La via del mare, dalle vicine sponde nordafricane a Lampedusa, è solo una delle strade che portano in Europa. Le migrazioni di chi è profugo, disperate e disperanti, si sviluppano anche per altre strade, principalmente Ceuta (tra Marocco e Gibilterra) e la rotta Balcanica (dalla Grecia alla Croazia).
I media e la realtà
L’ossessione mass mediatica per gli sbarchi non lascia spazio ad una comprensione più articolata del fenomeno migratorio e non porta all’attenzione quello che succede nell’entroterra del mar Adriatico. Questa è la prima cosa che si impara andando a Bihac, una delle tappe della rotta balcanica. Via, da non dimenticare, che è sempre stata usata dai sistemi illegali: per la droga, poi per le armi e ora per le persone.
Cittadina bosniaca distante solo una decina di chilometri dal confine croato, nella repubblica “Serpska” di Bosnia, ha una popolazione di 60.000 abitanti, a maggioranza musulmana, più circa 6-7.000 profughi che, con una permanenza media di circa 6-8 mesi, vivono in 5 campi sparsi. Provenienti per lo più da Afghanistan, Pakistan, Siria.
Qualcuno anche dalla Palestina e da altri paesi nordafricani. Migliaia di chilometri fatti a piedi o con mezzi di fortuna, in mesi quando non in anni vissuti in viaggio. La stragrande maggioranza è costituita da giovani, maschi tra i venti e trenta anni, ma anche da minori non accompagnati e da giovani famiglie, spesso cresciute durante il tragitto con la nascita di bimbi e bimbe, ovviamente piccolissimi.
Tensioni locali
Da una parte c’è una popolazione, quella locale, sempre più irritata da questa presenza, nonostante l’economia che alimenta, legale e illegale.
Dall’altra ci sono giovani con poche cose nello zaino che non vedono l’ora di raggiungere un amico, un parente, un indirizzo in qualche angolo dell’Europa, e che passano il tempo coatto della loro permanenza a preparare il viaggio “buono”, quello finalmente senza respingimento dall’imponente sistema di controllo frontaliero croato sostenuto dalla Unione Europea.
In genere, dopo 7 o 8 tentativi ci si riesce. I costi non sono indifferenti. Complessivamente si tratta di alcune migliaia di euro per i vari attraversamenti.
La città è stata sottoposta a grande pressione bellica nel corso di quattro anni di guerra balcanica. Attualmente è sottoposta ad una crescente emigrazione giovanile, soprattutto verso la Germania. Segni marcati della guerra se ne vedono ora pochi. La ricostruzione e le rimesse dei (propri) migranti hanno permesso di sistemare molte case.
L’assetto è quello di un contesto povero e con pochi servizi. Luogo turistico di montagna, disposta su un bellissimo fiume – l’Una – è paradossalmente, ma forse non troppo, meta di ricchi arabi che vengono in vacanza. Nei locali in riva al fiume si possono incontrare donne arabe con il niqab, giovani appassionati di kajak, proposte di rafting e, sempre più defilati, profughi di passaggio ospiti dei diversi centri.
Condizioni di vita
I centri ufficiali, formalmente, non sono chiusi: le persone possono andarsene, solo che se ritardano a rientrare (ovvero, vengono respinte durante la traversata che dura più giorni) perdono il diritto al letto (in box con altre 4-6 persone), al cibo (scarso), al lavaggio di sé (l’odore nei bagni è nauseante) e della propria biancheria. Servizio sanitario e tutela legale ufficialmente ci sono. Sta di fatto che una delle cose che colpisce di più visitando Bihac è il numero delle farmacie utilizzate dai profughi.
C’è anche un campo profughi “informale”, cresciuto sulle montagne ad una quindicina di chilometri dalla città. A seguito dei rastrellamenti svolti dalle autorità locali su pressione della cittadinanza, da questa estate 6-700 persone in media vivono, con accesso presidiato dalla Polizia, in tende di emergenza, con qualche servizio, qualche cisterna d’acqua, possibilità di ricarica dei cellulari, un minimo di alimentazione garantita, e tanta sporcizia.
Chiunque venga trovato per strada – per fare acquisti alimentari, per cercare farmaci, per comprare scarpe per il viaggio – viene mandato in questo luogo. Se è ospite del campo ufficiale, deve poi farsi due tre ore di cammino per rientrare. A differenza di quel campo, però, se dispone di qualche denaro inviato dalle famiglie o dal clan di origine, può acquistare cibi etnici cucinati sotto tettoie di fortuna. L’accampamento, infatti, è suddiviso per etnia o nazionalità ed ha sviluppato una microeconomia propria.
Segregazione nel cuore dell’Europa
Le dinamiche sono quelle dei luoghi segregati, delle istituzioni totali nel campo ufficiale, o delle comunità coatte (come favelas), in quello informale. Alla fatica di sopravvivere, fisicamente, moralmente e psicologicamente, durante il lungo cammino, si aggiunge la necessità di una “altra” sopravvivenza in questi “non luoghi” fatti di attesa, di sottomissione alle logiche del più forte, di sudditanza a chi può farti (credere) che potrà decidere sulla riuscita del tuo attraversamento. Di violenza non se ne vede. Rimane il fatto che non poco è il personale di Polizia e della sicurezza privata presente. E, come si sa, questo non è di per sé una garanzia di sicurezza, anzi.
Sia nei campi ufficiali sia in quello informale operano, a fianco delle istituzioni internazionali, ong locali o straniere. Il progetto di Ipsia-Caritas lombarda, impersonificato da alcune giovani e tenaci donne – di cui due, Greta e Lucia, italiane – rappresenta una parentesi per la “vita sospesa” di questi giovani profughi.
Dentro un ex grande capannone industriale, 5 giorni alla settimana, grazie ad un piccolo chiosco installato nelle vicinanze dell’ingresso, si crea uno luogo di sollievo, una parentesi di vita normale, come potrebbe essere il bar/locanda che si frequentava prima di partire. Un po’ di the, musica mixata con brani di diversa nazionalità, tavoli e panche su cui sedersi e conversare, qualche gioco di società e l’immancabile pallone. Per questa iniziativa non è prevista la sicurezza privata. Non ve ne è bisogno. Il che la dice lunga sulla credibilità e l’autorevolezza che viene riconosciuta a queste ragazze.
Lo scarto tra le contraddizioni che si concentrano in queste storie e l’impatto di un piccolo chiosco dentro un ex capannone industriale abitato da oltre 1.200 profughi è incommensurabile.
Politiche contraddittorie
Da una parte, c’è una contraddizione cui la politica europea e nazionale, nelle sue diverse espressioni, non dà soluzione: l’Europa ha bisogno, per tanti motivi ampiamente dimostrati da autorevoli organismi nazionali e internazionali, di questi ragazzi, ma al contempo gli europei, che votano i loro rappresentanti politici, grazie anche ai mass media, ne hanno timore. Un timore che si trasforma poi nella paura dei politici di non essere eletti.
E allora o si cavalcano strumentalmente le vicende di cronaca per acquisire consenso; o si balbetta, con soluzioni spesso ipocrite, preoccupati di perdere quel consenso.
Dall’altra, dietro questi ragazzi ci sono famiglie e clan che “investono” e li sostengono, come possono, nel viaggio che intraprendono. Il fallimento diventa allora, per certi aspetti, il tradimento della famiglia o del clan. Difficile anche solo da immaginarne il peso psicologico, per chi, come noi, vive in Occidente.
Shadow Men Walking
In mezzo ci stanno queste vite in carne ed ossa, comparse più o meno inconsapevoli in balia di un copione che li rifiuta ma non li può negare, visto che dopo tutto sono funzionali a tanti interessi, materiali o politici, mai esplicitamente dichiarati.
Per cui devono stare nell’ombra, in margini poco visibili…. Come nel film “Dead men walking” – diretto da Tim Robbins e basato sull’omonimo romanzo autobiografico di suor Helen Prejean sui condannati a morte – si tratta di vite “condannate” a stare nell’ombra, “shadow men walking” potremmo definirle. Farle uscire dall’ombra, anche solo per poche ore, non modifica il quadro generale, ma è certamente una ricarica di dignità e di energia.
A questo articolo hanno contribuito: Betta Ravanini, Chiara Lasagna, Massimo Campedelli e Rodolfo Merlini.