- Sussiste l’aggravante della commissione del fatto con finalità di discriminazione etnica e razziale ex articolo 3, comma 1, della legge 25 giugno 1993 n. 205 (ora art. 604 ter cod. pen.), qualora il delitto di diffamazione di cui all’articolo 595 del codice penale venga commesso tramite l’utilizzo di frasi dotate di chiara valenza discriminatoria in quanto espressive dell’idea della superiorità di una razza rispetto all’altra e dell’inferiorità della cultura del paese d’origine della persona offesa e qualora tali frasi, indipendentemente dall’intenzionalità di chi le proferisce, siano indicative di un pregiudizio fondato esclusivamente sull’appartenenza etnica.
È il principio di diritto affermato dalla V Sezione della Corte di Cassazione, la quale, con una seconda sentenza depositata a pochi giorni di distanza dalla prima, conferma una nuova condanna dell’ex europarlamentare Mario Borghezio per reati aggravati dall’odio razziale: mentre con la sentenza del 22 luglio ne era stata accertata la penale responsabilità in riferimento al reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, con la sentenza del 30 luglio il reato contestato all’imputato, a seguito di alcune dichiarazioni rese nell’ambito di un’intervista radiofonica, è quello della diffamazione di una Ministra della Repubblica.
Il fatto
Il procedimento penale trae origine da una nota della Digos di Modena del 15 maggio 2015, con la quale viene trasmessa alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Modena la registrazione integrale della trasmissione radiofonica La Zanzara andata in onda nelle frequenze di Radio 24 alle ore 18,30 del 29 aprile 2013, nel corso della quale l’on. Mario Borghezio, deputato leghista presso il Parlamento Europeo, pronuncia frasi dal contenuto discriminatorio nei confronti della neoministra dell’Integrazione, nel Governo Letta, on. Cécile Kyenge, cittadina italiana originaria della Repubblica Democratica del Congo e medico della ASL, nota per le battaglie da lei condotte per la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione (CIE) e per la modifica della legge sulla cittadinanza sulla base del principio dello ius soli.
Dopo aver disposto l’iscrizione nei confronti dell’indagato per il delitto di diffamazione, aggravato dall’odio razziale, in danno dell’on. Kyenge, il procedimento viene trasmesso per competenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano la quale contesta all’imputato il reato di propaganda dell’odio razziale.
Nel corso dell’intervista l’ex europarlamentare leghista, che saluta gli ascoltatori dicendo “Buona Padania”, critica il nuovo Governo definendolo “del Bonga Bonga”, qualifica la neoministra on. Kyenge “la casalinga di Modena” che potrebbe fare “l’assistente sociale di un comune di 500 abitanti, non il ministro del governo della Repubblica Italiana”, ne critica le iniziative in tema di ius soli affermando “non siamo congolesi, abbiamo un diritto millenario, gli africani sono africani”, dichiara che la cittadinanza italiana alla neoministra “era stata data alla cazzo”, L’intervista, qui sommariamente riassunta, si conclude con la seguente affermazione riferita all’on. Kyenge: “Le abbiamo dato un posto in un’ASL che evidentemente è stato tolto a qualche medico italiano: beh, buon per lei”.
Per evitare di essere tratto in giudizio l’allora europarlamentare leghista invoca i privilegi e le immunità previste dalle leggi europee. Ma il 25 ottobre 2016 il Parlamento Europeo esprime parere negativo sull’immunità richiesta, considerando che le dichiarazioni di Borghezio «non presentano alcun collegamento diretto ed evidente con le sue attività parlamentari», «vanno al di là del tono che generalmente si riscontra nel dibattito politico», sono «di natura profondamente inadeguata alla dignità del Parlamento» e contrastano con l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale.
Per le frasi pronunciate, il parlamentare leghista viene, dunque, processato con l’imputazione non di propaganda di odio razziale, ma di diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione etnica e razziale.
La Cassazione conferma quanto deciso dal Tribunale e dalla Corte d’Appello
Nel corso del processo, l’imputato spiega che le dichiarazioni fatte durante l’intervista riassumono “con un linguaggio un po’ disinvolto” il suo pensiero politico, afferma che non ha mai “sostenuto tesi di supremazia della razza europea o bianca o italiana”, chiarisce che la sua era una critica alla politica del Governo che aveva scelto come ministro una persona contraria alla chiusura dei CIE e inadeguata “perché non conosce il nostro diritto, la nostra cultura giuridica e perché fa delle scelte che non appartengono alla nostra cultura giuridica”, ammette di avere conosciuto l’on. Kyenge solo in epoca successiva, in qualità di parlamentare europea, e che oggi sarebbe stato “più attenuato nelle critiche”, puntualizza che qualificare quello del presidente Letta il “Governo del Bonga Bonga” significa dire che si tratta di un “Governo raffazzonato, folcloristico” e che l’affermazione sulla cittadinanza italiana concessa un po’ “alla cazzo” non era altro che “una battuta cattiva che oggi probabilmente non ripeterei”.
Pur concedendo le attenuanti generiche per il buon comportamento processuale e per quella, sia pur minima, resipiscenza dimostrata poco dopo il fatto nel porgere formalmente le proprie scuse all’on. Kyenge con una lettera inviata al Presidente della Parlamento Europeo on. Martin Schultz, la Corte d’Appello di Milano nel maggio 2018 conferma la sentenza del Tribunale decisa nel maggio 2017, con la quale si afferma la penale responsabilità dell’imputato per il reato di diffamazione, aggravata dalle finalità di discriminazione etnica e razziale, condannandolo altresì al risarcimento dei danni, azionati dall’on. Kyenge costituitasi parte civile, determinati in via equitativa nella misura di euro 50.000.
Il ricorso in Cassazione proposto dall’imputato si articola in cinque motivi (dalla plurima violazione del diritto di difesa alla mancata applicazione della scriminante del diritto di critica politica, dall’erroneo apprezzamento della aggravante della finalità di discriminazione etnica e razziale alla mancata applicabilità dell’immunità parlamentare ad un parlamentare europeo).
La Cassazione, nel dichiarare infondate tutte le censure prospettate nei motivi del ricorso, conferma definitivamente la penale responsabilità dell’imputato per il reato di diffamazione aggravata da finalità di discriminazione etnica e razziale e lo condanna altresì al pagamento delle spese processuali.
Dalla lettura degli atti relativi all’intero procedimento penale in questione emergono alcuni importanti principi di diritto in tema di diffamazione aggravata dall’odio razziale e sul rapporto che intercorre tra diritto di critica politica, libertà di pensiero e reato di diffamazione. Principi che è utile esplicitare in considerazione degli episodi di razzismo che sembra si stiano verificando oggi in aumento esponenziale in Italia e che forniscono un’immagine preoccupante di un Paese che da storicamente solidale e culturalmente accogliente si sta trasformando in una società contaminata dall’odio verso gli stranieri e “il diverso”.
Sul reato di diffamazione aggravata dall’odio razziale
La diffamazione è un reato previsto e punito dall’articolo 595 del codice penale, che consiste nell’offesa all’altrui reputazione fatta alla presenza di più persone.
Ai fini della configurabilità del reato di diffamazione è necessario che la persona offesa non sia presente o, almeno, che non sia stata in grado di percepire l’offesa.
In caso contrario è integrabile il reato di ingiuria (articolo 594 del codice penale) che tutela l’onore e il decoro di una persona.
Costituisce diritto vivente ritenere lesivo della reputazione altrui ogni giudizio che presenti un soggetto, nelle sue caratteristiche identitarie o nel modo di agire, in contrasto sia con i valori di rango costituzionale della persona, sia con quelli giuridici, sia con quelli socio-culturali (tra i quali non possono non rientrare le qualità professionali dell’individuo), purché si tratti di valori attinenti a qualità fondamentali per il valore della persona stessa.
Si tratta di diritti fondamentali della persona umana, contemplati dagli articoli 2 e 3 della Costituzione e, in particolare, relativamente al caso qui esaminato, del diritto alla pari dignità sociale e all’uguaglianza tra cittadini davanti alla legge, a prescindere dalle differenze di sesso, razza, di lingua e di religione.
Il reato di diffamazione, aggravato dall’odio razziale, costituisce una species del più ampio genus dei discorsi di propaganda razziale. L’aggravante partecipa, infatti, della medesima offensività del reato di propaganda razziale.
La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso si concretizza nel caso di ricorso ad espressioni ingiuriose che rivelino l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica.
Essa sussiste non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una razza. La ratio della disposizione in questione è quella di sanzionare con maggiore severità i reati (puniti con pena diversa da quella dell’ergastolo) commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, esprimendo un giudizio di disvalore e di esecrazione per condotte che alla precipua antigiuridicità assommino un’ulteriore valenza lesiva, siccome obiettivamente rivelatrici di uno dei sentimenti espressamente considerati.
È lecito criticare nel rispetto della altrui dignità
Come si è detto sopra, il reato di diffamazione punisce chiunque offenda l’altrui reputazione comunicando con più persone, anche attraverso la stampa.
Tuttavia, sempre il codice penale, all’articolo 51, indica tra le cause di giustificazione idonee ad annullare la rilevanza penale di un comportamento anche l’esercizio di un diritto.
Certamente è un diritto, previsto dall’articolo 21 della Costituzione nonché dall’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, quello di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Proprio in ragione del fatto che nel nostro ordinamento è riconosciuto il diritto di critica politica, si pone il problema di comprendere come esso si possa interfacciare con il reato di diffamazione. Fino a che punto può spingersi la critica politica, rimanendo comunque al di fuori dell’area del penalmente rilevante?
Il procedimento penale a carico dell’ex europarlamentare Mario Borghezio offre importanti spunti per rispondere alla domanda.
Indubbiamente le eccezioni alla libertà di espressione, costituzionalmente tutelata, vanno interpretate in senso restrittivo e la necessità di ogni restrizione deve essere adeguatamente motivata.
Peraltro, il diritto di manifestare il proprio pensiero mediante la manifestazione di un’opinione politica dissenziente e critica deve rispettare il limite della continenza. Deve consistere, cioè, in un dissenso motivato, espresso in termini misurati e necessari, che non trasmodino in attacchi personali, lesivi della dignità morale e intellettuale della persona, che, in qualsiasi contesto di vivace polemica, rimane comunque penalmente tutelata.
Il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta. Ed è tale la critica strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, che non trasmoda nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione. Il requisito della continenza deve ritenersi superato in presenza dell’utilizzo di termini che abbiano accezioni indebitamente offensive e non abbiano, alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato, significato di mero giudizio critico negativo.
In sostanza, il pensiero critico non può essere espresso mediante eccessive forme di biasimo e di riprovazione. La critica politica non è e non può essere sinonimo di pura e semplice contumelia o, comunque, di linguaggio gratuitamente espressivo di sentimenti ostili. È cruciale, anzi, per i politici che si esprimono in pubblico, evitare commenti che possano favorire l’intolleranza.
La tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario anche nelle società democratiche sanzionare ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull’intolleranza.
Conseguentemente la libertà di parola non può essere considerata senza limiti, se esercitata da membri di organizzazioni o partiti politici che si propongono la distruzione di valori e principi protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, costituendo siffatte condotte un abuso del diritto che giustifica l’ingerenza statuale.
In conclusione, il limite immanente all’esercizio del diritto di critica politica è essenzialmente quello del rispetto della dignità altrui, che l’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea considera «inviolabile».