Qualche mese fa SettimanaNews ha pubblicato un testo di Theobald che merita di essere ripreso. Si parlava del futuro della fede in Europa, e del compito di prendersi carico della “fede elementare” i cui confini non coincidono con la pratica religiosa. Ho colto in questo testo una provocazione a ripensare il compito delle nostre comunità a riguardo della cura della fede. Queste note sono un tentativo di riprendere il filo di quella intuizione.
Gesù ha cominciato dalla “Galilea delle genti”
Matteo racconta l’inizio del ministero di Gesù con un’indicazione di movimento di luogo: Gesù abbandona la Giudea (Mt4,12) e si ritira in Galilea, meglio attestata come «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Qui inizia la sua predicazione, l’annuncio del Vangelo del Regno, della buona notizia della misericordia del Padre.
Per Gesù il luogo propizio non è la Giudea, dove, attorno a Gerusalemme e al tempio, la fede di Israele custodiva la sua “ortodossia”. Di contro, sceglie la «Galilea delle genti».
La Galilea è una terra di “meticciato”, con la compresenza di pagani e israeliti, di movimenti spirituali emergenti e di uomini e donne esiliate dalle istituzioni religiose; genti impure, lontane, eretici come i samaritani e zelanti credenti come i farisei.
Gesù comincia da qui. Come? Semplicemente cammina: frequenta le strade, le case, le città, qualche volta anche le sinagoghe. Questo cammino si arricchisce di incontri, ed è proprio nella trama di queste relazioni che Gesù diventa la sorgente di cammini di fede sorprendenti.
Dentro la vita della gente
In questo contesto ordinario (casa, strade, città) e composito (pagani e giudei, genti da tutte le razze), Gesù a chi si rivolge e come vive i suoi incontri?
Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono i più diversi: le folle (che, se spesso appaiono sinonimo di anonimato e di ostacolo all’incontro con Gesù, eppure non di meno sono oggetto della sua compassione, predicazione e cura), uomini e donne che hanno come unico comune denominatore una certa marginalità (malati e indemoniati, donne e pagani), “compagni di strada” che si mettono a seguirlo (tra cui troviamo sia uomini che donne), che diventano discepoli anche se non sempre e non tutti presenti nel cammino del Maestro, e gli apostoli, chiamati personalmente e destinatari di una vocazione particolare.
Non tutti seguono Gesù e la maggior parte viene semplicemente rimandata a casa guarita, salvata nella fede.
In tutti questi incontri Gesù riaccende una fede che sembrava perduta. Lo fa con uno stile di ospitalità che un teologo francese descrive così: «egli crea uno spazio di libertà attorno a sé, comunicando tuttavia, con la sua sola presenza, una benevola prossimità a coloro che lo incontrano. Questo spazio di vita permette loro di scoprire la loro più propria identità e di accedervi a partire da ciò che già li abita in profondità e che si esprime istantaneamente in un atto di “fede”: credito accordato a colui che sta di fronte e, al tempo stesso, alla vita tutta intera» (C. Theobald, “Il cristianesimo come stile”, in Il Regno-att. 14,2007,490ss).
È questa che potremmo chiamare “fede elementare”, che non significa affatto di minor valore rispetto – ad esempio – alla fede dei discepoli e degli apostoli. Anzi, a volte Gesù indica proprio questi “credenti elementari” come esempio di quella “fede che salva”, che apre alla vita e che loro stessi devono ancora apprendere.
Incontri che riaccendono la fede
Su questa “fede elementare” possiamo dire ancora almeno due elementi: dove ha le sue radici e quali sono i frangenti della vita nei quali essa può manifestarsi?
Prendiamo l’esempio di quell’ufficiale romano che a Cafarnao implora l’intervento di Gesù a favore del suo servo. Egli è un pagano, un militare, eppure «Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!”» (Mt 8,10). Dove ha imparato a credere quest’uomo? Non certo sui banchi di catechismo o nella sinagoga. Lui lo dice in qualche modo: nel suo lavoro di soldato, abituato a obbedire e a comandare, ad essere “uomo di parola” («Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa» Mt 8,9). E questa “fede antropologica”, questa fede che s’impara nella vita, viene come “attivata”, riaccesa, riscattata dall’incontro con Gesù.
Il Vangelo è ricco di incontri così e la maggior parte di questi uomini e donne è poi semplicemente rimandata a casa: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. In questo ritorno alla vita ordinaria non c’è un “di meno” rispetto a coloro che sono chiamati a seguirlo per via. Anche questa è una chiamata.
«Perché questo ritorno al quotidiano? Forse è una fase di attesa in vista di una chiamata esplicita alla sequela, intesa come esito di un itinerario giunto a compimento, ossia un: “Va’, non sei ancora pronto, tornerai più tardi”? Oppure è un vero e proprio invio immediato che se ne infischia di qualsiasi pedagogia o iniziazione: “Va’, sei già pronto”? O, ancora, è l’annuncio di quello che sarà il compimento di ciascuno: “Va’ e fa’ come puoi con ciò che hai vissuto. Inventa….”? Ognuno può qui completare la propria lista, ma Gesù, in modo inequivocabile, invita queste persone a ritrovare il loro posto, la loro dignità là dove erano escluse, e così dare testimonianza di quell’esperienza di salvezza; e ciò senza garanzia né servizio di assistenza da parte sua.
Con tali rinvii Gesù sacralizza anche la vita ordinaria e sedentaria, quella del resto da cui egli stesso proviene, lui che ha trascorso circa trent’anni nell’anonimato di Nazaret, propedeutico alla sua vita pubblica. La “fede che salva” non può essere dunque analizzata in termini di pre-fede, di preparazione o di preliminare a quello che sarebbe considerato l’esito, la chiamata del discepolo.
Non può essere intesa neppure come una semi-fede. In quando possiede integralmente quel carattere primordiale e necessario del coraggio di vivere nonostante tutto, del desiderio di essere rimessi in piedi, salvati. È una categoria di fede piena e intera, senza aggiunte da parte di Gesù e dei suoi discepoli. Quel “Va’ e torna a casa” è totalmente definitivo e gratuito. È il segno misterioso della venuta del Regno, rivelato agli umili e ai piccoli. È il paradosso di quei rinvii che sono come altrettanti granelli seminati» (Valerie Le Chevalier, Credenti non praticanti, 62-63).
In quali occasioni questa fede “emerge” e può essere riaccesa da un incontro libero e gratuito, da una presenza nel nome di Gesù? In quelle che potremmo chiamare le “faglie” della vita. Ci sono momenti nei quali la vita apre delle crepe rivelative. Sono a volte momenti di crisi, di fatica e di sofferenza; sono a volte momenti di grazia sorprendente (una nascita, un amore….); sono eventi inaspettati che ci fanno vedere le cose in modo nuovo. Ecco, se nel crocevia di queste “faglie” un incontro ospitale offre una presenza gratuita nel nome di Gesù, è possibile riaccendere quella fede che era presente ma come in attesa.
La fede è giunta al capolinea
Questo ha delle conseguenze importanti per le nostre comunità. Assistiamo ad un crollo della pratica religiosa. Quasi ad un esodo dalle istituzioni religiosi – e nel nostro caso dalla Chiesa cattolica – che sembra irreversibile e le cui conseguenze non riusciamo ancora a interpretare compiutamente.
Bastano alcuni dati per comprendere ciò che sta accadendo. Le chiese si svuotano. Resta una domanda “religiosa” (i sacramenti per i bambini, per i momenti topici della vita, la celebrazione del momento della morte), che però viene sostenuta da delle comunità sempre più esili, con forze sempre più esigue.
In particolare, le giovani generazioni non si rivolgono più alla Chiesa per rispondere alle domande esistenziali della loro vita. Stiamo perdendo il contatto con queste generazioni, con il loro linguaggio, il modo con cui affrontano la vita. Sono generazioni “digitali”, “virtuali”, con modi di pensare che non si ritrovano più nel linguaggio tradizionale del nostro cristianesimo.
Qualcuno ha parlato anche dell’esodo delle donne, anch’esse sembrano sentirsi estranee ad un mondo come quello ecclesiale che non pare – malgrado le dichiarazioni – riconoscere il nuovo ruolo che la donna cerca nel mondo ordinario. Tutto questo viene vissuto con sentimenti diversi: senso di colpa, risentimento, senso di impotenza.
La Chiesa sta diventando una presenza di minoranza nel mondo secolarizzato. Questo significa la fine della fede? Non credo. Ci pone in un orizzonte nuovo, che ha delle opportunità straordinarie. Siamo, in qualche modo, rimandati alla scena originaria del Vangelo, a quella Galilea delle genti” che Gesù amava.
Siamo chiamati a vivere degli incontri ospitali e gratuiti che diventano una possibilità di riaccendere quella fede “clandestina” e silente che abita nel cuore di ogni uomo e donna.
Siamo chiamati a non chiuderci risentiti tra le mura delle nostre parrocchie, coltivando uno spirito di estraneità e di opposizione al mondo secolarizzato (è il rischio di diventare una setta!) ma di aprire le porte per essere una chiesa ospitale. C’è ancora un compito per il cristianesimo nel futuro del nostro occidente secolarizzato.
Il mondo è dominato da un pensione unico fatto di relativismo totalizzante. L’uomo è signore di se stesso e vuole autocomprendersi lontano da Dio; ed ecco l’ideologia gender, l’* e lo schwa, l’aborto come diritto umano, l’utero in affitto, la manipolazione genetica, il postumanesimo, il transumanesimo. Non è con il confuso pastoralismo che si può guardare a tutto ciò, ma proclamando con serena fermezza la verità sull’uomo.
La Parola non è un concetto da praticare meccanicamente. È un seme di grazia che porta per un personale cammino verso il compimento del vangelo. Il padre spirituale può tendere a dare risposte prefabbricate. Invece di aiutare a maturare nel sereno discernimento del proprio cammino. Tale crescita può risultare un aiuto decisivo anche per una liberazione della società del pensiero unico. Gli schemi, tra l’altro, abituano all’autoreferenzialità, il discernimento personalizzato apre al confronto.