I tre moschettieri è la storia del quarto, Moby Dick non parla di balene, Il nome della Rosa non è un giallo medioevale e, soprattutto, Don Chisciotte non descrive un eroe romantico e sfortunato che sogna un mondo migliore. Il romanzo di Cervantes è prima di tutto la triste storia di un prigioniero, che non vede se non quel che vuol vedere e non sente se non quel che vuole sentire.
La colpa è degli “incantatori”
L’antieroe iberico gode però di ottima stampa, come se il suo atteggiamento meritasse una qualche ammirazione, come se ci si potesse ispirare alla sua figura per rivendicare il diritto di sognare una realtà diversa da quella presente. Friedrich Nietzsche e Miguel de Unamuno, María Zambrano e Francesco Guccini hanno infatti attribuito al personaggio caratteristiche piuttosto diverse da quelle che il lettore scopre nei 74 capitoli che occupano (nell’edizione Newton Compton) quasi ottocento fitte pagine.
Lì si trovano, oltre che una serie di novelle e racconti incastonati nella trama principale (che talvolta finisce con l’essere poco più che una cornice) le vicende del folle che è rimasto intrappolato in una gabbia di libri. Tali libri – puntualmente descritti e discussi nel capitolo 6 – gli hanno mostrato un mondo fantastico, privo di qualunque contatto anche nostalgico con la realtà, al quale ha scelto di aderire senza riserve.
Ci si potrebbe chiedere: dove sta il problema? Il fatto di vivere in un cosmo popolato da maghi, cavalieri e principesse non consente forse all’hidalgo di sfuggire al caos della concretezza? Non è l’espressione di un’eroica insoddisfazione per una quotidianità mediocre? Non è pura fedeltà all’ideale? Non è espressione di generosità spirituale? Non si tratta di una condizione ammirabile?
Certo che no. Non basta essere «puri di cuore», voler difendere i deboli e lottare contro le ingiustizie – o dire di farlo – per compiere davvero buone azioni; non basta avere intelligenza ed eloquio per essere capaci di comprendere il mondo e di renderlo migliore. La realtà parallela che Chisciotte vede gli fa compiere una serie di atti sempre insensati e spesso pericolosi per se stesso, per il suo disgraziato scudiero e per coloro che hanno la sfortuna di incontrarlo.
Tutti conoscono l’episodio dei mulini a vento presi per giganti (occupa una pagina e mezza nel capitolo 8): ma è solo il primo di una lunga serie di grossolani fraintendimenti.
Nel suo delirio, egli prende le locande per castelli, inventa dal nulla l’esistenza di una dama di cui essere perdutamente innamorato, vede frati e li crede incantatori, scambia pecore e montoni per eserciti schierati in battaglia, un corteo funebre per un gruppo di fantasmi, bacinelle per elmi, otri di vino per altri giganti, teatranti per demoni, mulini ad acqua per fortezze.
Quando è messo di fronte all’evidenza che il suo modo di vedere le cose è clamorosamente errato o che le sue azioni hanno avuto conseguenze disastrose, il «cavaliere errante» ha pronta la spiegazione: sono «tutte opere degli incantatori che mi perseguitano» (così nel capitolo 67, ma di frasi simili è disseminato il libro). Questa spiegazione paranoica e complottista è la risposta che gli permette di non uscire dalla sua blindatissima echo chamber.
Come porsi davanti a don Chisciotte?
Il mondo esterno alla realtà fantastica in cui vivono don Chisciotte e (spesso suo malgrado) Sancho Panza è diviso in tre parti, di dimensioni fortemente diseguali.
La grande maggioranza si fa beffe della follia del protagonista, architettando scherzi e truffe («decisero di andare avanti con le burle, avendo il soggetto adatto per farle sembrare vere», capitolo 42): è il tema principale del romanzo, che in questo modo faceva e fa ridere i lettori. Col crescere della fama delle gesta del cavaliere errante, cresce anzi il numero delle persone (di qualunque condizione sociale) che sono disposte ad assecondarlo e a rafforzare le sue convinzioni per farsi beffe di lui e in qualche caso per manipolarlo.
Poi ci sono alcuni (pochi) che cercano di farlo rinsavire, con toni più o meno forti: «Non riesco a credere che un uomo come la signoria vostra, da più parti apprezzato per il suo squisito ingegno e per i suoi tantissimi pregi, possa ritenere veritiere quelle innumerevoli e insulse assurdità» (cap. 49); «Tu sei pazzo, e se lo fossi per conto tuo e dentro il recinto della tua pazzia, sarebbe il male minore, ma hai la capacità di far ammattire e istupidire tutti quelli che ti frequentano e hanno a che fare con te» (cap. 62). Tali parole non servono però a nulla.
E, infine, ci sono gli amici di don Chisciotte: il curato, il barbiere mastro Nicola, il baccelliere Sansone Carrasco, la governante e la nipote. Questi, talvolta a loro rischio, cercano di proteggerlo da se stesso: gli parlano con pazienza, lo assistono con generosità, cercano di trovare il modo per fargli trovare la via che gli permetterà di tornare, fisicamente e moralmente, a casa. Il miracolo avverrà – perché di miracolo si deve parlare – solo nell’ultimo capitolo, alla vigilia della morte: «ora io sono in possesso del mio giudizio, libero e chiaro, senza le ombre caliginose dell’ignoranza in cui ero stato avvolto dalla mia amara e incessante lettura dei detestabili libri di cavalleria. Ormai riconosco le loro assurdità e i loro inganni, e l’unica cosa di cui mi rammarico è che questo disinganno sia giunto così tardi» (74).
I moderni don Chisciotte
Durante la lettura, il mio pensiero andava continuamente ai don Chisciotte che vivono con noi, e che, per meccanismi che non riusciamo a spiegarci, a un certo punto sono entrati nella loro personale prigione, nella quale vedono solo quel che vogliono vedere e sentono solo quel che vogliono sentire, e fanno dipendere qualunque giudizio su ciò che avviene e qualunque scelta intendono fare dalla precomprensione del mondo che hanno maturato. Al punto da non riconoscere coloro che li vogliono truffare, al punto da allontanare con rabbia chi cerca di metterli di fronte ai fatti, al punto da scoraggiare gli amici che vorrebbero farli tornare ad avere un rapporto meno distorto con la realtà.
Un post complottista su Facebook, scritto da chissà chi e per chissà quali motivi, per loro conta molto di più della scienza, della cultura, dell’amicizia. Può essere che, nel parlare in questi termini, sia vittima io stesso della mia personale camera dell’eco: ogni percezione della realtà è infatti condizionata dai modelli e dalle rappresentazioni che si sono costruite nel corso della vita. Un poco di umiltà e di prudenza nel giudicare è dunque necessaria.
Ma nel romanzo la distanza tra i tanti piccoli pregiudizi delle persone che popolano le pagine e la dimensione irreale in cui il protagonista ha scelto di vivere è enorme: e io non mi rassegno all’idea che non ci sia una possibilità di distinguere la normalità di un tessuto di relazioni dalla prigione della stupidità. Non è facile uscirne, ma rimaniamo accanto gli uni agli altri e attendiamo il miracolo.
Pubblicato su «Il Margine», n. 4-5/2019.