anche lei promesso di chiudere il centro di detenzione.
Il candidato repubblicano alle presidenziali del 2008, senatore John McCain, si era espresso nei medesimi termini, dichiarando che il centro di detenzione era un posto in cui «abbiamo compromesso i nostri valori più alti».
Ironicamente, una delle ragioni che portarono Obama a richiedere la chiusura della prigione erano proprio i suoi esorbitanti costi di mantenimento – più di 900.000 dollari annuali per prigioniero nel 2013. Sei anni dopo tali costi sono solo aumentati.
Obama si è rivelato essere incapace, o non ha avuto la volontà, di dare seguito alla sua stessa decisione; e una delle prime scelte come presidente compiute da Donald Trump è stata proprio quella di revocare l’ordine esecutivo di Obama. La campagna elettorale di Trump nel 2016 si basava anche sulla promessa di tenere aperta Guantánamo e di «riempirla di malviventi e cattivi», di tornare a praticare il waterbording e «anche qualcosa di molto più infernale del waterbording stesso».
Ora il cerchio si è chiuso. Nel frattempo, mentre il teatrino politico su entrambi i lati della scena ha fatto il suo, i diritti umani sono stati violati e la legge sospesa. I metodi straordinari di interrogazione usati a Guantánamo Bay sono andati ben al di là anche di quelle che sono le disposizioni standard stabilite dal US Army Field Manual.
E questi metodi si aggiungono a quello che i prigionieri di Guantánamo avevano dovuto subire in Giordania, Egitto e altrove come esito della cosiddetta «extraordinary rendition» (interpretazione speciale) – uno stratagemma disegnato affinché le persone che conducono gli interrogatori non siano sottoposte alle regole morali e legali di condotta stabilite.
Nessuno nega che i crimini presumibilmente compiuti dai prigionieri detenuti a Guantánamo Bay fossero radicalmente immorali e che rappresentassero un attacco diretto alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ma quello che dovrebbe distinguere gli Stati Uniti dai «cattivi» è il nostro profondo rispetto per i diritti umani e per l’ordinamento legale.
Questa è la fonte della nostra credibilità morale. Il centro di Guantánamo Bay contraddice questi valori. Dovrebbe venire chiuso il più presto possibile e i prigionieri dovrebbero essere trasferiti in un carcere di massima sicurezza e processati in tribunale.
Ma la cosa più importante, come scrisse la redazione di America più di un decennio fa, «il nostro paese deve ancora fare i conti con la nostra accettazione di una politica della paura, che ha portato alla detenzione e all’abuso di centinaia di persone. Nel frattempo il conto continua a crescere.
Nostra traduzione dell’editoriale di America Guantánamo must close, pubblicato il 25 settembre 2019 sul sito della rivista.